In
risposta alla sfida di emme,
che aveva chiesto una storia basata su
questa
canzone popolare. L'obbligo era che lei dovesse essere più
grande di lui. Donna, questa cosa mi ha fatto impazzire per tutta la
settimana e mi è uscita di getto adesso – e quando
dico di getto,
vuol dire proprio di getto. Vuol dire che voi che vi apprestate a
leggere troverete un guazzabuglio dialettale e una grammatica da
paesello di provincia.
*
Lo
spazzacamino
Avevo
quattordici anni quando mio padre comprò la Lambretta del
'52 del
nipote di Gazzotti per mandarmi a fare l'apprendista dal barbiere.
Erano mesi che cercava una ragazzetto a cui far tirare su i capelli
tagliati e tenere un po' d'ordine fra i rasoi e i pennelli da barba,
ma al paese i miei coetanei erano quasi tutti figli di contadini, e
d'estate se ne andavano a trebbiare col babbo e gli zii. C'erano poi
i figli del dottore, ma l'unica cosa del barbiere che si filavano era
la figlia Rosina, che aveva fatto diciassette anni quella primavera
ed era proprio una bella ragazza.
Piaceva
a tutti, la Rosina, ma io era solo un bambinetto che ci dava di
ramazza nella bottega del padre e lei già andava a ballare
dall'altra parte del fiume con le amiche. Le guardavo la gonna bianca
sperando di poter intravedere l'orlo delle mutandine, ma non c'era
proprio nient'altro che potessi farci.
Cecco
mi faceva lavorare dal lunedì al sabato, e alla domenica mi
lasciava
libero un po' prima che mi toccasse andare la Messa, così
avevo
l'intero pomeriggio libero. Mi dava cinquemila lire al mese, e non
avendo ancora la morosa da portare fuori riuscivo pure ad allungarne
qualche mila a mia madre per andare al mercato a fare la spesa.
Capitava
che mi lasciasse da solo in bottega per andarsene al bar, quando
c'era davvero poca gente e sapeva che non avrei fatto altro che
spazzare un po' in giro, sistemare le sedie e riordinare le lame
sulle mensole. Fu in uno di quei pomeriggi che incontrai per la prima
volta la maestrina Rossa.
Era
una donna con i capelli scuri tutti ricci e nascosti sotto il
cappello e portava sempre un foulard che a me ricordava una di quelle
bellezze americane che vedevo sempre al cinema di San Michele. Era
bella, forse perfino più bella della Rosina, ma a me non
è che
fregasse molto. Mio zio Gianni mi aveva detto che la chiamavano la
maestrina Rossa non perché avesse sempre la bocca pitturata
con
quella roba strana che faceva impazzire mia sorella, ma
perché era
una comunista che si era rifiutata di cavarsi dal partito e il
governo l'aveva messa a casa da scuola. Non ci avevo capito niente,
né del rosso né del partito né del
governo, e non ci volevo capire
niente.
Quando
entrò la maestrina Rossa ci rimasi un po' male,
perché Cecco
tagliava i capelli agli uomini e ai ragazzini, mica alle donne in
tiro con i foulard da americana.
«Ciao»
mi salutò con un sorriso gentile. «Sei il piccolo
Franco, vero? Il
figlio dello spazzacamino?».
Annuii,
senza mollare la scopa dalla presa e cercando di immaginare cosa
potesse volere da me o da mio padre. Che avesse il camino tutto
chiuso? Possibile, ma perché non andare subito da mio padre?
Lei si
tolse il cappello dalla testa, liberando la folta chioma scura e si
indicò appena la fronte. I riccioli le arrivano quasi
davanti agli
occhi – ed erano azzurri, e prima non me ne ero proprio
accorto.
«Non
è che potresti accorciarmi la frangia?».
Cecco
mi aveva insegnato un po' a tagliare i capelli, ma non lo avevo mai
fatto sul serio e non potevo farlo senza di lui. Non sapevo nemmeno
cosa cambiasse dalla testa di un uomo a quella di una donna, a parte
che quest'ultima ce l'aveva sempre ricoperta di sciarpe e nastrini e
cose assurde che a me facevano davvero schifo. La maestrina Rossa no,
però: lei aveva solo tutti quei ricciolini scuri davanti
agli occhi,
e per qualche motivo afferrai lei forbici e la feci sedere davanti
allo specchio.
*
Avevo
sedici anni quando iniziai a dare una mano a mio padre con i camini
del paese. Di spazzacamini non ce ne erano più tanti,
perché la
gente iniziava a mettere su tutte quelle cose strane che venivano
dall'America con i tubi di ferro e per pulire quelle ci voleva un
sacco di pratica. La Rosina si era davvero sposata con il figlio del
dottore, alla fine, e Cecco ci era rimasto tanto male all'idea che la
sua unica figlia avesse sposato un democristiano che era sempre di
cattivo umore e io non avevo più retto e me ne ero andato;
mio padre
aveva comunque bisogno di due braccia in più e se avesse
dovuto
aspettare quelle di mio fratello Beppe si sarebbe fatto il secolo
nuovo. Tagliavo ancora qualche barba, di tanto in tanto, ma lo facevo
in casa della gente per poche lire, giusto perché mi piaceva.
Caricavo
le spazzole sulle spalle e partivo con la mia Lambretta tutte le
volte che mio padre mi diceva che quello o quell'altro camino era una
cosa facile e potevo cavarmela da solo. Va' te a pensare che prima o
poi mi capitava quello della maestrina Rossa... quello non è
stato
un camino facile per niente, ma perlomeno me la sono cavata da solo.
*
«Ma
davvero non vuoi più continuare a studiare,
Franco?».
La
guardai accendersi una sigaretta bianca e lunga, sempre di quelle che
vedevo al cinema, e rivolgermi un'occhiata penetrante. Era bella, la
maestrina Rossa, e vederla fumare tutta nuda fra i cuscini del suo
divanetto mi dava alla testa. Non so mica cosa combinassi, con lei,
ma so che mi piaceva e finché il suo camino fosse rimasto
intoppato
sarei stato contento.
«Eh,
che ci faccio a scuola? Non mi serva mica quella roba là per
pulire
i camini».
Rise,
e la sua risata era come quella di Nilla Pizzi, tutta fresca ed
elegante, e faceva sempre sorridere anche me.
«Sì,
è vero. Ma sei un ragazzo tanto sveglio che è
proprio un peccato
sapere che non tornerai a scuola».
«E
lei, maestrina? Lei ci torna a scuola? A fare la maestra, eh, mica a
studiare».
Fece
una smorfia un po' triste e sbuffò una nuvoletta di fumo
chiaro
dalle narici.
«Ah,
Franco, Franco... avrei preferito mi avessi chiesto
l'età».
«Perché
dovevo? Lei non è mica vecchia».
«Sono
più vecchia».
«Eh,
fa' niente, pure mia zia è vecchia, ma non glielo faccio
mica
notare» risposi allegramente. «Sarò pure
uno che pulisce i camini
e non ci ha più voglia di studiare, maestrina, ma so cosa
non
chiedere ad una signorina».
Rise
di nuovo e mi fece cenno di avvicinarsi a lei sul divano. Mi
mordicchiai le labbra e iniziai a sbottonarmi la camicia sporca di
fuliggine e sudore.
*
Aveva
deciso di andarsene, alla fine, e mi aveva salutato alla stazione con
un bacio sulla fronte che aveva fatto arricciare il naso alla vecchia
sarta e a quell'altra pettegola della Matta Maria – che
chiamavamo
Matta Maria per un motivo, eh.
«Non
troverò più da lavorare qui, Franco» mi
aveva detto. «Provo ad
andare giù a Roma, e magari lì c'è
ancora qualcuno a cui non
interessa se una maestrina è pure comunista».
«Ma
la aiuto io» le ripetei di nuovo con veemenza. «Non
ha mica bisogno
di andarsene fino a Roma, guardi che là sono tutti fuori di
testa e
c'è un sacco di casino».
Rise,
rise ancora una volta, rise così forte che pregai il cielo
che
potesse ridere per sempre, su quel primo gradino del treno per
Bologna, con il cappellino un po' storto e il rossetto rosso appena
sbavato per il bacio che mi aveva dato.
«Allora
vengo con lei».
Mi
guardò sbalordita qualche istante, poi fece un sorriso
carico di
affetto e mi carezzò appena la guancia.
«Non
dire sciocchezze, Franco. Sta' qui e vedi prendere la patente, questa
volta».
«Guardi
che quando la prendo, la vengo a trovare giù a Roma,
eh».
Mi
baciò ancora e c'era qualcosa di così triste e
nostalgico in quel
bacio che quasi mi fece venire da piangere. Se ne salì sul
treno e
aspettai di vederlo sparire oltre la curva, pensando che anche con la
patente mi sarebbe comunque mancata la macchina.
*
Mio
padre se ne era andato in pensione e io ero riuscito a comprare il
vecchio ortofrutta e a trasformarlo nella mia bottega – mio
stavolta, mica di Cecco. La domenica tenevo chiuso, perché
non me ne
poteva fregare niente se qualche pazzo aveva i capelli troppo lunghi
per la Messa: io, giù dal letto per quei matti, non ci
andavo
proprio, e quella santa donna di Caterina aveva sempre la pazienza di
alzarsi al mio posto per andare a strepitare loro dalla finestra.
«Mo'
badate che siete proprio forti, voi altri!» la sentivo
gridare in
mia difesa mentre mi arrotolavo nelle coperte e sorridevo sotto i
baffi. «È domenica, boia d'un Giuda, non potevate
tagliarveli ieri,
i capelli? Sarà mica che al sabato sono corti e alla
domenica no!».
Era
forte, Caterina, e mi ero innamorato di lei nel giro di qualche mese.
Non era bella come la Rosina, ma ci aveva una lingua lunga e due
occhi scuri che avrebbero fatto impazzire pure Don Luca. E me l'ero
sposata io, alla fine, alla faccia di quel salame di mio fratello che
le aveva fatto una corte allucinante per niente.
«Cio',
Franco, alzati a 'sto punto. Io porto i bambini alla prima Messa,
così almeno per pranzo sono già lavati e mia
madre non ha niente da
lamentarsi».
Non
fosse stata così fissata per la Messa, sarebbe stata una
donnina
perfetta, Caterina, ma la amavo al punto da permetterle di fare il
battesimo a Tonino e Gianni. Sapevo che, prima o poi, quei due
avrebbero dato retta a me e non avrebbero più messo piede in
chiesa,
ma fino a quel momento non mi importava che ci andassero o meno. A
catechismo ci andavano un sacco di figli di comunisti,
perché alcuni
avevano il suocero, la moglie o la madre che ancora non riuscivano a
digerire il fatto che qualcuno non volesse avere niente a che fare
con Dio e i suoi santi.
Quando
fui bello e vestito, Caterina e i ragazzi erano già spariti
e io
scesi in piazza a vedere di fare un paio di chiacchiere in attesa che
uscissero da quella trappola infernale della chiesa. Avevo appena
messo un piede fuori dalla porta quando mi accorsi che davanti alla
saracinesca chiusa della bottega c'era un ragazzino con i
pantaloncini e una donna con un completo rosso. Mi scappò
una
bestemmia; possibile che la gente volesse tagliarsi i capelli sempre
di domenica? Ma che avevo fatto di male?
«Signora,
guardi che sono chiuso, oggi. È domenica».
Lei
si voltò e a me per poco non venne un infarto. Pensavo di
essermi
dimenticato il suo viso, pensavo che quegli occhioni blu e quei
ricciolini scuri facessero parte del mio passato, che ne avrei
conservato un ricordo piacevole ma annebbiato... e invece no, mi
bastarono due secondi per sentire di nuovo il bruciore allo stomaco,
la bocca secca e mi parve di essere ancora un sedicenne senza nessuna
idea di cosa fare del corpo di una donna. Il ragazzetto avrà
avuto
sì e no dodici anni e aveva i capelli chiari tutti arruffati
attorno
al viso lentigginoso.
«Lo
so. Ma Renzino ha i capelli lunghi e speravo tu fossi così
gentile
da dargli un taglio veloce».
Non
so che mi saltò in mente, ma mi cacciai a ridere e tirai
fuori il
mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni. Se ne tornava dopo dodici
anni e l'unica cosa che riusciva a dirmi era se potevo dare un taglio
ai capelli lunghi del suo ragazzino.
Ma
quello aveva davvero i capelli chiari, il naso un po' lungo e le
lentiggini su tutta la faccia, e il sospetto che mi colpì
mentre gli
aggiustavo il lenzuolo attorno al collo sottile mi fece rabbrividire.
Guardai il riflesso della maestrina Rossa attraverso il vetro e
inarcai un sopracciglio con aria interrogativa, ma quella si
limitò
a fare le spallucce con un sorriso di vaga innocenza che non mi fece
capire un accidente di niente.
E
forse, a ripensarci ora, lei voleva proprio che io non ci capissi un
accidente.
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