UNA SEMPLICE STORIA
Perché vorrei solo che la speranza non andasse mai via,
perché vorrei volare nel cuore di coloro che amo per restarci sempre e insieme
con loro poter scrivere una semplice storia di felicità …
Dopo un anno e mezzo di estenuante lavoro sono giunta al
termine! Arrivare alla fine di questo nuovo lavoro è stato davvero difficile ed
estenuante, perché questo racconto ha sopportato mille peripezie, forse era un
segno del destino, che vuole dirmi.
“questa storia fa schifo te l’ho detto mille volte, ma tu
niente, arrangiati”.
Non so come troverete questa storia, la trovo strana io,
figuriamoci voi che la andrete a leggere, attenderò con ansia ogni vostro
giudizio, negativo o positivo … non fa nulla sono qui ad accettarlo. E poi
voglio ringraziare in modo particolare Alessia, per il suo sostegno e la sua
pazienza. Grazie a mamma e papà, come sempre, perché loro credono davvero in
me, e grazie a chi mi vuole bene, perché non lo sanno, ma con una loro parola
sanno davvero farmi andare avanti sempre e comunque.
Tre mesi. Tre lunghi
mesi di lavoro buttati via. Era davanti al suo portatile con le mani fra i
capelli e lo sguardo fisso al monitor incredula, non riusciva ancora a
crederci, la sua storia totalmente distrutta e non poteva recuperarla. Cos’era successo?
Ancora non lo sapeva, forse un virus si era insinuato nel suo computer, infido
e traditore, sotto le false spoglie di una qualunque bellissima canzone, e le
aveva mangiato il suo manoscritto, ridotto a brandelli, neppure le tarme
sarebbero riuscite a fare un lavoro migliore con la carta conservata nella
soffitta. Bell Pallone guardava intontita quelle parole poste senza senso in
quelle pagine virtuali, e senza saperne la ragione, delle minuscole lacrime
cristalline, calde e salate stavano percorrendo il suo volto lentamente. Non
erano lacrime copiose, erano solo due. Due gocce salate che esprimevano con
delicatezza la sua tristezza. Allungò una mano e abbassò lo schermo, era ora di
andare a dormire. Spense la luce della stanza e s’insaccò nel letto. Si
rannicchiò per il freddo nel suo piccolo letto singolo. Con la bocca cercava di
scaldarsi le mani con l’alito. Si disse che quella sera non sarebbe riuscita a
chiudere occhio, e invece la stanchezza s’impossessò di lei e cadde in un sonno
profondo. L’indomani mattina si alzò ancora intontita e depressa, le parve di
non essere riuscita a chiudere occhio, e nonostante tutto il suo corpo fosse
riposato, e il suo volto fresco e delicato, come solo i visi delle giovani
diciottenni sanno essere, cercò di far sembrare il suo sguardo sofferente. Raggiunse
la cucina strisciando i piedi, alzò la mano in
segno di saluto, si avvicinò al frigorifero e prese il latte freddo,
come un automa lo versò nella sua tazza e lo mise nel microonde. Sempre gli
stessi minuti e sempre la stessa gradazione per scaldarlo. Tenne gli occhi
fissi sul fratello. Francesco, che stava guardando con attenzione una puntata
di E.R. . Il campanello del piccolo forno
multifunzione, che loro usavano solo come scaldavivande, la riportò alla sua colazione.
La tazza di latte fumante era davanti a lei, e mentre rovesciava i cereali
nella scodella, che riportava la foto di due personaggi dei cartoni animati;
chiese a suo fratello:
“Non noti nulla di strano?”
Lui la guardò dritto negli occhi azzurri come i suoi,
un’occhiata fugace, Bell aveva i soliti capelli rossi e ricci, tutti arruffati,
come tutte le mattine del resto, corrugò la fronte, la guardò meglio, si
avvicinò a lei col viso, e quando finalmente furono vicini vicini,
lui le disse:
“Ora che ti guardo bene si!”
Il volto di Bell ebbe un lampo di gioia. Qualcuno si era
accorto del suo malessere.
“Dovresti toglierti i baffi con la ceretta, si vedono
troppo”
Bell si sentì avvampare e divenne paonazza. Non si
vergognava di suo fratello, ma era arrabbiata. Nessuno la prendeva seriamente
in considerazione,trangugiò il suo latte e finì di prepararsi. Aveva già lo
zaino in spalla quando chiese:
“Ma dov’è finita mamma?”
“Non c’è, è andata in palestra presto stamattina, ah
dimenticavo, ha detto di dirti che non torna per pranzo, non ci sarò neppure io,
devo andare all’università ho lezione”
“Ok, a stasera allora”
E uscì da casa in tutta fretta. Capitava spesso che si
ritrovasse da sola per il pranzo. Sua madre era troppo impegnata a mantenersi
in forma, uscire con le amiche e fare compere. Suo padre era un imprenditore edile di successo. Ma in casa
non era presente, era una figura che un po’ mancava nella famiglia Pallone, per
lui il lavoro veniva prima di ogni cosa, doveva incrementare il suo capitale,
perché lui teneva a vedere il suo conto in banca sempre più gonfio, e poco
importava se stava perdendosi le cose più belle della sua vita, si era perso la
lunga ed estenuante decisione di suo figlio Francesco di andare all’università
e seguire i corsi di medicina, e si stava perdendo le angosce giovanili di
Bell, la sua paura di non superare gli esami di maturità,la prima cotta e le
liti con le amiche che a lei sembravano insormontabili. Il capo famiglia Pallone
si stava perdendo tutto questo. Inconsciamente. E senza chiedersi se un domani
avrebbe rimpianto tutto questo.
La campanella aveva suonato, e strisciando i piedi raggiunse
l’aula dalle pareti completamente bianche. Alcuni compagni erano già arrivati e
parlavano fra loro seduti sopra i banchi verdi, allineati due a due per tutta
la lunghezza della stanza. La lavagna verde era appesa a lato della cattedra, e
proprio nel centro del muro era attaccato un crocefisso misero, e quasi
ignorato da tutti, al suo fianco la foto del presidente della repubblica, un
uomo normale con bianchi capelli e alcune rughe che avrebbero dovuto
significare saggezza, ma a nessuno di quegli alunni importava veramente di
quell’uomo tanto importante per l’Italia. Bell Pallone occupò posto al suo
banco, fece cadere lo zaino per terra e si sdraiò per metà sul banco. Uno dei
suoi compagni la chiamò:
“Pallone mi passi i compiti?”
Lei si voltò, era Emanuele Tellini.
Suo compagno di scuola dal primo anno di liceo. Lui era tra i ragazzi più
ambiti di tutto l’istituto, nessuna ragazza era capace di resistere al suo
fascino che era ben fornito di arroganza da vendere. Bell non lo guardò e gli
disse di sì, che aveva fatto tutto:
“Se vuoi, puoi copiarli …” ma non si mosse per tirare fuori
i quaderni dallo zaino. La stanza si riempì quasi completamente, e subito dopo
entrò la professoressa. Una donna non altissima, dai corti capelli biondi,
aveva sui cinquant’anni, un paio di occhiali dorati sul naso, che non
nascondevano i suoi occhi castani, sulle labbra aveva un filo di rossetto
rosso. Si sedette sulla sedia alla sua scrivania e fece scivolare via la pelliccia
di visone sulla spalliera della sedia. Si schiarì la voce e gridò:
“Buongiorno! Se non ve ne siete accorti, sono entrata”
E con un coro
scomposto risposero:
“Buongiorno professoressa”
Prese il libro fra le mani e iniziò a canticchiare una
vecchia canzone:
“La lontananza sai è come il vento, che fa dimenticare chi
non s’ama …”
Bell e il resto della classe sapevano bene cosa significava
quella canzone. Ogni qual volta la professoressa cantava quei versi c’era aria
di interrogazione, e tutti cercarono di farsi piccoli per non farsi
notare, in maniera assurda, tanto
sapevano bene che alla fine avrebbero dovuto far sapere anche loro cosa
sapevano. Bell non se ne curò, era tra i primi della classe, lei sapeva sempre
tutto, non si faceva mai cogliere impreparata alle interrogazioni, o ai compiti
in classe. Amava studiare, e aveva paura di non riuscire a dare quello che
sapeva di poter dare, ora che era arrivata al rush finale, e poi ancora non
aveva deciso cosa fare con l’università, ogni volta che voleva affrontare
l’argomento con sua madre lei era troppo impegnata a fare qualcos’altro per
interessarsene. Suo fratello non poteva e non voleva darle nessun consiglio,
era convinto che non dovesse essere influenzata nelle sue scelte, ma che doveva
essere lei a decidere del proprio futuro. L’idea di parlarne con suo padre non
le aveva neppure sfiorato la mente. E ad ascoltarla aveva trovato lei, quella
piccola grande donna che era la sua professoressa, che portava un nome tanto
piccolo Rosa, un nome che spesso era diminuito dai suoi colleghi che
amorevolmente la chiamavano Rosellina. Bell adorava quando la sentiva chiamare
con quel vezzeggiativo, credeva che le stesse davvero bene, era fatto per lei,
perché le rose sanno nascere anche nel freddo dell’inverno pur essendo
delicate. E lei, aveva letto quello che lei scriveva e la spronava ad andare
avanti. Nessun altro aveva letto i suoi manoscritti, provava vergogna per
quello che scriveva, pensava che fossero delle schifezze, però nonostante
tutto, non riusciva a smettere di farlo. Bell ascoltava attonita quello che
succedeva, sapeva bene che quel giorno non sarebbe stata interrogata, e con la
matita faceva strani ghirigori sul quaderno che usava per gli appunti.
“Tellini!” tuonò imperiosa la voce
della professoressa
“Vieni avanti che oggi tocca a te!”
Il giovane alzò gli occhi al cielo, come un attore consumato
si alzò dalla sua sedia e con la sua inconfondibile camminata raggiunse
l’insegnante di italiano.
La donna gli disse:
“Allora oggi che ne dici se parliamo un po’ in latino?” la
professoressa parlava senza neppure guardarlo negli occhi, e il giovane annuì
con la testa. Le domande si susseguirono una dietro l’altra, ma purtroppo le
risposte erano solo delle misere scene mute, e fu in quel momento che
l’insegnante chiese:
“Bell, vuoi rispondere tu?”
Da dietro le spalle una voce sottile le giunse all’orecchio:
“Se osi rispondere guai a te”
Ma lei lo ignorò e rispose facilmente, e fu proprio in quel
momento che la professoressa sentenziò:
“Emanuele Tellini, tu dovresti
prendere un po’ da Bell … magari foste tutti così”
Si sedettero tutti quanti e
rimasero in silenzio. La lezione finì tra le risa generali della classe,
un altro compagno aveva fatto una misera figuraccia di fronte alle domande
della prof., come fu fuori subito una ragazza dai lunghi capelli neri si
accostò a Bell, dall’alto la sovrastò, i suoi occhi penetrarono gli occhi di
Bell, sembrava che una chiazza di petrolio si stesse stendendo nel mare più
limpido, e come una belva si avventò su di lei afferrandola per un braccio e
con voce sibillina chiese:
“Come ti sei permessa di far fare una figuraccia al mio
Emanuele?”
“ma io …”
“Tu cosa?” le parlava standole addosso, il suo corpo era
perfetto, le gambe slanciate erano coperte dal jeans, e sopra indossava una
maglia corta, leggera, che lasciava percepire le forme del suo giovane corpo
saldo. Bell la guardava senza toglierle gli occhi dagli occhi, si sentiva a
disagio ma non voleva darlo a vedere, sapeva di non essere bella quanto lei, e
i suoi capelli rossi e arruffati non la aiutavano, il suo volto non era quello
di una diciottenne, ma quello di una ragazzina molto più piccola della sua età,
i suoi lineamenti erano acerbi, anche
lei indossava un jeans e una maglia ma era sicuramente molto meno avvenente.
Anche se questo non voleva dire che fosse meno bella, era solo una bellezza
diversa,la prima era algida, fredda e distaccata, mentre la seconda era molto
più morbida e conferiva tenerezza. E questa continuò:
“Allora pel di carota? Hai niente da dire?”
Lei continuava a non rispondere e fu proprio Emanuele Tellini ad avvicinarsi, fece un sorriso e posando una mano
sulla spalla di Martina Loretti, la ragazza bruna, e
se la tirò vicino a sé e scomparvero poco dopo.