Alba pratalia araba

di Darh
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Scriveva in fretta, su quel libricino rosso.
Scriveva delle sue frustrazioni, degli avvenimenti più importanti della sua vita complicata di ventunenne qualunque. Piccoli problemi, grandi minuzie.
Scriveva, con quella sua brutta grafia frettolosa che tanto odiava, ma che ormai non avrebbe più potuto cambiare.
 
A volte erano pagine fitte, altre volte frasi isolate nel foglio bianco; a volte testi di canzoni, citazioni: mai, mai immagini. 
A volte cambiava lingua. Pagine scritte in inglese, parole francesi lanciate sul foglio con eleganza, giusto per rispettare lo stereotipo di un'eleganza ricercata; il suo nascente spagnolo si riversava in fiumi d'inchiostro con accenti mal posti. Conosceva il greco antico, ma ogni volta che scriveva un'alfa o una zeta era solo per avere l'assoluta certezza che nessuno, intorno a lei, riuscisse a decifrare i suoi segreti.
E c'era anche il cinese, vasto, magnifico e nuovo orizzonte che stava imparando con fatica, ma soddisfazione. Minuscoli disegni ancora sproporzionati, ma carichi di significato.
 
Non inseriva mai immagini, in quel libricino rosso. Nessun disegno, nessuna effrazione al rigoroso codice di pagina bianca e inchiostro nero. Solo un petalo di rosa secco rompeva la monotonia di quel binomio antico. Si era autoimposta quella regola in modo implicito.

 
Se pareba boves, alba pratàlia aràba
et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba.

 
Aveva sentito suo fratello imparare quella piccola strofa cinque anni dopo averla a sua volta memorizzata. Lui era in piedi, con il libro davanti, passeggiando per la stanza in cerca di una concentrazione inesistente, cantilenando "separeba boves, alba prataliaaraba etalbo versorioteneba....", assolutamente incurante della sintassi latina.
 
Bianco e nero: era l'idea della semplicità disarmante, dell'immediatezza. Erano le sue idee.
Poi rovesciava il libricino rosso, e lo apriva dalla fine. Lì, lì c'erano le sue storie. Piccoli mondi nuovi di zecca, immagini concrete di realtà inesistenti.
 
E anche in quelle pagine vigevano le stesse, implicite regole. 
Nessuna immagine, mai inchiostro diverso da quello nero. Nessuna data, nessun obbligo di scrittura quotidiana. 
E mai, mai, mai rileggere ciò che si è appena scritto.




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