NDA:
Non è per nulla facile scrivere una fanfiction per una fan come me di Silent Hill. Considero questa saga come una preziosa reliquia.
Ogni aspetto scenografico, le musiche, i personaggi, la trama, i dialoghi…tutto pesa fortemente creando un’atmosfera incredibile che solo questa saga sa dare.
Mi piace molto il quarto capitolo della saga e con questa fanfiction farò del mio meglio per approfondire i suoi personaggi e alcuni aspetti della trama. Purtroppo, Silent Hill IV non è molto apprezzato tra i fan. Dunque mi impegnerò a maggior ragione, alla luce di questa consapevolezza.
In particolar modo, la mia fanfiction si soffermerà su Henry Townshend. Cercherò di mostrarvi quel che vedo in questo personaggio, che secondo me è tutt’ altro che estraneo e privo di ogni emozione.
E' un protagonista che adoro.
Esistono veramente persone come lui, nella realtà, le cui emozioni sono appena percettibili.
Inoltre ci sono diversi riferimenti nel gioco, che ci fanno comprendere egli chi sia e come viva l’incubo nel quale è intrappolato.
Ovviamente, nella vicenda, sarà anche presente il famoso Walter Sullivan.
Walter è un antagonista eccezionale. Un raro caso di antagonista capace di suscitare mille emozioni nell’animo del giocatore. È spietato, eppure in qualche modo rimane un personaggio grandioso generando una profonda empatia e malinconia verso chi conosce la sua triste storia.
Aspetto con ansia le vostre recensioni, mi saranno utili per correggermi e per impegnarmi con il prosieguo della fanfic.
Vi lascio alla lettura, adesso.
Fiammah_Grace
_Introduzione alla lettura_
La fanfiction è ambientata post le vicende di Silent Hill IV. Seguirò filone del finale “fuga” e del finale “madre”. Henry Townshend ed Eileen Galvin si apprestano per lasciare per sempre gli appartamenti di South Ashfield Heights. Tuttavia, qualcosa alberga ancora nell’aria.
Sebbene sia tutto finito, quell'insopportabile aria pesante circola negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato ancora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan. Henry è pronto per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige sono pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé.
Eppure qualcosa ancora lo lega a quell’appartamento oramai assorbito completamente in quel macabro incubo a cui non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, ha la pessima sensazione che non sia in grado si lasciare l’appartamento 302, o peggio, che oramai non sia più capace di farlo. Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continua ad apparire ai suoi occhi, divenendo lui stesso parte di esso...
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"don't go
out!!" Walter
(messaggio
sulla porta della stanza 302)
CAPITOLO
01
“...E' importante
viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un fardello troppo
pesante se ne
pentirà...”
(messaggio
dietro
la libreria dell’appartamento 302)
Quando
era calato quel buio, con esattezza? Era difficile stabilirlo. Il
tempo, lì,
era come se seguisse una logica tutta sua.
Le
lancette erano immobili, fisse, indicando un orario privo di alcun
significato.
L’ambiente
ricordava un salotto. Un tempo doveva essere proprio quello.
L’arredo era
essenziale, ma considerando le dimensioni ridotte, era abbastanza
spazioso e
confortevole.
Peccato
che la cera delle candele consumate impedisse di apprezzare la
semplicità e la
freschezza di quell’appartamento.
Le
candele erano spente e completamente consumate. Erano davvero tante,
troppe,
per non pensare a un tipico atteggiamento compulsivo. Chiunque le
avesse messe
lì, le aveva accese una per una, completamente fuori
controllo. Per quale
motivo? Nella speranza di ottenere cosa?
Per
l’occhio comune erano solo candele. Candele poste ovunque.
Candele sciolte sul
pavimento, candele invecchiate e consumate dal tempo.
Quelle
candele, invece, avevano donato una luce più luminosa e
rassicurante della luce
stessa. Perché erano state fonte di speranza, anche se
temporanea e illusoria.
Ma erano state lasciate li spente già da tempo e il buio
regnava oramai
sovrano.
Solo
dalle due finestre filtrava appena una fioca luce che disegnava i
contorni del
divano, del televisore, dell’ambiente in generale.
A
un primo impatto, nel buio, nessuno si sarebbe nemmeno accorto che un
giovane sui
trent’anni era sdraiato già da diverse ore sul
divano.
Il
suo sguardo era lontano. Gli occhi verde pallido erano
l’unico tratto distinguibile
del suo volto, coperto da una frangia disordinata.
Osservava
languido verso una direzione apparentemente vaga, ma focalizzando
meglio, era
ben chiaro che non fosse affatto così e che, in quel posto,
non fosse nemmeno da
solo.
O
forse lo era…? Era una domanda ardua da rispondere.
Era
difficile dire se era ancora un qualcuno, colui il quale si scorgeva
appena dal
soffitto. Un volto dalle sembianze umane, ma oramai privo di alcuna
essenza
vitale. Oramai solo capace di mormorare, era diventato sempre
più
indistinguibile in quell’ambiente.
Il
ragazzo strinse gli occhi, mentre udiva quel brusio capace di trasmette
la disperazione di Joseph
Schreiber.
Il
volto di Henry era scavato e stanco. Ciò lasciava intuire
che fosse li già da
un pezzo.
A
fare cosa? Ad osservare.
A
osservare il destino che aveva segnato l’ex-giornalista, che
ora non aveva
altro se non delle lacrime nere che scorrevano dal soffitto al
pavimento.
Era
una visione gelante, frustrante, per chi aveva il terribile
presentimento di
comprendere tale disperazione.
Il
giovane divenne sempre più stanco e gli occhi cominciarono a
farsi più spenti.
Eppure rimase li ancora e ancora, in quel mondo dove tutto era
indefinibile,
persino il tempo stesso.
Dei
passi poi rimbombarono nel silenzio e si fermarono proprio nelle
vicinanze del
divano, dove era sdraiato il trent’enne, ma egli non
alzò lo sguardo per capire
chi fosse e continuò a osservare Schreiber finché
il buio non rese tutto
nuovamente indistinguibile.
***
[SOUTH ASHFIELD, mattina.]
[nel
centro della cittadina…]
Sebbene
il negozio fosse aperto fin dal primo mattino, nessuno aveva ancora
solcato
quella porta.
L’ambiente
era sul bianco, così essenziale nell’arredo da
essere definibile persino
“vuoto”. Una decina di foto erano appese lungo i
muri e all’estremo del negozio
vi erano una serie di apparecchiature utili per la fotografia. Vi era
una
vetrina piena di lenti, pile, pannelli, supporti ottici, macchine
fotografiche
con vari appoggi regolabili…
Dall’altro
estremo del locale, invece, c’era una scrivania completamente
vuota e appena
impolverata, dove vi si poteva scorgere un giovane completamente
adagiato su
esso.
Esteticamente
era un ragazzo sobrio eppure in qualche modo attraente. In compenso,
però, il
suo look era trascurato e lo sguardo incredibilmente stanco. La barba
era
leggermente incolta e i capelli spettinati gli davano un’aria
decisamente
disordinata.
Forse
era anche per quello che nessuno era entrato ancora li.
Henry
Townshend aveva trent’anni quasi. Aveva da tempo lasciato
alle spalle gli studi
e da due anni circa viveva in quella cittadina in periferia di Silent
Hill.
Aveva
gli occhi chiusi e sembrava riposasse già da un
po’, sebbene gli occhi scavati
facessero intendere chissà da quanto tempo, invece, non si
ritagliasse un
momento di relax.
In
quel negozio, il giovane fotografo era così che passava le
sue giornate intere.
Si
fece mezzogiorno quando qualcuno solcò quella porta, con
passi decisi che
volutamente volevano richiamare l’attenzione del ragazzo.
“Henry..?”
Una
voce dolce, ma risoluta, fece il suo nome e velocemente si
avvicinò a lui.
Henry fece per alzare appena gli occhi e scorgere la figura che aveva
dinanzi a
sé.
Era
una ragazza alta, longilinea, con i capelli tagliati
all’altezza delle spalle, castani,
che contornavano il viso con una sottile frangia. Aveva due splendidi
occhi
acquamarina, contornati da un accenno di lentiggini.
Dietro il
sorriso cortese che ella aveva stampato sulle labbra, si intravedeva un
ghigno
con un che di sarcastico. Il tutto era esaltato dalla sua
personalità
effervescente.
“Oh,
Eileen…” disse lui con un filo di voce, mentre
alzava il capo verso la giovane.
Eileen
Galvin guardò con enorme disapprovo il ragazzo e non si fece
remore nel
farglielo notare. Prese a battere nervosamente il piede a terra e
portò le mani
sui fianchi, infastidita.
“Non
ci posso credere che è così che ti presenti ai
clienti…! Un fotografo non
dovrebbe avere uno spiccato gusto per l’estetica o qualcosa
del genere?”
Scrutò
con gli occhi Henry mostrandogli chiaramente che la sua apparenza era
fin
troppo distratta e trasandata. Eppure Henry non era nemmeno un ragazzo
brutto.
Alto,
dalle spalle larghe e con gli occhi verde pallido. I capelli, tuttavia,
erano
disordinati e la lunga frangia pendeva coprendo parte del viso. Sul
mento
s’intravedeva appena un accenno di barba e i suoi occhi
avevano un’espressione
così stanca e assente da essere capaci di far scappare
chiunque.
Stesso
lui se ne rese conto e quando incrociò gli occhi di Eileen,
sistemò appena
qualche ciuffo di capelli con le mani.
“Ah,
si dovrebbe…” disse, un po’ incerto.
Eileen
a quel punto sgranò gli occhi. Al contrario di lui, la
giovane aveva un’energia
inesauribile in corpo e qualsiasi aspetto di sé esprimeva le
sue emozioni in
modo chiaro e limpido.
Era
un qualcosa che Henry ammirava con incanto, eppure con un po’
di titubanza. La
guardava camminare in lungo e in largo, in quel piccolo locale
praticamente
vuoto. La vedeva scrutare la vetrina datata, le crepe sui muri, e i
capelli disordinati
di lui.
Si
leggeva chiaramente scritto in volto il suo dissenso per come gestiva
la sua
attività e la sua immagine di fotografo.
“Non
si capisce nemmeno cosa vendi. Dovresti rimodernare questo posto e
mostrare
alla gente buone ragioni per entrare, non per fuggire, non
credi?”
“Eh,
già…”
All’ennesima
risposta data con noncuranza, Eileen lo fulminò con lo
sguardo e lui
istintivamente calò gli occhi verso il pavimento.
Portò una mano dietro al
collo e poi fece per alzarsi dalla sedia.
Emise
un leggerissimo sbadiglio e socchiuse gli occhi, mentre si avvicinava
alla
piccola finestrella posta in un angolo. Era l’unica fonte di
luce del negozio e
contribuiva alla grande nel dare un’immagine ancora
più trascurata al posto.
Sebbene
Eileen facesse del suo meglio nel dare critiche costruttive, presto si
rese
conto che Henry era completamente distratto in quel momento, e sembrava
avere
tutto per la testa, fuorché il suo negozio.
Quando
vide quegli occhi così stanchi, non poté non
intuire che Henry fosse nel
negozio più per trovare tranquillità che per
farlo fruttare.
“Non
hai chiuso occhio di nuovo?”
A
quella parole, Henry stropicciò nuovamente gli occhi.
Portò le dita
all’imboccatura del naso e annuì.
Per
quanto ne sapeva Eileen, era da un bel po’ che non dormiva
bene e la cosa
cominciava a preoccuparla.
Fece
per parlare, quando Henry prese la borsa a tracolla e la
posizionò sulle
spalle.
La
guardò e, nonostante la natura introversa, si sforzò di
abbozzare un sorriso,
cercando di rassicurarla.
“Sono
cose che capitano. Tu sei appena tornata
dall’università, giusto?”
Indicò
con gli occhi il borsone che aveva lei su una spalla e il libro
voluminoso che
stringeva al petto. Eileen lo guardò perplessa, poi
annuì confermando la cosa.
“Sì.
Oramai i corsi sono finiti e devo apprestarmi a sostenere gli esami.
Per questo
sono venuta qui a quest’ora.”
Fecero
entrambi per uscire. Henry recuperò velocemente i suoi
effetti, infilò una
giacca leggera color grigio scuro e abbassò la saracinesca
del negozio. Cigolante,
arrugginita, e piena di graffiti dei ragazzini della zona.
“Ti
devo un pranzo. Che ne dici, cucino qualcosa con quel po’ che
ho in casa?”
disse Eileen mentre si incamminavano per le via di Ashfield. Si
lasciò scappare
un sorriso divertito che incuriosì Henry. “Anche
se ti avviso, prepari tutto tu!
Altrimenti, potresti essere intossicato dalla mia cucina
disastrosa!”
Henry
sorrise appena nel vedere quanto Eileen fosse ironica e sarcastica con
sé
stessa.
Henry,
bene o male, era capace di metter su un primo e un secondo e questo era
sufficiente per essere, agli occhi della ragazza, un cuoco abbastanza
capace.
A
differenza di lei, Henry abitava da solo già da parecchi
anni, era abituato da
tempo a badare a sé stesso. Eileen, invece, affermava senza
problemi di essere
una pessima donna di casa.
“Ma
no. Devi solo fare pratica.” La rassicurò, ma
subito lei rise a tale
affermazione.
“Ah,
ah! Invece no. In proporzione tu sei capace di cucinare, sistemare
casa, lavare
i panni…sei più tu una donna efficiente che
io!”
Sebbene
Eileen ridesse divertita, Henry si ritrovò ad annuire
sarcasticamente,
sforzandosi di trovare il lato buffo di ciò che stava
dicendo.
In
realtà la questione era semplice. Si doveva fare
ciò che si doveva fare. E in
questo senso, lui aveva dovuto imparare a organizzarsi e a gestire
grossomodo
tutto per necessità.
“…l’unica
cosa che mi riesce bene e ciò che metto qui
dentro.” Aggiunse lei
picchiettandosi con l’indice la fronte.
“…lo studio dell’archeologia, la
storia, i codici… Ah, se la vita fosse solo questo, sarei la
persona più felice
e colta del mondo.”
Eileen
amava studiare e non se ne vergognava affatto. Si era trasferita
nell’appartamento 303 apposta. Amava parlare per ore di
ciò che imparava,
nonché approfondire le materie umanistiche che i suoi corsi
proponevano.
Il
giovane non era, invece, un grande appassionato di materie filosofiche,
né di
storia, ma gli piaceva comunque ascoltarla.
Eileen
prese a parlare a raffica dei suoi corsi e degli esami che stava
preparando e,
infatti, lui non accennava ad allontanare i suoi occhi da lei.
Non
per cosa diceva effettivamente, ma per l’entusiasmo che ci
metteva. Eileen era
una ragazza di cuore e sprizzava un’energia positiva molto
contagiosa.
I
suoi occhi sembravano parlare più delle parole stesse, e
Henry stesso si
sorprendeva di quanto fosse capace di far pulsare le sue emozioni in
maniera
così viva.
Lei
girava gli occhi di continuo, toccava i capelli, muoveva le
mani… manifestando così
un completo entusiasmo e coinvolgimento che lo rapiva completamente.
Solo
dopo qualche minuto, i due giunsero a un bar e la bruna prese
velocemente posto
in uno dei tavolini ancora liberi.
Henry
la seguì e si sedette accanto a lei.
“Non
ti dispiace se mangiamo qui, ehm, vero?” disse la ragazza,
leggermente
imbarazzata.
Henry
sorrise divertito e scosse la testa.
Il
tempo passò piuttosto velocemente. Eileen non aveva fatto
altro che parlare,
mentre mangiava un boccone con il suo vicino di appartamento.
E
dire che nemmeno un mese fa, i due non avevano mai avuto modo di
parlarsi,
sebbene fossero vicini già da due anni.
Non
avevano mai fatto altro se non scambiarsi dei cortesi saluti quando si
incrociavano nel pianerottolo del palazzo.
Invece,
in così poco tempo, erano diventati soliti incontrarsi e
passare spesso del
tempo assieme.
Tutto
questo, da ‘quel’
giorno…
Sebbene
fosse passato del tempo sufficiente, era ancora difficilissimo per
entrambi
parlare con razionalità di ciò che era accaduto
poco meno di un mese fa.
Era
accaduto qualcosa di assurdo ed inconcepibile. Per sei giorni interi,
Henry era
stato assalito da strani e inquietanti incubi e non solo…
Era
rimasto intrappolato nel suo stesso appartamento.
La
televisione era rotta, il telefono staccato, le finestre bloccate e la
porta
chiusa ermeticamente dall’interno.
Presto,
quello si era rivelato essere solo l’inizio di un macabro
incubo macchiato di
sangue.
Come
e perché, ancora oggi era strano dirlo per entrambi.
Era
stato un accadimento così scioccante e malsano che il solo
istinto di
sopravvivenza lo aveva aiutato a non cadere in un baratro di
disperazione e di
follia.
Il
passaggio apparso nel bagno era stato l’unico, maledetto
ingresso verso un regno
umanamente inconcepibile, pur tuttavia, l’unico mezzo che
aveva avuto per
fuggire da quella trappola claustrofobica, nella speranza di uscire da
quell’incubo.
***
Eileen
smise di sorseggiare la sua bevanda e prese a guardare il ragazzo dai
capelli
castani.
“Henry,
che ti prende?” disse corrucciando le sopracciglia.
Henry
non la guardò e le fece velocemente cenno con un leggero
movimento della mano.
“Ferma,
qui è perfetta.” Disse, con uno sguardo
più vivace del solito.
“C-cosa?”
rispose lei, sbandando.
Non
badando ad Eileen, Henry prese dalla borsa in cuoio scuro una macchina
fotografica semi-professionale e la posizionò immediatamente
sugli occhi,
intento ad immortalare Eileen Galvin che si ritrovò
completamente presa alla
sfuggita.
La
ragazza rimase attonita per qualche attimo e non appena il flash
abbagliò i
suoi occhi, subito aprì la bocca sorpresa e sconcertata allo
stesso tempo.
“Ma
come ti viene di fare una foto così
all’improvviso!?” disse, terribilmente
imbarazzata di essere stata fotografata senza preavviso.
Henry
guardò soddisfatto la sua opera e alzò gli occhi
verso di lei. La vide
arricciare nervosa le labbra e accavallare le gambe. Assunse dunque
un’espressione
perplessa e non comprese cosa avesse infastidito la ragazza.
“…c’era
un’ottima luce.” Disse, abbassando la voce, eppure
pienamente convinto delle
sue parole.
Lei
chinò il capo dubbiosa e per qualche attimo strinse gli
occhi. Alla fine non
resisté e il viso di Henry divenne completamente paonazzo
quando lei si lasciò
scappare un sorriso. Prese a ridere sinceramente divertita e Henry
cominciò ad
agitarsi non comprendendo.
“Ho
fatto qualcosa di male..?” chiese.
“Sei
così spontaneo, Henry…ah, ah!” disse,
poi si calmò nel vedere che lui
continuava a non capire. “Lascia perdere,
comunque… andiamo?”
Il
ragazzo annuì ancora sconcertato. Non si era reso conto che,
agli occhi di
Eileen, Henry appariva così apatico che quando aveva
iniziative del genere, era
capace di sconvolgerla completamente.
Lui
che sembrava così indifferente, invece aveva un piccolo
universo dentro di sé,
più intenso di come chiunque potesse immaginare.
Non
era la prima volta che i due passavo del tempo assieme. In questo modo, più volte Eileen aveva avuto modo
di capire che uno
dei modi che lui usava per sfogare le sue emozioni era proprio la
fotografia.
Henry
ne aveva parecchie in giro per casa e spesso capitava che, nel bel
mezzo di una
passeggiata, cominciasse a scattare anche una cinquantina di foto.
La
cosa le faceva molta tenerezza, perché lo vedeva aprirsi a
lei sempre un po’ di
più. Lo apprezzava molto, specie alla luce della natura
timida e introversa del
ragazzo.
Mentre
camminavano, presero a godere di quella brezza tipica
dell’inizio dell’estate e
Henry non fece nemmeno caso che Eileen si fosse fatta più
silenziosa del
solito.
Egli
ammirò il panorama per buona parte del tragitto e solo
quando giunsero nel
quartiere vicino al palazzo, le si rivolse cercando di capire se ci
fosse
qualcosa che non andasse.
Eileen,
quando se ne accorse, subito scosse la testa e assieme solcarono il
portone del
palazzo e si diressero verso il terzo e ultimo piano, dove erano
situati gli
appartamenti 302 e 303.
Eileen
percorse le scale tutte d’un fiato e per il giovane Henry fu
praticamente
impossibile starle dietro. Se solo non avesse avuto quella terribile
fiacchezza
in corpo. Maledetta quella stanchezza, non ne voleva proprio sapere di
abbandonarlo.
Henry
seguì Eileen che lo attendeva ogni volta che superava una
rampa di scala,
provando a motivarlo un po’.
Lui
sapeva benissimo di dare un’idea molto fiacca in quel
momento, ma era abituato
già da tempo a condividere con quella parte di
sé. All’improvviso si lasciò
scappare uno sbadiglio e, distrutto, chiuse appena gli occhi, coprendo
la bocca
con una mano.
“…scusa.”
Disse.
Eileen
percorse l’ultima rampa di scale e vide Henry poggiarsi
appena sul muro del
pianerottolo con gli occhi semichiusi.
“Mi
preoccupi, lo sai? Sembra che non tu non chiuda occhio da giorni. Che
cos’hai?”
Gli chiese, chinando il capo verso di lui.
Henry
scosse la testa. Non voleva preoccuparla tanto. Del
resto…non era nemmeno un
uomo abituato a ricevere tante attenzioni. Massaggiò le
tempie e accennò un
sorriso.
Fece
per rivolgersi ad Eileen schiudendo appena gli occhi, ma un brivido,
improvviso,
lo congelò letteralmente.
Il
tutto in maniera così veloce che non ebbe il tempo di
capacitarsene.
Aprendo
gli occhi, ancora calati verso la scalinata, avvertì un
terribile odore di
chiuso e ruggine. Vide le scale assurdamente incrostate di qualcosa di
organico
e di metallico allo stesso tempo, e per un attimo gli sembrò
persino che il
muro…palpitasse?
“Ma
cos…?” disse, spaesato.
Quell’odore
insopportabile lo scombussolò molto, nauseandolo, e rimase
con gli occhi
spalancati, fissi su quella visione.
Le
pareti, le scale…
Il
rosso era il colore che la faceva da sovrano, lì. La testa
girava enormemente e
il cuore prese a battere incessante.
Tutto
aveva un’aria malsana e tetra.
Un
rumore di passi, poi, rimbombò alle sue spalle. Lentamente
qualcuno lo stava
raggiungendo. O…qualcosa?
I
passi erano lenti e pesanti e si facevano sempre più vicini
al ragazzo.
Completamente
paralizzato, girò appena gli occhi, rendendosi conto che,
qualunque cosa stesse
accadendo, non aveva alcuna via di scampo…
“Henry!”
La
voce di Eileen lo fece nuovamente sbandare e subito girò gli
occhi in sua
direzione.
“Eileen…?”
Tutto
d’un tratto, costatò che la visione che aveva
avuto fino a qualche attimo prima
era sparita. Henry poggiò una mano sulla fronte,
completamente disorientato.
Lo…aveva
immaginato?
Eppure
quegli odori, la ruggine, i passi…
Non
sembravano affatto frutto di fantasia. Proprio come quel
tempo…lui….
“Henry…”
“Sto
bene. Andiamo.” Tagliò corto.
Si
avvicinò all’appartamento 303 e guardò
Eileen mentre prendeva la chiave e
apriva la porta di casa. La casa era buia perché Eileen
l’aveva lasciata fin
dal primo mattino, ma Henry era comunque in grado di scorgere i
molteplici
scatoloni di imballaggio presenti un po’ ovunque.
Li
guardò perplesso, non sapendo esattamente cosa dire.
“Hai
già sistemato tutto..?” le chiese.
La
bruna gli sorrise e fece per addentrarsi per fare un po’ di
luce nell’ingresso.
“Ovvio.
C’è bisogno di cambiare aria, e ci stiamo
già prendendo fin troppo tempo…”
disse, con tranquillità.
Henry
annuì, ma i suoi occhi che non facevano che fuggire da
quelli di Eileen,
lasciando intuire il suo disagio.
Lei,
intanto, spalancò la finestra illuminando definitivamente
l’ingresso. Era un
piccolo salotto con dei divani dal motivo floreale, e affacciava da
esso una
semplice cucina colorata.
“Tu
piuttosto. L’ho visto, sai? Non hai ancora sistemato
nulla!” lo rimproverò.
“Non
ho avuto tempo…” bofonchiò Henry, ma
Eileen si sentì ferita da quella risposta.
Henry
non tardò ad accorgersene e infatti aprì la bocca
sperando di essere capace di
giustificarsi, ma le parole gli si strozzarono in gola e non fu capace
di
aggiungere altro.
Eileen
aveva un’aria sconvolta e non riusciva a comprendere proprio
i suoi indugi.
Sentiva gli occhi gonfi e si dovette trattenere non poco per non urlare.
“Ce
lo eravamo promessi, Henry. Una nuova vita lontani da South Ashfield.
Io non
posso…” deglutì e cercò di
controllare la sua voce che prese a tremare.
“Non…voglio più vivere qui. Non si
può…”
Eileen
si guardò attorno e strinse le braccia fra loro.
Henry
poteva avvertire nitidamente il suo forte disagio e i suoi occhi che
avevano
ancora davanti a loro i mille orrori legati a South Ashfield…
Vivere
in quel posto…dopo gli incubi…
Era
dura…
Inoltre
Eileen era tornata da poche settimane a casa dopo essere stata
ricoverata, e
aveva fin da subito mostrato il suo completo disagio di essere ancora
lì, a un
mese di distanza da quel macabro massacro.
“…dovevamo
trasferirci già all’inizio della scorsa settimana
e ho dovuto avvisare la ditta
di traslochi per due volte di fila. Henry…ti prego, non
indugiare ancora. Cos’hai
da perdere?”
Henry
chinò il capo e inarcò le sopracciglia in
silenzio, mentre Eileen di li a poco
si liquidò lasciandolo sul ciglio del pianerottolo del terzo
piano.
***
Henry
Townshend era steso sul divano di casa e aveva gli occhi chiusi. Aveva
delle
occhiaie terribili e la testa pulsava ferocemente. Sulla fronte aveva
poggiato
un asciugamano bagnato che copriva gran parte del viso, ma nonostante
ciò, non
riusciva a sentirsi più rilassato.
Stava
riflettendo già da qualche minuto sulla sua vicina di casa
Eileen Galvin.
Fino
a poche settimane prima, lei era ancora ricoverata
all’ospedale di St. Jerome,
ed era stata sua abitudine andarla a trovare tutti i giorni.
Ricordava
ancora perfettamente quel giorno…
Quando
l’incubo era finito…
Quando
era corso la prima volta da lei, avendo la terribile sensazione di non
essere
riuscito a fare nulla per salvarla.
Dovevano…
…ricominciare
una nuova vita lontana da Ashfield…
Si
erano ripromessi questo. Dopo quel che era accaduto…era
impossibile vivere
ancora con serenità in quel posto.Qualcosa albergava ancora
nell’aria.
Sebbene
tutto fosse finito, quell’insopportabile aria pesante
circolava ancora negli
appartamenti e nell’intero edificio, inglobato tuttora nel
mondo creato
dall’assassino Walter Sullivan.
Henry
aveva mentito ad Eileen.
Lui
era preparato per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige
erano pronte
già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio
della porta da giorni. Non che
avesse granché da portare con sé, in
realtà.
Eppure
qualcosa ancora lo legava a quell’appartamento oramai
ingoblato completamente
in quel macabro incubo al quale non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi
in giro, aveva la pessima sensazione che non fosse in grado si
lasciare
l’appartamento 302, o peggio, che oramai non potesse essere
più capace di
farlo.
Come
se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato
nell’incubo che continuava
ad apparire ai suoi occhi, divenendo così egli stesso parte di
esso...
Levò
via l’asciugamano dal viso e una goccia di sudore scese dalla
fronte e
raggiunse la guancia. Si guardò in giro e gli occhi pallidi
presero a tremare, non
comprendendo perché stesse accadendo a lui…
I
muri increspati, il pavimento rugginoso, l’aria pesante e
soffocante…
Si
guardò attorno.
Era
tutto ancora esattamente come a quel
tempo…
Quando
Walter Sullivan era ancora vivo.
La
casa…era ancora infestata. Henry, aveva il terribile
presentimento che l’incubo
non fosse affatto finito. Questo perchè lui…era
ancora persino capace di
percorrere il passaggio che lo conduceva nel mondo alternativo, che
inspiegabilmente era ancora aperto.
Allungò
il braccio verso il tavolino basso di fronte a lui e
trascinò verso di sé una
cartellina nera piena di ritagli di giornale e appunti di vario genere.
Era
da tempo oramai che la situazione era così e non aveva
ancora detto nulla alla
giovane vicina di casa.
Sfoglio
velocemente gli appunti e si soffermò su uno in particolare,
sperando di
spiegarsi perché tale abominio.
Tramite il rito
della Sacra Assunzione, lui ha creato un mondo. Questo esiste in uno
spazio
separato dal mondo di nostro Signore. Più precisamente,
è dentro, ma anche
senza il mondo di nostro Signore.
A differenza di quello di nostro Signore, questo mondo è
altamente instabile. Porte
e muri a sorpresa, pavimenti che si muovono, strane creature, un mondo
che solo
lui controlla...
Chiunque è ingoiato da questo mondo vi rimane per
l'eternità, come non morto,
come uno spirito in una dimensione da incubo. Come può
nostro signore permettere
un tale abominio...?
...E' importante viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un
fardello
troppo pesante se ne pentirà...
Quel
che non riusciva a spiegarsi non era solo il perché la casa
fosse ancora
intrappolata nell’ incubo…
…ma perché avesse la terribile sensazione che non fosse solo
il suo appartamento
ad essere ancora prigioniero.
[…]
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