A walk to remember<< Zio, Zio Sherlock, mi racconti ancora di quando tu e papà combattevate il male? >>
<< Non combattevamo il male, noi sfidavamo il crimine. >>
Disse l’uomo i cui corti capelli oramai tendevano al bianco e solo
alcuni spruzzi qua e là di nero ricordavano il suo reale colore: gli
occhi, azzurri come quelli di sempre, ora erano dolci mentre metteva a
letto il bimbo biondo dagli occhi nocciola. Era piccolo, aveva otto
anni circa, dal volto furbo e lo sguardo curioso: come suo padre, alla
fine.
<< E il crimine non è male? >> Disse lui con occhi grandi,
mentre il caro Sherlock ora gli alzava le coperte fino al mento, così
da proteggerlo dai mostri di quella notte fredda, tipica della Londra
invernale.
<< In effetti, sì. >> Ridacchiò poi, toccandogli il viso,
prima d’accomodarsi sulla bella sedia di legno scuro posta affianco al
letto variopinto: appoggiò le mani in grembo e socchiuse gli occhi,
prima di tornare a guardare il ragazzino che una volta tanto aveva
odiato.
Sì, perché era lui che gli aveva portato via il suo Watson: diavolo,
dopo la sua nascita e la morte di Mary, quell’uomo non aveva più attimi
per lui. Tutto per il suo piccolo Ricky, che tanto stava soffrendo:
aveva due anni e Holmes sapeva benissimo quanto fosse impossibile che
il bimbo capisse cosa stava succedendo, ma non voleva soppesare a
Watson altre disgrazie ponendo l'accento sulla sua mente non acuta. O
per lo meno, non acuta come la sua. Era impossibile alla fine essere
intelligente come lui, ne era più che convinto.
<< D’accordo. La storia che ti sto per raccontare non è una
leggenda o altro… >> Iniziò il caro Holmes, mentre fuori la neve
scendeva leggiadra, e i suoi occhi cerulei si perdevano in quel bianco
candore, riportando la sua mente a quanto era giovane.
A volte capiva d’invecchiare perché la sua mente, una volta deduttiva e
scaltra, perdeva pezzi di ricordi: ad esempio, c’erano dei giorni in
cui non si ricordava il suo incontro con Watson. Essi erano pochi, e
solitamente erano per la stanchezza.
Alla fine, quado raccontava quella specie di favola al piccolo Ricky,
iniziava sempre da quel laboratorio: lui era lì, come tutte le volte
che aveva tempo e, con una piccola siringa, prendeva del liquido da un
vetrino. Tutto era tranquillo, la sua assistente, di cui non ricordava
mai il nome, lo guardava desiderosa come ogni giorno, il silenzio di
quel luogo sterile era unico e la sua mente poteva studiare ogni cosa
gli passasse sotto l’occhio.
Qualcosa cambiò per sempre quel momento, come la sua vita: la porta
s’aprì ed entrò un uomo basso, grasso, e di seguito a lui un altro uomo
che doveva avere poco più di trent’anni, poggiante su un vecchio
bastone marrone e nero. Zoppicava, aveva gli occhi stanchi e di chi
aveva visto troppo, corti capelli bianchi e labbra fini: lo trovava un
uomo tenero, doveva ammetterlo. Molte cose, alla sola vista, gli si
svelarono su quell’uomo: appena tornato dall’Iran, probabilmente quel
suo zoppicare era solo psicosomatico, e la diagnosi data anche dalla
sua analista era più che giusta, come si scoprirà poi in seguito.
Non sapeva cosa, ma era già stato attratto da quell’essere: forse era
per l’idea di debole che dava, o forse per la sua insicurezza. Non lo
sapeva, ma per un attimo qualcuno lo aveva stordito e allontanato dai
suoi esperimenti: una vittoria, poiché era tutta una vita che la gente
ci provava invano.
Non ricordava poi altro, solo la sua gentilezza nel porgergli quel
piccolo apparecchio elettronico da cui il giovane Sherlock dedusse
altre nozioni, prima di fissargli un appuntamento.
<< Chi ha parlato di convivenza? >> Disse quell’uomo
accigliato, e il sorriso del detective fece intendere ben altro.
<< Il fatto che lui sia arrivato con un uomo mio potenziale
coinquilino quando ho detto che ne cercavo uno mi fa pensare ciò.
>> Rispose quasi con fretta, mentre indossava il cappotto per
andarsene. Era l’inizio di qualcosa di peggiore.
Il fato è scritto, per quanto vogliamo remare contro, esso vincerà
sempre: e per loro fu così. Una donna si mise tra loro, quando Sherlock
l’incontrò la prima volta aveva voglia di piangere: qualcosa d’assurdo
pensò, giacché in tutta la vita mai gli era capitato. Questa donna, una
bella inglese sui trent’anni, bionda e dagli occhi chiari, aveva
catturato l’attenzione di Watson, che prima era solo incentrata su di
lui.
Non la vedeva giusta per lui, forse perché al fianco dell’amico non vede altri che se stesso, ma non poteva dirlo.
<< Che te ne pare? >> Domandò lui un pomeriggio soleggiato nell’appartamento di Baker Street.
Sherlock, perso nella lettura di un libro seduto in una poltrona, lo
guardò, mentre i propri occhi scintillavano alla luce di quell’astro
pomeridiano: l’azzurro glaciale era ancora più potente del solito, e i
corti capelli neri gli davano un aria dannata incredibilmente sexy. O
per lo meno, lui si sentiva così.
Sorrise all’amico, mentre i bei denti bianchi scintillavano tra le
labbra perfettamente disegnate di un roseo infantile, apparvero, e le
mani da principe inglese tenevano elegantemente un libro.
<< In realtà non mi piace, la trovo onnipresente nel nostro rapporto. >>
<< Nostro rapporto? >>
<< Sì. Nostro rapporto. >> Per la prima volta da quando lo
conosceva, vide Watson veramente confuso a quelle parole: Sherlock, al
contrario, era divertito dal volto stranito dell’amico, e decise di
fornirgli una prova fisica di ciò che intendeva.
Poggiò il libro d’antologia inglese sul tavolino di acero scuro lì
affianco e si alzò in piedi. Poi, con passo elegante e leggiadro,
s’avvicinò all’altro fino a essere a una distanza tale da potersi
abbassare alla sua altezza: ora che i loro volti erano così vicini, il
corpo del detective sempre mosso da sicure emozioni tremava
leggermente. Tutto quello che avrebbe fatto, da quel momento in avanti,
poteva cambiare il loro rapporto per sempre: erano due le strade che
avrebbero potuto prendere.
Avrebbe potuto decollare, quindi Watson avrebbe lasciato quella stupida
donna. Avrebbero potuto essere felici insieme, dividere il letto nella
camera del detective, perché più grande tra le due aveva pensato, e lei
se ne sarebbe andata dalle loro vite per sempre.
Al contrario, tutto sarebbe distrutto, finito. Probabilmente Watson se
ne sarebbe andato, perché stare nella stessa casa con un uomo che ti ha
fatto le sue avance, non era possibile: e lui? Avrebbe avuto il cuore
distrutto, nel sentirsi chiamare al matrimonio dell’uomo che ama.
Non poteva fare altro, era il momento di scegliere, di buttarsi definitivamente.
Si avvicinò alle labbra dell’uomo, che erano fini, comparate alle
proprie, e gli accarezzò il viso, poggiando delicatamente le proprie a
quelle dell’altro uomo.
Da parte sua, Watson rimase immobile: non era stupido, ammetteva d’aver
già capito a che punto l’altro volesse arrivare, e non sapeva come
rispondere. Alla fine, era sempre stato affascinato da quell’uomo, da
quel ragazzino doveva forse dire: la sua intelligenza e la sua
prepotenza creavano un letale fascino, che lo aveva catturato. Lui,
però, aveva Mary, che ora era incinta: come dirlo all’altro?
Non lo sapeva, e decise di lasciarsi cadere in quel momento,
approfondendo il bacio con l’altro, leccandogli dolcemente le labbra,
così da farle schiudere. Sentiva Holmes, per la prima volta da quando
lo conosceva, sconvolto, forse perché si aspettava di essere scacciato
cattivamente. Non era così, tanto che lo prese per le spalle,
tirandoselo concretamente in braccio, come si fa coi bimbi quando
cercano di scappare dopo una marachella.
Si staccò dolcemente dall’altro, che lo fissava con occhi grandi e sorrise, accarezzandogli il volto.
<< Sherlock. >> Iniziò con voce dolce e ovattata, facendo
cadere il detective in una specie di trance: si sentiva come quando era
bambino, e la madre lo accudiva dolcemente. << Mary è incinta.
>> Sussurrò poi, e nella mente del giovane Holmes avvenne
l’imprevedibile: era strano, come se spegnesse ogni cellula, non
riusciva a pensare.
Si sentiva usato, distrutto: non capiva il motivo di tale dichiarazione
se ora non potevano già più stare insieme. Diamine, avrebbe mai avuto
la possibilità di essere felice, un giorno?
Le stagioni si susseguirono, le foglie cadevano in autunno per poi
riempire nuovamente le fronde degli alberi in primavera, mentre nel
cuore di Holmes oramai vi era l’inverno continuo.
A sua volta, Watson vedeva l’amico distrutto da quella situazione, e
capì che non era più possibile andare avanti così: né parlò a Mary, che
rimase sconvolta da quella cosa, tanto da decidere di andarsene. Da
sola. Watson capì che era la cosa giusta e la lasciò fare, guardando
quella donna fragile e col pancione preparare velocemente le valigie:
logico, dopo quella confessione, non poteva rimanere lì, perché…
<< Sherlock, è ora di dormire, dovresti saperlo. >> Rispose
l’anziano Watson appoggiato sullo stipite della porta, divertito nel
vedere quella scena: ora il figlio era accoccolato su se stesso,
coperto dalle lenzuola bianche candide, e Holmes sedeva affianco a lui,
raccontandogli ancora quella storia. Che s’interrompeva sempre nello
stesso momento, poi. Sherlock era un grande favoliere, ecco cosa si era
scoperto. E sapeva farci con i bambini.
Lui annuì, alzandosi delicatamente dal letto, ma le mani del bambino si
strinsero attorno alla sua, guardandolo con grandi occhi scintillanti.
<< Zio, perché non mi racconti mai come finisce? >>
<< Tu come pensi che finisca? >> Sorrise allora il grande
investigatore, lasciandogli in bacio sulla fronte, prima di uscire
dalla stanza, dove ora il piccolo favoleggiava su quella storia d’amore.
Watson sorrise nel sentire quella frase e tirò a sé l’altro uomo, baciandolo sulla guancia più vicina alla sua portata.
<< Sai farci con i bambini, Sherlock. >>
<< È una vita che sono con te, Watson. >> Rispose l’altro
uomo, prima di lasciarsi andare a un bacio dolce tra le braccia
dell’altro.
Alla fine, Ricky non era uno stupido e ora, affacciato allo stipite
della porta ancora aperta, fissava i due camminare amorevolmente nel
corridoio, verso la loro stanza, e sorrideva, perché aveva capito che
non vi poteva essere fine più bella di quella.
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