Dulcedinem diaboli
Storia prima classificata al contest "Mini Original 4 - L'Anima e... la Serpe" indetto da schwarzlight su Original Concorsi. Il giudizio è riportato in recensione.
Nick dell’autore: Ely79
Titolo: Dulcedinem diaboli. Il dolce del Demonio
Tipologia: One shot
Lunghezza: 4.931 parole
Genere: Dark, Fantascienza, Introspettivo, Soprannaturale
Avvertimenti: Non per stomaci delicati
Rating: Arancione
Credits: C’è una
vaga ispirazione a “Il più grande cuoco di Francia”
di Stefano Benni e, se proprio vogliamo, al programma “Il Boss
delle Torte”.
Note dell'autore: ambientazione steampunk. Pur essendo ambientata a Torino, alcuni luoghi sono di mia invenzione.
Introduzione alla storia: La
pasticceria d’Amico è tra le più rinomate del regno
di Savoia. Uomini e donne illustri siedono ai suoi tavoli ogni giorno,
ordinando paste e torte tra le più sublimi al mondo. Ma la sera,
a tarda ora, c’è posto per un solo cliente. Un cliente
esigente, che pare incontentabile.
La prestigiosa pasticceria d’Amico sorgeva all’angolo dove
Viale della Concordia sfociava nella celebre Piazza delle Vittorie Alate1.
Le otto statue raffiguranti i trionfi dei Savoia proiettavano le
maestose ombre dal lato opposto a quello del negozio, dando adito alla
diceria secondo cui le divinità ossequiavano in tal modo la
bravura dei pasticceri.
Le vetrine affacciavano su uno dei passeggi più in vista di
Torino, dove vezzose dame in crinoline sfilavano al braccio di pomposi
gentiluomini dagli alti cilindri. Omnibus trainati da cavalli cedevano
il passo a velocipedi e trabiccoli inseguiti da volute di vapore
candido, che proiettavano arabeschi fra le alzate di cristallo. Cani
meccanici inseguivano gatti randagi che arrivavano dai Giardini Reali,
divertendo con le loro zuffe gli avventori seduti ai tavolini della
saletta interna.
Di giorno il chiacchiericcio e gli sguardi affamati dei torinesi
riempivano d’orgoglio le cameriere e gli inservienti che si
affaccendavano tra l’immenso bancone e i posti a sedere,
accontentando ogni richiesta tra mille sorrisi. Ma quando dal
Santissimo Nome2 le squille battevano
le sette, rigirandosi alla sommità del campanile tra gli sbuffi
sibilanti dei meccanismi oscillatori, le luci si spegnevano e con esse
i macchinari sul retro. Il gaio viavai era sostituito dalla quiete
notturna. Biscotti e pastefrolle riposavano coperti da teli di cotone,
dolci ripieni e torte sonnecchiavano in campane di vetro raffreddate
dall’aria che saliva dalle cantine. Più d’un
Carabiniere rallentava il passo durante la ronda, ingolosito dalle
delizie e dimentico dei propri doveri.
Anche il piccolo Flavio d’Amico non riusciva a chiudere occhio ed
i suoi pensieri, allo stesso modo dei gendarmi, correvano ai dolci ma
per motivi ben diversi.
Da due giorni vedeva suo padre consumato dall’ansia e dal
nervosismo. Aveva trascorso ore e ore nella piccola stanza dove, tutto
solo, studiava e dava forma a nuove leccornie. Poco prima di cena ne
era uscito con l’ennesima creazione, malgrado ciò non era
sembrato entusiasta come suo solito: quando inventava una nuova delizia
il suo entusiasmo dilagava fin sulla collina di Superga e le sue risa
superavano in altezza la Mole dell’Antonelli. Al contrario, era
parso estremamente preoccupato e contrariato. Svuotato. Vederlo
così aveva spinto Flavio a scoprire quale grave problema
l’affliggesse.
Attese che la madre, la nonna e le sorelle dormissero per sgattaiolare
fuori dalla propria camera. Imboccò lo scalone che portava al
pianterreno, stringendosi nelle braccia per via della frescura notturna.
Aprì con grande attenzione la porta delle cucine. Dentro, le
immense bocche dei forni si spalancavano vuote e nere come fauci di un
animale mitologico. Al loro fianco, un automa era curvo in avanti,
quasi stesse riposando. In realtà attendeva solo l’onda di
vapore che dalla cappa sarebbe passata attraverso i tubi nel muro,
animandolo. Flavio gli passò accanto facendo boccacce.
Superò i lunghissimi tavoli degli impasti e delle decorazioni,
raggiungendo la porta alle spalle del bancone della pasticceria.
Lentamente socchiuse l’uscio e allungò la testa nel buio.
Oltre le vetrine riusciva a scorgere i basamenti delle Vittorie ergersi
pallidi e immensi. Scivolò lungo i cassetti e i ripiani di marmo
lucidati con l’olio di mandorle, raggiungendo il varco da cui
passavano le cameriere. Si sentivano voci provenire dalla sala da
tè.
Nascosto dal manto della notte, Flavio si inginocchiò,
sporgendosi con cautela. Temeva non avrebbe visto ad un palmo dal naso,
ma con sua grande sorpresa piccole fiammelle danzavano nella grande
stanza.
E lì stava la sagoma di un uomo ritagliata dalla luce: basso,
corpulento, monolitico; le braccia massicce terminavano in mani piccole
ed affusolate, le gambe tozze invece disegnavano un goffo arco. Capelli
ispidi e bruni guizzavano alla base della toque3,
contornando con basette cespugliose il volto rotondo. Era suo padre,
Orazio d’Amico, capo pasticcere e proprietario del negozio.
Di fronte a lui, seduto al tavolino più in vista, proprio al
centro della sala da tè, c’era un ospite. Non era insolito
che qualcuno si presentasse a tarda ora: alcuni dei più
importanti avventori della pasticceria mostravano curiose inclinazioni,
che superavano gli accostamenti arditi di ripieni e glasse.
Il bambino dovette allungarsi fino a rimanere in bilico sul bordo del
gradino per cercare di scoprire chi fosse il degustatore notturno. Da
principio non riuscì a vederlo perché la massiccia
schiena del genitore ostruiva la visuale, ma gli bastò attendere
che la tensione facesse il proprio dovere – costringendo Orazio a
camminare per il locale - per poterlo osservare indisturbato.
A giudicare dagli abiti alla moda, doveva trattarsi di un nobiluomo.
Era ossuto, di carnagione olivastra, eppure non possedeva tratti che lo
accomunassero agli avventori stranieri che occasionalmente facevano
tappa presso di loro. I capelli ed il sottile pizzetto che gli
incorniciava la bocca erano nerissimi, impomatati al punto tale da
sembrare disegnati con pennellate di cioccolato fuso. Sedeva composto
al tavolino, muovendo con compita eleganza le mani mentre portava alle
labbra la forchettina d’argento.
Da quella distanza era difficile dire cosa suo padre gli avesse
proposto, ma Flavio era sicuro che quell’uomo sarebbe rimasto
soddisfatto dalla golosità che aveva ricevuto nel piattino di
porcellana. A quell’idea una punta di orgoglio lo fece sorridere
nel buio, dandogli persino l’illusione che l’aristocratico
gourmet si fosse voltato a guardarlo. E quando lo vide riporre la
posata, tese le orecchie per carpire ogni sillaba delle lodi che
certamente stava per tessere.
«Eccellente, dico davvero. Un autentico capolavoro della
pasticceria. Un abbraccio sublime di castagne, arance e biscotto alla
cannella. Con un tocco di chiodi di garofano, vero? Sì, Orazio,
l’ho percepito, anche se solo all’ultimo boccone. Un
gioiello» sospirò soddisfatto, tamponando delicatamente le
labbra con il tovagliolo, «ma ahimè, non è
sufficiente. Non ancora».
Il pasticcere scrollò le spalle, lasciando cadere a terra lo
strofinaccio che aveva stretto convulsamente fino a quel momento.
Flavio inorridì, sentendo mancare la presa sul gradino. Non si
capacitava di tanta superficialità: i dolci di suo padre non
potevano essere manchevoli. Non lo erano mai stati.
«Ma cosa posso fare più di così? Vi rendete conto
di quanta fatica mi sia costata quel dolce?» protestò
esasperato il pasticcere, strappandosi la toque dal capo.
La voce usciva strozzata dalla gola, quasi stesse soffocando nel proprio disappunto.
«Oh, non adiratevi, Orazio. Posso immaginare benissimo quanta
arte avete profuso nella creazione di questa delizia. E credetemi,
è realmente uno dei dolci più raffinati che abbia mai
assaporato in tutta la mia vita che, come sapete, è molto lunga.
Il modo in cui i sapori si sposano ha, passatemi il termine, del
“divino”. Proprio per questo non posso fare a meno di
definirla eccellente. Tuttavia,» puntualizzò con una certa
durezza, «converrete con me che manca ancora qualcosa. Un
elemento sostanziale. Quello alla base del nostro accordo».
Lo sguardo con cui accompagnò le ultime sillabe era denso di muti sottintesi.
Orazio grugnì una risposta che sapeva di fiele. Da anni tentava
di accontentare quel cliente, senza riuscirvi. La sua richiesta era
inappagabile, persino per un uomo dotato della sua inventiva.
«Non angustiatevi, d’Amico. Sono assolutamente sicuro che
riuscirete nell’intento» lo consolò il cliente,
battendogli una mano sulla spalla mentre si alzava. «Ora devo
andare, il dovere mi chiama e voi sapete bene che lassù
c’è chi agogna le mie distrazioni. Vi farò sapere
quando avrò il piacere di essere ancora vostro gradito
ospite».
Flavio lo vide allontanarsi verso l’Angolo della Cornucopia, che
a quell’ora era avvolto in un’ombra densa e cupa. Per un
istante percepì distintamente lo sguardo del cliente posarsi su
di lui mentre lo salutava sfiorando con due dita la tesa del
cilindro. Ed era certo che stesse salutando lui, una voce dentro glielo
diceva.
L’uomo scomparve al lugubre rintocco dell’una del mattino,
letteralmente dissolto nella notte. Flavio stropicciò gli occhi
più volte, incredulo: non c’erano porte da quel lato del
negozio, l’uomo non poteva essere uscito. Un brivido lo scosse,
mentre osservava i riflessi dei lampioni sulle spire ritorte della
decorazione, in cerca di un trucco da prestigiatore.
Gli occorse qualche istante per riaversi dalla sorpresa e cercare suo
padre. Era ancora nella sala da tè, intento a farsi il Segno
della Croce infinite volte mentre crollava su una sedia.
«Papà? Chi era quell’uomo?» domandò.
Il pasticcere trasalì, drizzandosi di scatto. Fissò con
doloroso stupore il figlio, incapace di domandare perché fosse
sveglio a quell’ora tarda o cosa l’avesse condotto fin
lì dal suo letto. Gli occhi scuri si riempirono di lacrime di
fronte a tanta innocente curiosità. Esitò nel rispondere:
le parole che avrebbe voluto pronunciare gli pesavano sul cuore quanto
l’orribile contratto che aveva siglato anni addietro.
«Quell’uomo?» disse titubante, accarezzandogli la
testa. «Flavio, quello non era un uomo. Era il Diavolo. E non lo
dico per dire, come quando dico che una fetta di bunet4
è salata ed intendo che costa troppo. Quello era il Diavolo in
persona e il Cielo solo sa quanto avrei voluto che tu non
l’avessi visto».
La rivelazione lasciò a bocca aperta il bambino. Pur
frequentando una scuola dei Padri Gesuiti, non aveva mai pensato che il
Tentatore esistesse davvero; l’aveva presa per la solita tiritera
da imparare a memoria per evitare bacchettate sulle mani, una delle
tante storie cui fingere di credere per far contenta la nonna.
Guardò intorno: Padre Veyne diceva sempre che dove passava Lui
restavano orme di zoccoli impresse a terra, odore di zolfo
nell’aria e fiamme ardenti. Eppure nella pasticceria non
trovò nessuno di quei segni.
«Ma perché era qui? Vuole i nostri dolci?» domandò perplesso.
Orazio emise un profondo sospiro per nascondere un singhiozzo.
«Non vuole i nostri dolci. Ne vuole uno. Uno soltanto» sospirò, sprofondando il volto tra le mani.
Improvvisamente sembrava invecchiato di molti anni. Il suo corpo era coperto di sudore gelido e tremava.
«Quale?» chiese il bambino, guardandosi attorno.
Nel negozio c’era solo l’imbarazzo della scelta, lo sapeva
bene. Non riusciva a capire perché suo padre fosse tanto
angosciato: molte persone entravano nel negozio con pretese assurde e
se ne andavano sempre con le braccia cariche e l’espressione
appagata. Sarebbe andata così anche quella volta, nonostante il
palato in questione fosse tra i più improbabili del Creato.
«Non è qui. Non esiste ancora. Vuole un dolce su misura,
me l’ha commissionato anni fa, quando ho rilevato la pasticceria
dal nonno. Mi ha chiesto il dolce perfetto. Un dolce con
l’anima».
Flavio non capiva. Gli avevano insegnato che solo le persone
possedevano un’anima. Come poteva un pasticcino possederne una?
***
Era notte. Un’altra notte.
La pasticceria riposava in sogni di burro e vaniglia, dove la frutta
candita era avvolta in coperte di fondente e mattonelle di cioccolato e
riso costruivano le pareti di un castello incantato. Il respiro delle
cantine continuava a diffondersi negli scomparti del bancone,
sussurrando una fredda ninna nanna.
Il Diavolo emerse dai tendaggi di velluto, indossando un impeccabile
completo scuro su cui scintillavano piccoli ornamenti d’oro. Le
sue entrate lasciavano sempre di stucco Flavio, anche se si ripetevano
identiche ogni volta.
«Buona sera, giovane d’Amico» salutò affabilmente il cliente, levando il cilindro con gesto teatrale.
I capelli nerissimi mandarono baluginii nell’oscurità.
«Buona sera, signore. È un piacere ospitarvi nel nostro negozio» rispose educatamente Flavio.
Negli anni aveva messo a punto gli atteggiamenti migliori da adoperare
con ogni acquirente, anche se nessuno degli habitué poteva
vantarsi di giungere fin lì dall’Oltretomba né di
esserne il padrone.
«Non è mai un piacere avere il sottoscritto alla porta, ma
suppongo di poter accettare un simile ossequio in veste di
cliente» scherzò educatamente Lucifero.
Flavio lo fece accomodare allo stesso tavolino dove l’aveva visto
la prima volta e dove si era seduto ad ogni successiva visita.
L’aveva preparato personalmente, subito dopo la chiusura,
adornandolo con sobrietà, senza eccedere in profusioni di
lustrini e decorazioni bizzarre che avrebbero distolto
l’attenzione dalla ghiottoneria nascosta sotto la campana
d’argento.
«Non vedo tuo padre».
«Domanda retorica?» replicò il giovane, asciutto.
Orazio era mancato pochi giorni prima, dopo l’arrivo del biglietto che annunciava la visita. E Lui non poteva non saperlo, stava recitando: la sua espressione tradiva volutamente la finzione.
«Dolente per la vostra perdita. Vi faccio le mie più
sentite condoglianze per un evento che deve avervi scosso nel
profondo».
Sarebbe potuto quasi sembrare un autentico cordoglio, se non
l’avesse pronunciato con gli occhi fissi sul coprivivande, che fu
sollevato subito dal solerte anfitrione.
«Per voi, la mia nuova creazione: Ammentu5. Una pasta violada6
fritta in olio d’oliva, inzuppata con sciroppo agrodolce a base
di mirto, guarnita con zeste d’arancia, cannella e
coriandolo».
Di per sé, il dolce non si presentava affatto come una prova di
maestria culinaria: chi avesse avuto la fortuna di viaggiare nelle
terre a Sud del Regno di Savoia l’avrebbe incontrato su ogni
tavola il Martedì Grasso; ciò nonostante, la piccola
ghirlanda emanava un che di misterioso e arcano, difficilmente
riconducibile alla definizione di “semplice”.
Dentro di sé, Flavio sapeva. Sapeva cosa rendeva unico il nodo
di pasta ed il segreto gli strideva nel petto, innescando il movimento
d’un ingranaggio fino ad allora rimasto quasi immobile.
Guardò il tenebroso cliente sollevare il manicaretto tra le
dita, addentandone una piccola porzione. Aveva denti spaventosamente
bianchi e regolari. Masticò a lungo, assaporandolo con una
lentezza neppure lontanamente paragonabile a quella dei critici
culinari che transitavano di lì nella speranza di cogliere in
fallo i d’Amico.
Poco alla volta, sulle labbra sottili prese ad allungarsi un sorriso
sempre più grande. Un godimento smisurato, il senso di una
soddisfazione impareggiabile, il gusto della vittoria ottenuta con
l’altrui mano.
«Eccolo» esclamò d’un tratto, gli occhi dorati
socchiusi per contemplare al meglio ogni sfumatura gustativa. «Ci
sei riuscito, ragazzo. Questo è il dolce che stavo cercando. Un
dolce con l’anima».
Mentre pronunciava quelle parole, un luccichio estatico e sanguigno gli inondava il volto.
Flavio avrebbe voluto provare disgusto per quell’affermazione.
Avrebbe desiderato odiarla e correre a vomitare nel cortile sul retro,
ma sentiva lievitare la soddisfazione e l’orgoglio per la propria
creazione.
Un pensiero lo strappò dal momento di giubilo, riportandolo alla vena di rabbia che portava dentro.
«Avete ottenuto ciò che desideravate. Se il debito è saldato, potete andarvene».
Il Diavolo prese il tovagliolo e si pulì educatamente la bocca, scrutandolo con attenzione da dietro la stoffa.
«Credi davvero, giovanotto? E cosa avrei desiderato, sentiamo».
«Volevate un dolce che possedesse un’anima. Non stavate
parlando di un ripieno particolare o dell’aura che lo sforzo
creativo può lasciare impresso negli ingredienti. Parlavate di
un’anima vera e propria, infusa a forza di distillazioni e
manipolazioni. Un’anima umana. Ora l’avete avuta»
ringhiò Flavio poggiando i pugni sulla tovaglia candida.
«Adesso ditemi, signore: com’era l’anima di mio
padre? Era all’altezza del vostro abominevole palato?».
Il Diavolo lo fissò a lungo e lui sostenne il suo sguardo senza mostrare timore.
Un nuovo sorriso si allungò nel volto arcigno.
«L’anima di tuo padre? Pensi davvero che fosse questo che
desideravo?» chiese, inarcando le sopracciglia in archi di
perfetta quanto fasulla perplessità.
Il sogghigno demoniaco fece rabbrividire il giovane che si
staccò dal tavolo, quasi sperasse che l’aria fra loro
potesse divenire uno scudo.
«Di certo non siete qui per moelleux7
con coulis di barbabietola speziata o una millefoglie con zabaione allo
Sciacchetrà» ribatté deciso, ma le ginocchia gli
tremavano.
Troppe volte a scuola, Padre Veyne aveva sottolineato come il Signore
degli Inferi fosse abile nel dissimulare le proprie brame, eppure nulla
poteva togliere dalla mente del pasticcere che tutto ciò che era
accaduto in quegli anni dipendesse da una sola cosa: il possesso di
un’anima.
«Mio caro Flavio, non fingerti più ingenuo di quanto tu
non sia in realtà» lo canzonò. «Sai
perfettamente che non era il soffio vitale di tuo padre a interessarmi,
bensì qualcosa di molto più… sostanzioso»
ammiccò, accompagnandosi con un elegante cenno della mano.
Dalle mensole dietro il bancone si staccò un grande contenitore
di vetro colmo di minuscole caramelle colorate, che fluttuò
verso di loro.
«Quante altre anime credi possa avere come la sua, solo
schioccando le dita? Decine? Centinaia? Migliaia? Potrei saziarmene a
piacimento, senza centellinarle perché il loro gusto sarebbe
sempre identico. Non c’era nulla di speciale nell’anima di
tuo padre. In sé, non aveva molto di diverso da tanti altri
artigiani di mia conoscenza. Anzi, potrei dire che rispetto ad alcuni
è risultato persino sciapo, inconsistente. Decisamente non
all’altezza dei suoi dolci. Ma tu questo lo sapevi, dico bene,
figliolo?»
Il pasticcere strinse i pugni nel grembiule, illudendosi di non essere
visto, ma sapeva fin troppo bene che tanto Dio avrebbe visto i suoi
peccati, tanto li avrebbe potuti leggere il suo nero omologo.
«Sappiamo entrambi che non bramavo la sua anima»
proseguì il Demonio, sollevando il coperchio e frugando tra le
caramelle con tocchi delicati.
Per interminabili istanti, il timido crepitio dello zucchero contro il vetro fu l’unico suono a riempire la pasticceria.
«Era la tua» concluse, estraendo un succulento cremino all’amarena dal mare di variopinte ginevrine8.
Il senso di quell’artificio era chiaro: lo riteneva un guadagno ben superiore a quello inizialmente preventivato.
«Voi non la possedete» si oppose Flavio, percependo la
sgradevole sensazione di aver appena mentito a sé stesso.
Il cliente ripiegò con cura l’incarto del cioccolatino,
dandogli la forma di una cornucopia. La stessa nell’angolo della
stanza.
«Pensi forse che occorra un contratto scritto e vergato col
sangue?» rise divertito, lasciando che la giara tornasse al
proprio posto. «Ragazzo mio, ci sono modi molto meno burocratici
per cedere il proprio spirito alle mie interessate attenzioni. Non
prendere per oro colato tutto quello che ti raccontano certi
maestri. Non mi conoscono così a fondo come danno ad
intendere» soggiunse malevolo. «A tuo padre bastò
una semplice promessa, per rendere questo posto un santuario della
gola, nessun incartamento né sangue».
Il cioccolatino svanì tra le fauci infernali, portando con
sé anche le ultime certezze cui il pasticcere tentava di
aggrapparsi. Ad ogni parola sentiva dissolversi la corazza che quegli
insegnamenti avevano rappresentato, lasciandolo inerme di fronte alle
proprie colpe.
«Quella sera, mentre ci spiavi, mi stavi già offrendo
quanto cercavo. Ed avevi solo dieci anni. Non hai ascoltato per caso la
mia conversazione con tuo padre. Eri lì perché dovevi
esserci. Era bastato il tuo sguardo dietro al bancone a siglare il
nostro patto. Tu hai incoraggiato il vecchio Orazio alla decisione di
renderti partecipe dell’accordo. E con una notevole
abilità, se mi concedi. Parlargli per anni come un qualunque
figlio amorevole avrebbe fatto, spronandolo a non cedere, aiutandolo
nei suoi svariati tentativi, sostituendoti a lui quando lo vedevi
stanco, spingendolo ad investire nella bislacca tecnologia messa in
piedi dal tuo amico Pierre Libion. A proposito, penso andrò a
fargli visita: i suoi marchingegni mi affascinano. Potrebbero tornare
utili alle mie cause, almeno quanto lo sono stati alla tua. Ma non
divaghiamo. Dicevo giustappunto che hai indossato le vesti del figlio
modello per quindici anni, accollandoti spesso più rischi del
necessario perché lui arrivasse ad avere cieca fiducia in te,
nelle tue scelte. Nelle tue parole. E appena hai saputo della mia
venuta, hai attuato il piano che dentro di te aveva iniziato a
germogliare da allora e che hai coltivato segretamente. Perché
sapevi che i tempi erano maturi e che Orazio stava per rinunciare.
Avrebbe abbandonato ogni cosa, mandando in frantumi ciò che
aveva realizzato, senza che tu potessi far nulla. Suppongo te
l’abbia detto o, almeno, te l’abbia fatto intuire».
Il giovane si morse le labbra, rammentando le molte discussioni con il
defunto genitore. Quante volte gli aveva espresso i suoi dubbi, il
desiderio di rinunciare e pagare lo scotto di deludere il Maligno?
Perdere la pasticceria ed il benessere che ne derivava, ma aver salva
l’anima dinanzi a Dio. Quante volte lui si era opposto,
insistendo sulle grandi doti che, per tradizione, li
contraddistinguevano? Quante volte era riuscito a fargli cambiare idea?
«Così l’hai preceduto. Gli hai impedito di venir
meno alla parola data in un modo molto pratico, ingegnoso, degno delle
tue abilità. Ne hai raccolto lo spirito e l’hai usato
per…»
«E perché avrei dovuto compiere un abominio simile?
Perché? Era mio padre!» l’interruppe bruscamente.
Prepotenti e dolorose, le immagini del giorno prima presero a scorrere
nei suoi occhi. Rivedeva suo padre controllare l’automa accanto
ai forni, mentre sfilava un vassoio di budini di riso, il volto stanco
e depresso. Non visto, Flavio aveva ruotato la ghiera del vapore e in
un attimo l’automa era come impazzito, colpendo Orazio alla testa
con la teglia. L’uomo era caduto a terra ed il giovane, una volta
rimesso tutto in ordine, l’aveva trascinato di peso nella
cantina. Là era stato costruito un grande marchingegno, frutto
delle ricerche del suo amico Pierre, esperto ingegnere e impareggiabile
ghiottone. L’avevano ideato insieme, fondendo saperi culinari e
scientifici, per distillare oli essenziali ed estratti particolari,
oltre che per produrre basi alcoliche aromatizzate per i dolci ed
elisir da sorseggiare in sostituzione di tè e tisane.
Aveva gettato il corpo inerme nel distillatore, aprendo le saracinesche
e le manette di avviamento. La caldaia aveva iniziato a borbottare non
appena le fiamme avevano acquistato vigore. Aveva calato i filtri per
la pulizia dei vapori nei condotti, selezionandoli con cura maniacale
dalla pulsantiera per ottenere la massima purezza del fluido. Sapeva
che suo padre era ancora vivo – doveva esserlo per la riuscita
della preparazione - e ne aveva avuto conferma quando aveva udito
battere colpi disperati sull’oblò di controllo. Erano
stati solo pochi secondi di gemiti soffocati e gorgoglii, di braccia
agitate e occhi sbarrati in un’inutile richiesta di aiuto. Era
rimasto a guardarlo mentre le pompe a vapore gli risucchiavano la vita
dalle carni, svuotandolo dell’essenza. La pressione
all’interno dell’enorme alambicco di distillazione aveva
trascinato via componenti tanto preziosi quanto impalpabili,
tramutandoli in gocce verde pallido. Flavio si era stupito con sdegno
di quanto piccola fosse la quantità di siero prodotta. Non aveva
provato orrore o angoscia. Solo un lieve disgusto verso sé
stesso, di cui però stava comprendendo i motivi in quello stesso
momento: avrebbe desiderato averlo fatto prima.
Alla famiglia e agli inservienti aveva raccontato di averlo trovato
lì dentro, già trapassato. Si era pensato a una
disgrazia, ad un semplice attimo di follia o ad un cupo desiderio
personale dai motivi più disparati (troppa concorrenza, crisi
d’età, vuoto di creatività). Nessuno pertanto aveva
badato al silenzio dell’erede e il suo buttarsi nel lavoro era
stato interpretato come un modo per superare il lutto e onorare la
memoria del padre.
In verità, Flavio stava solo portando a termine l’ordinazione ricevuta.
«Avevi capito già allora come funzionava il gioco» spiegò Lui, masticando quieto il cremino.
Le sue mascelle non emettevano alcun suono, pur muovendosi con un discreto vigore.
«Guardati intorno. Cosa vedi? Una pasticceria? Un semplice
negozio? Suvvia. Non sei tanto sciocco. Tuo padre forse ci vedeva
questo, ma non tu. Tu riesci a scorgere ciò che si nasconde
dietro le glasse, fra le pieghe della sfoglia, nelle onde delle
creme» lo incalzò, sporgendosi sul tavolo.
«Coraggio, Flavio. Raccontami cosa vedi».
Il giovane deglutì a vuoto, rabbrividendo mentre intorno le luci
si accendevano come in una giornata d’agosto. Strinse gli occhi
per qualche secondo, poi cominciò ad udire rumore di passi,
stoviglie e voci confuse. Tornò a guardare e vide la pasticceria
piena di gente.
«Vedo il Re. Il Re entra e mi omaggia, tendendo le mani
perché gli faccia il dono di un confetto. Dietro di lui viene la
corte. E tutti s’inginocchiano per avere uno dei miei dolci. Mi
supplicano perché dia loro un biscotto di farro. I generali
sfoderano le spade perché v’infilzi bignè e
castagnole. Il Primo Ministro mi offre le chiavi del Regno
perché le ricopra di croccante».
L’ilarità del Diavolo si mescolò alla
consapevolezza del poco valore che il giovane attribuiva a quelle
figure: nessun nobile avrebbe mai fatto carte false per simili
banalità. Doveva ritenerli un’autentica massa di imbecilli
senza arte né parte.
«C’è Élodie Caillon, bella come al
cinematografo. Entra danzando, imitando la Salomè che
interpretava nel film. Vuole che le faccia gioielli di zucchero e
canditi e vestiti di cioccolato finissimo» mormorò, senza
rendersi conto d’essere arrossito. «Non aspetta neppure che
risponda: si denuda qui davanti a me. Vuole solo che la vesta di
cioccolato, immediatamente, e che poi lo divori. E poi la prenda. Vuole
me. Sembra fatta di pannacotta tempestata di petali di rosa candita e
si apre come una brioche calda».
L’idea di quella donna così conturbante e vogliosa fu
annotata dal Demonio per futuri progetti. Trovava sempre molto
interessante scoprire come una creatura nata per essere divina
riuscisse a sollevare gli istinti meno pii.
Ma Flavio non aveva terminato di raccontare.
«Ecco, ora arriva quell’imprenditore, Bernardo Guarini.
Dicono che la sua industria produrrà mezzi di trasporto nuovi e
a buon mercato. Vuole consultarmi perché gli indichi lo sciroppo
migliore da aggiungere all’acqua, così che il vapore che
uscirà da quegli affari profumi di delizie le strade. Mi
supplica di studiare con lui un nuovo carbone, da inserire in veicoli
identici a quelli per gli adulti ma fatti per i bambini. Vuole usare
quello e gli scarti delle loro merende per alimentare le caldaie che
spingeranno i giocattoli».
Lucifero annuì, colpito dalla commistione di lungimiranza e
dissennatezza. Rendere gli uomini più veloci di quanto l’Altissimo
avesse previsto, per mezzo di assurdi macchinari. Erano già in
grado di solcare i cieli e le acque, di strisciare nel ventre della
terra e di camminare sul letto dei mari. Presto Lui
stesso li avrebbe spinti a perforare le nubi per raggiungere le stelle
con mezzi capaci di far provare le vertigini persino agli Arcangeli;
tuttavia il desiderio di Guarini possedeva una vena intrinseca di
depravata malvagità.
«Adesso entrano i banchieri, Piccardi e Macet. S’inchinano,
lodando la mia bravura, la superiorità delle mie abilità
creative, la magnificenza delle mie creazioni, la mia indiscussa
capacità nell’imporre il gusto dell’anno sul
mercato. Vogliono che diventi loro socio. Chiedono di poter investire
nella pasticceria. Mi pagheranno migliaia di reali9
per mettere sotto chiave il nostro nome e per aprire nuove sedi nel
Regno e in Europa. Avrò una cassetta di sicurezza nel loro
caveau, dove sarà inciso il mio nome in oro e sarà colma
di denaro e, un giorno, i miei soci si faranno da parte ed io
metterò le mani sui loro capitali, quando pensavano che
sarebbero stati loro a farlo con i miei».
Avrebbe potuto parlare fino all’alba, elencando molte altre
mirabolanti visioni, se il Demonio non le avesse allontanate,
riportandolo nella notte torinese. Spossato, Flavio barcollò e
scosse il capo, cercando di riaversi dal tumulto di emozioni.
«A differenza di tuo padre vedi gloria e fama, il potere che
deriva dal possedere i desideri della gente. Orazio chiedeva
appagamento e felicità, ma senza rendersene conto aveva
cominciato a piegare le gole dei potenti. E tu proseguirai
quest’opera e ne farai aprire molte altre, moltissime, grazie al
mio aiuto» osservò pacato il Demonio mentre si alzava dal
tavolino.
«Grazie al vostro aiuto» confermò, stordito.
Sentiva la testa girare vorticosamente, travolta dai ricordi truculenti
e ammaliatori che seguitavano ad attraversarlo. In quel momento
somigliava all’automa del forno, con lo sguardo vitreo e le
braccia rigide.
«Cosa volete che faccia, ora?» mormorò, appoggiandosi esausto al bancone.
Il galantuomo era quasi alla porta e aggiustava con movimenti affettati
il bavero della giacca. Si volse appena, mostrando solo una sottile
fetta della smorfia di divertimento apparsa sul suo volto.
«Nulla, per il momento. Hai saldato il debito di tuo padre».
«Ma?» insisté senza voltarsi.
Ci fu una breve risatina, affatto sarcastica.
«Sei intelligente, l’ho sempre detto» sorrise
amabilmente il Diavolo, stringendo il nodo della cravatta di seta.
«Al momento opportuno verrò a riscuotere il dazio che ti
compete, allora ne riparleremo. Nel frattempo, goditi ciò che
hai chiesto».
Uscì dall’ingresso, come un qualunque cliente. La
campanella d’argento appesa sopra lo stipite tintinnò
molto più lentamente del solito: suonava a lutto.
Il Sovrano dell’Oltretomba non aveva mai varcato quella porta
durante le sue precedenti visite; era sempre entrato ed uscito dalla
pasticceria servendosi delle ombre nelle pieghe della cornucopia.
Flavio non vi badò: nei suoi occhi correvano sfrenati sogni di
ricchezza e onori.
Fuori, Piazza delle Vittorie Alate non era mai parsa tanto tetra. Le
fiammelle dei lampioni erano tinte di scarlatto e danzavano con scatti
improvvisi sui drappeggi scolpiti, simulando un Inferno in terra. Le
divinità parevano tentare la fuga verso il cielo. L’acqua
nella fontana fumava e ribolliva come il sangue del Flegetonte10.
Persino le facciate dei palazzi sembravano essersi tramutate in volti
distorti da grida di dolore. Le iridi ambrate dei gatti mandarono lampi
maligni, accompagnati da lamentose salmodie.
«Adoro la gola, uno dei miei capolavori» si
complimentò tra sé il Demonio, pescando dalla tasca un
macaron11 alla nocciola e pepe rosa.
«E grazie al tributo versato da questo sconsiderato arrivista
parricida, finalmente ho una porta privilegiata per entrare
indisturbato a Torino12».
1 Piazza delle Vittorie Alate:
è un luogo di mia invenzione, ma potete ubicarlo idealmente in
Largo Montebello che me l’ha ispirata con le sue alberature.
2 Chiesa del Santissimo Nome di Gesù, sita poco lontano da Largo Montebello, sulle rive della Dora Riparia.
3 Toque blanche: nome del tipico cappello da chef.
4 Bunet: dolce al cucchiaio simile ad un budino, tradizionale delle Langhe.
5 Ammentu: “memoria” in dialetto del Logudoro, corrispondente alla porzione nord-ovest della Sardegna.
6 Pasta violada: frittelle sarde a base di semola, dalla forma di anello attorcigliato.
7 Moelleux: torta fondente al cioccolato, senza farina, tipicamente francese.
8 Ginevrine: pastigliette di zucchero colorato.
9 Reali: monete sabaude.
10 Flegetonte: terzo fiume infernale,
fatto per l’appunto di sangue bollente. Dante lo descrive nel
Settimo Girone dell’Inferno della Divina Commedia.
11 Macaron: dolcetto francese a base di meringhe e farcito di crema.
12 Torino: le leggende vogliono
– a seconda delle interpretazioni – che Torino sia il
vertice di un triangolo magico bianco o nero o entrambi. In questo caso
ho preferito la prima ipotesi, rendendola una città dalla magia
positiva e protettrice.
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