Respira, John. di LadyDam (/viewuser.php?uid=70257)
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Respira, John.
Sherlock gli mancava terribilmente.
Da quel giorno di quasi tre anni prima John non si era mai ripreso
completamente.
Mostrava sempre una facciata tranquilla, ordinaria, quasi rassegnata,
mentre in realtà era tutto l'opposto.
Non aveva più fatto una notte decente di sonno, mangiava
solo
quando se lo ricordava e aveva smesso di andare dalla terapista da
più di un anno.
Invece di andare agli appuntamenti della dottoressa, andava a trovare
Sherlock: tutti i giorni, con qualsiasi tempo, lui alle cinque del
pomeriggio era lì.
A fissare quella lapide nera lucida che sembrava fare un ghigno
beffardo, prendendolo in giro continuamente per lo stato in cui
continuava a versare.
La verità era
che da novecentosettantasei giorni lui non respirava.
Tratteneva sempre il respiro, in attesa dell'unica persona
che
voleva davvero vedere, l'amico che fingeva di stare sotto cumuli di
terra per chissà quale delle sue stranezze.
Perchè era così, doveva essere così.
Il mondo non
poteva aver perso un uomo come Sherlock Holmes e continuare
indisturbato il suo corso: era logicamente impossibile, almeno per lui.
Sherlock era troppo Sherlock per essere morto
così,
cadendo banalmente da un palazzo: doveva aver avuto un piano, un piano
di cui lui non era a conoscenza.
Di questa cosa era davvero infastidito, Sherlock sapeva praticamente
tutto di lui, mentre John non sapeva cosa vorticava nella testa
razionale del moro.
Se aveva agito così aveva di sicuro avuto i suoi buoni
motivi,
ma faticava ad accettare di essere stato messo da parte così
facilmente dal suo migliore amico.
In tutto quel tempo il moro non si era mai fatto vivo, mai, neanche una
volta.
Odiava la mente razionale di Sherlock ogni giorno di più:
una
persona normale avrebbe mandato qualche segnale, mentre lui nulla.
Sebbene John l'avesse visto buttarsi, avesse visto il suo corpo
sfracellato sull'asfalto, era convinto che fosse vivo.
Irrazionalmente, contro qualsiasi logica, lui sentiva che il suo
Sherlock stava
continuando a respirare, a differenza sua.
Fece una smorfia puntando gli occhi sulla lapide. Sherlock avrebbe riso
di lui, ne era sicuro.
Si sentiva leggermente patetico, ma non gli importava.
Voleva solo incrociare di nuovo quegli occhi chiari colmi del brillio
tipico di un ingegno innato.
Per alcuni giorni aveva persino pensato di odiarlo per avergli fatto un
torto simile, ma erano solo i giorni in cui sentiva la sua assenza come
una pugnalata in pieno petto.
Ogni tanto aveva incontrato per caso Lestrade, che gli chiedeva come
stava.
Di merda, che domande. Non
riusciva più a respirare.
E invece rispondeva con le solite espressioni "Bene", "Come al solito".
Bugie: era diventato così facile mentire, perchè
lui diceva a tutti quello che volevano sentire.
L'unica che lo capiva davvero e non faceva domande era Mrs. Hudson, che
lo controllava peggio di un falco con il cucciolo ferito.
Aveva visto anche Mycroft un giorno, davanti alla tomba di Sherlock.
Da lontano John aveva perlustrato il suo profilo, notando che era
dimagrito e che sembrava stanco. Non emanava più
quell'autorità che l'aveva colpito al loro primo incontro.
Sembrava solo un uomo a pezzi, proprio come lui.
Si era messo accanto a Mycroft e non avevano spiccicato una sola
parola per più di un'ora.
Avevano mutamente cercato di sostenersi l'un l'altro senza ammetterlo
apertamente. Per orgoglio, o molto più probabilmente
perchè erano stupidi.
E poi Mycroft pronunciò una sola frase, solo
dieci parole prima di voltarsi ed andarsene.
"E' un idiota e noi siamo più idioti di lui".
Aveva maledettamente ragione Mycroft, quell'uomo che delle volte faceva
impallidire da tanto era arido di sentimenti più del
fratello.
In quel momento invece con una sola frase era arrivato al nocciolo
della questione, aveva messo tutto in piazza nell'arco di quattro
secondi. Per una volta aveva ammesso una debolezza e questo non
potè trattenere un'espressione stupita che fece capolino sul
viso di John.
Dopo aver seguito il passo deciso di Mycroft che
si
allontanava, si era voltato di nuovo verso la lapide ed era scoppiato a
ridere.
Una donna che stava passando di lì l'aveva guardato male, ma
a lui non importava nulla.
Sherlock stava vivendo e loro vivevano dei suoi ricordi. Era assurdo e
dolceamaro insieme.
Sherlock, che catturava i criminali, era diventato il loro carnefice:
aveva rubato qualcosa a tutti, qualcosa di vitale importanza.
Il respiro.
Erano tutti in attesa del suo
ritorno.
Sperare che lui li degnasse di tale onore non era male,
perchè
John era sicuro che anche l'illustre consulente investigativo tenesse a
loro, tenesse a lui.
Quando avesse potuto sarebbe
tornato, John ne era fermamente e ciecamente convinto.
Da un paio di mesi era riuscito a dimostrare e a riabilitare l'immagine
del suo amico: aveva comprovato l'esistenza di James Moriarty e della
sua banda criminale.
Ci aveva messo un po' a trovare del materiale valido, ma aveva lavorato
senza sosta e alla fine ci era riuscito. Aveva indagato da solo, chiuso
a Baker Street o in giro per il Paese, e poi aveva consegnato tutto
quello che aveva trovato ad un sollevato Lestrade, mentre con stizza
aveva fissato i volti stupiti e colpevoli di Anderson e Donovan.
Sherlock era sempre stato vero, punto.
Il moro ne era uscito quasi come un Santo, quando fino al giorno prima
gli avevano spalato merda addosso: aveva ragione Sherlock quando diceva
che il comportamento umano era prevedibile.
A quel punto aveva sperato in una comparsa del suo amico, invece era
continuato tutto nella sua immobilità.
Quel giorno era un giovedì e pioveva. Alle cinque era andato
come al solito a trovare Sherlock e ci era rimasto per un'oretta come
sempre.
E come sempre alle sei aprì la porta del 221B.
Salì le scale con lentezza, la gamba aveva iniziato a
dolergli
leggermente da più di un anno: era come se Sherlock fosse la
sua
medicina ed ora che non c'era più era malato, ritornato
indietro
a quando era tornato dall'Afghanistan con uno shock post-traumatico
psicosomatico.
Ora lo shock era post-perdita, post-caduta, come la definiva lui.
Fece una smorfia e aprì tranquillamente la porta, entrando
in salotto.
Venne letteralmente investito dall'aroma di tè che proveniva
dalla cucina e sorrise, chiudendo gli occhi e pregustando ogni minima
particella con aspettativa.
"Mrs. Hudson, non doveva disturbarsi" disse, senza smettere di sniffare
l'aria.
In quel momento però una consapevolezza gli
annodò lo
stomaco: Mrs. Hudson non c'era, era partita per due settimane da sua
nipote nel Kent e non sarebbe ritornata che fra dieci giorni.
A quel punto sentì un rumore di passi, che poi si
arrestò. Un profumo famigliare di reagenti chimici, legno,
erba
e sapone gli entrò nelle sinapsi, mandando forte e chiaro un
segnale a tutto il corpo: Sherlock Holmes.
Sentì la salivazione venire meno, le mani iniziarono a
tremare,
la gamba tornò ad ignorarlo proprio come aveva fatto quando
aveva conosciuto il padrone di quell'essenza particolare.
Non poteva essere un sogno, una suggestione, non l'avrebbe sopportato.
Non era pazzo...o forse sì?
"John".
John aprì finalmente gli occhi, da cui scesero due lacrime
cariche di sofferenza, sollievo e amore.
La voce di Sherlock era sempre la stessa voce profonda, anche se meno
meccanica del solito, piuttosto simile alla voce che aveva sul tetto il
giorno della caduta.
Si passò freneticamente una mano sul viso per togliere
quelle
due scie salate, non riuscendo più a trattenersi dal
guardarlo.
John si voltò di scatto e trattenne il respiro, incrociando
la
figura alta e slanciata del moro. Era vero, lui era lì, era
tornato.
Puntò gli occhi sul suo viso: era più magro,
anche leggermente più pallido se era possibile.
I ricci scuri erano leggermente più lunghi di come
ricordava, ma
la cosa che lo spiazzò completamente, furono i suoi occhi
chiari.
Li aveva sempre paragonati al ghiaccio, sia per la colorazione, sia
perchè erano freddi di sentimenti proprio come il loro
proprietario.
Invece in quel momento sembravano acqua marina talmente erano pieni e
carichi di emozioni. Acqua marina bollente.
Lo vide fare un leggerissimo sorriso. "Respira, John".
E John lo fece, buttandosi addosso a lui e stringendolo come se avesse
raggiunto l'aria dopo un'apnea troppo lunga.
Respirò veloce il profumo del moro, cercando di calmare lo
sconquassamento interiore che aveva avuto.
Sherlock chiuse gli occhi, abbracciandolo a sua volta e piegando la
testa in modo da appoggiare il mento sulla spalla del biondo.
"Sherlock" mormorò John con dolcezza.
A quel punto il biondo percepì chiaramente delle lacrime
bagnare
la sua spalla e sorrise, passando una mano su e giù lungo la
schiena di Sherlock per tranquillizzarlo.
Pensava che sarebbe dovuto essere il contrario, invece il moro sembrava
sconvolto.
John non l'aveva mai visto così denso e pieno di emozioni
neanche il giorno della caduta, e lì l'aveva sorpreso per il
suo
tono di voce, i suoi gesti verso di lui, le sue parole, le lacrime che
immaginava rigassero il suo volto.
Ma averlo tra le braccia in quel momento, così fragile, lo
portò a stringerlo ancora di più.
Dopo qualche minuto in cui sentì il respiro di Sherlock
tornare
normale, fece per dire qualcosa, ma il moro lo sorprese parlando per
primo.
"Mi sei mancato, John. Perdonami se puoi".
Il tono serio e teso non sfuggì all'orecchio acuto del
dottore, che sorrise di nuovo, piacevolmente stupito.
Sherlock non si lasciava mai andare a dichiarazioni del genere, doveva
essere ancora parecchio turbato.
"Ti ho già perdonato" rispose John sicuro. Era vero, l'aveva
perdonato da subito, sapeva che se aveva fatto un gesto del genere le
motivazioni erano gravi e il moro gliele avrebbe spiegate tutte con
calma.
Sherlock sospirò. "Dopo puoi darmi un pugno".
"Cosa?!" domandò John confuso, allentando leggermente la
presa per riuscire a guardarlo in faccia.
"Vuoi che ti provochi come l'ultima volta?" chiese Sherlock con un
sorrisetto nostalgico.
"Ma io non voglio picchiarti" controbattè John ridacchiando.
"Era così anche quella volta e sappiamo com'è
finita" replicò Sherlock con ovvietà.
A quel punto scoppiarono entrambi a ridere e si strinsero di nuovo.
John, approfittando del buonumore del moro, decise di strappargli
qualcosa.
"Prometti che resterai, Sherlock".
Il moro si rilassò ulteriormente, voltando leggermente il
volto per guardarlo dritto negli occhi azzurri.
E la sua risposta fu spontanea e decisa e così giusta, che
John
sentì un calore avvolgerlo, come una coperta di linus:
sicurezza, fiducia, amore.
"Sempre, John".
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