Prologo: Al Paletto
D’Argento
C’era
una locanda, nella Capitale della Regione Occidentale, alla periferia
della città umana, nei Quartieri Interrazziali.
L’immigrazione in quelle terre era massiccia e costante, ma
quella zona della città non era particolarmente sviluppata,
né particolarmente sicura, né particolarmente
pulita: la locanda si adattava, e sembrava fare uno sforzo costante per
essere sempre più scalcinata, più pericolosa e
più sporca del resto dei Quartieri.
Non aveva una
cattiva fama, perché avere un qualsiasi tipo di fama sarebbe
stato già troppo, per quel locale. I quartieri ricchi,
borghesi e poveri ma dignitosamente umani ne ignoravano
l’esistenza; il colorato e bizzarro misto di razze ed etnie
che popolava i Quartieri – benché nessuno avrebbe
mai ammesso di appartenere a quel luogo e di non essere solo in cerca
di un alloggio e un lavoro migliore – ci si recava solo
perché gli alcolici erano decenti e soprattutto abbastanza
forti da far dimenticare di esserci stati la mattina successiva. Nelle
loro vite, era solo una presenza costante ma abbastanza discreta, come
la muta consapevolezza che il Sole sorge ad est e che se una splendida
donna nuda dalla voce suadente su uno scoglio invita una ciurma di
marinai mezzi morti per la fame e le intemperie a raggiungerla la nave
farebbe meglio a cambiare rotta immediatamente.
Il nome della
locanda era Al Paletto D’Argento, e si diceva che fosse stato
scelto in omaggio alla sua variegata ed eccentrica clientela,
nonostante qualunque vampiro scaraventato dai piani alti della
società alla miseria dei Quartieri avrebbe potuto guardare
per ore con aria perplessa l’insegna traballante e non
afferrarne completamente il senso.
In
realtà, le cose era andate un po’ diversamente.
- Quella gente
paga bene per qualsiasi tipo di alcolico, mi piace ... però
non voglio vampiri, eh! Poi va a finire che spaventano gli altri
clienti, va a finire. Potremmo metterci un avvertimento, nel nome, sai
... tipo, che ne so, il paletto qualcosa ... si usano i paletti per
ammazzarli, no, Frank? - aveva chiesto una sera – o una
notte, o forse un’alba: le circostanze dell’evento
non erano del tutto chiare – il leggendario Primo
Proprietario del Paletto D’Argento ad un compagno di bevute,
in un’osteria dalla quale entrambi sarebbero stati
più tardi cacciati per rumori molesti e danze sfrenate sui
tavoli. Frank aveva annuito con aria pensosa, cercando nel frattempo di
ricordare dove avesse messo la borsa con i suoi soldi ed interrogandosi
pigramente sul perché il Primo Proprietario sembrasse
così insolitamente felice di pagare il conto per entrambi.
- Certo che
sì, Frank, certo che sì! - aveva ripreso
l’altro con entusiasmo ubriaco, interrompendosi per una lunga
sorsata di birra. - I paletti, proprio loro, di ... di ...
cos’è quella robaccia, Frank? -.
Corrugò la fronte piena di rughe, sforzandosi di pensare:
era un’azione incredibilmente difficile, quando ci si sentiva
come se si avesse una palude nella testa e i pensieri emergessero lenti
e volatili dalle nebbie sopra di essa, constatò sentendosi
improvvisamente molto poetico.
Frank distolse
i suoi pensieri dai vaghi dubbi sulla borsa e il Primo Proprietario
appena prima che questi avessero la possibilità di diventare
veri sospetti. Si sfregò gli arruffati baffi neri striati di
grigio con una mano, poiché era gesto che lo aiutava a
riflettere. - Bronzo, o qualcosa del genere. Ferro? No, aspetta, era
più qualcosa come, come ... argento, sì. O quello
era per i lupi mannari ... ? - rimuginò, un dito che
scendeva dai baffi a un taglio sul labbro.
L’altro
uomo lo guardò con gli occhi un po’ lucidi
spalancati, vagamente perplesso.
- Avrei detto
qualcosa tipo frassino ... o un qualche altro legno. Non so, sembrano
adatti per costruire paletti - ribatté. Frank scosse la
testa, concorde con lui sull’ottusità e
l’avventatezza dei costruttori di paletti: qualcosa diceva
anche a lui che avrebbero dovuto usare il legno, anche se non era
esattamente sicuro del perché.
- Oh, beh. E
allora Al Paletto D’Argento sia! - esclamò
trionfalmente il Primo Proprietario, sbattendo sul tavolo il suo
boccale. Frank si chiese se sarebbe stato saggio tentare di leccare le
gocce cadute: l’ultima volta, il suo amico gli aveva quasi
mozzato la lingua con il pugnale che si portava sempre dietro.
Questa
è la vera storia della nascita del Paletto
D’Argento.
Generalmente,
i pochi che hanno la fortuna – o semplicemente la voglia
– di ascoltarla alla fine del racconto scoprono di aver
improvvisamente capito un sacco di cose sul locale.
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