TSS - 1
Nota:
Questa fanfiction partecipa al concorso 'Don't be boring' indetto
da Rosedub.89 e ha dovuto soddisfare questi requisiti:
Crimine: Pezzi di cadaveri umani vengono inviati per posta alle maggiori cariche
politiche europee
Prove: Un appartamento completamente svuotato; Floris eaux de parfum “Sirena”
Impedimento:
Il caso dovrà essere risolto da John, senza l’ausilio di Sherlock
Questa
storia prende ispirazione da alcuni dei casi contenuti nel canone, quali:
'L'avventura della seconda macchia', 'L'avventura della scatola di cartone',
'L'avventura del detective morente', e 'L'avventura degli omini danzanti'.
Il rating è giallo a causa di alcune immagini e situazioni violente.
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Le
ombre si accorciano, la luce vira dall’oro al grigio, il pulsante calore di una
tazza che svanisce dalle dita.
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Ci
trovavamo a trascorrere l’inizio della primavera nel nostro appartamento di
Baker Street. La pioggia che da giorni batteva pigramente e insistentemente alla
finestra aveva avuto un ruolo decisivo, accompagnata da un periodo di silenzio
da parte della comunità criminale di Londra, nel trascinare l’umore del mio
coinquilino a un livello pericolosamente basso.
Osservando
il cielo plumbeo, che sembrava tentare di entrare nell’appartamento, mi pareva
di scorgere i pensieri cupi di Sherlock Holmes.
Sapevo
bene che in quei momenti era inutile, se non anche dannoso e pericoloso,
tentare di instaurare un dialogo con lui, perciò da giorni lo avevo lasciato a
vegetare sul divano, con l’unica compagnia del suo violino e della sua
vestaglia blu, gli unici al mondo che, essendo oggetti inanimati, potessero
sopportare la sua irascibilità senza protestare.
Tuttavia
non potevo biasimarlo completamente. Ero piuttosto sicuro circa la causa del
suo malumore, tanto da poterci addirittura attribuire un nome: James Moriarty.
Erano
trascorse meno di due settimane dal nostro incontro alla piscina, due settimane
trascorse nella più totale incapacità di comprendere esattamente ciò che era
accaduto e le sue implicazioni. O almeno per me. Senza dubbio la mente di
Sherlock si muoveva in modo del tutto diverso.
«Nutro
comunque ancora qualche speranza positiva nei confronti del tuo cervello» fu
quello che disse dopo due giorni di totale silenzio, come se stesse riprendendo
una conversazione appena interrotta.
Rinunciai
in partenza a cercare di capire ciò che volesse dire. «Buon per me, allora.»
«Possiamo
ancora fare in modo che non finisca la sua desolata esistenza nell’ignoranza
quasi totale.»
Sebbene
fossi abituato ai suoi commenti malevoli e cinici, specialmente quando si
trovava nei suoi periodi di astinenza dal crimine – e da Dio solo sa quali
altre sostanze molto più concrete – non sono mai riuscito a sopportare gli
insulti gratuiti, anche se velati da una dialettica intelligente.
«C’è
qualcosa che ti infastidisce particolarmente nel mio cervello o posso
liberarmene del tutto senza troppi rimorsi?»
«Ora
come ora farebbe poca differenza, ma siamo ancora in tempo per porvi rimedio.»
Stanco
di quelle affermazioni mi alzai dalla sedia in salotto per andare a ritirarmi
nella mia stanza. Mentre gli passavo davanti, Sherlock alzò gli occhi al
soffitto.
«Sono
le persone come te che non accettano i consigli altrui a non evolversi mai.»
Mi
fermai ancora prima di imboccare il corridoio, puntandogli il dito contro. «Perdonami,
grande maestro, ma le tue non sono affermazioni, sono solo insulti gratuiti a
un’intelligenza nella media!»
Non
si premurò di nascondere una smorfia. «Le persone credono che sia un genio.»
«Meno
male che non vengono a riferirtelo, altrimenti ti sentiresti al di sopra di
chiunque!»
Si
mise a sedere con uno scatto, puntando le mani in avanti come chi deve attirare
l’attenzione di una persona tarda di mente.
«No,
ascolta. Non si tratta di genialità, ma di saper usare il proprio cervello. La
gente comune non sa farlo.» Non avevo intenzione di starlo a sentire, per cui
ripresi la via verso la mia stanza. «Ma si può imparare! Almeno un minimo,
qualcosa di adatto alle tue capacità.»
«Perché
continui a tirarmi in ballo? Stai parlando di me o degli altri poveri mortali?»
No, per quanto volessi fare la persona matura non mi era possibile abbandonare
quella conversazione da sconfitto.
«La
differenza è minima. Ora!» sottolineò appena vide che stavo per protestare. «Sai
perché quei compatiti di Scotland Yard mi consultano per un caso su tre, anche
se avrebbero bisogno di me per un caso su due? Perché nessuno di loro si è mai
preso il disturbo di farsi una cultura in materia di crimini. I crimini sono
come le mode, sono ciclici.»
«Come
i pianeti» comparai, per prendermi una sicura rivincita. Sherlock apparve molto
seccato e io molto appagato.
«Basterebbe»
continuò, cercando di nascondere la sua irritazione, «leggere tutti i crimini
compiuti negli ultimi duecento anni per trovare sempre un precedente. Ma
nessuno lo fa. Fanno tutti troppo affidamento sulle loro menti brillanti,
quando invece basterebbe passare un po’ di tempo in biblioteca».
Girai
i tacchi. «Fenomenale. Vado a dire a Lestrade di trasferire il dipartimento
alla British Library e di sostituire gli agenti con i bibliotecari. Sai che
risparmio per i contribuenti!»
Invece,
mi avviai definitivamente verso la mia camera al piano di sopra. Dalle mie
spalle provenne ancora la voce insistente di Sherlock: «È l’esperienza che
genera l’abilità! Nient’altro che l’esperienza e una mente allenata. Non certo
come la tua, che viene sprecata in un blog dalla sintassi deludente».
Fu
lo squillo del suo cellulare a coprire l’imprecazione che uscì senza riserbo dalla
mia bocca.
«Sherlock
Holmes» rispose, poi qualche istante di silenzio. «Chiamate un macellaio,
dunque, potrà esservi utile.» Un altro silenzio si unì al mio sconcerto. Vidi
Sherlock sorridere ironicamente. «Fratello caro, com’è andata dal dentista? Due
carie? Anzi, tre. Ti avevo detto di stare attento alla dieta.» Si appoggiò
lentamente allo schienale come chi si sta preparando ad ascoltare una lunga
conversazione, invece riattaccò subito
dopo aver detto velocemente: «Cercherò di liberarmi dagli impegni pressanti».
Lasciò
cadere il telefono sul divano e rimase a fissare il vuoto. Dopo un minuto buono
azzardai un passo avanti.
«Dunque
era Mycroft? O Lestrade?»
«Tutti
e due.»
«Abbiamo
un caso?» domandai, ansioso di porre fine a quelle giornate demoralizzanti.
«Può
darsi.»
Questo
bastò a far passare in secondo piano la nostra sgradevole conversazione.
La
bella signora Hilda Trelawney Hope era seduta in corridoio, su una consunta
sedia in plastica verde, con un fazzoletto di stoffa premuto sulla bocca, come
se fosse sul punto di vomitare. Ero convinto, in realtà, che ciò fosse già
accaduto nel momento in cui aveva aperto il pacchetto. Sally Donovan le aveva poggiato
una mano sulla spalla e muoveva le labbra. Probabilmente le stava dicendo che
un fatto del genere non era poi così raro.
Le
osservavo dall’altra parte del vetro che fungeva da parete della stanza della
stazione di polizia dove ci trovavamo riuniti. Sherlock ed io, Lestrade, il
signor Trelawney Hope e persino Mycroft Holmes, l’unico attualmente seduto in
un angolo buio: com’era suo solito, osservava la situazione prima di compiere
qualunque sforzo.
L’oggetto
della nostra attenzione era appoggiato sul tavolo in mezzo alla stanza.
Sembrava un innocuo pacchetto, avvolto in una semplice carta da pacco gialla
spiegazzata. Sherlock ne aveva sicuramente dedotto che il pacco era stato
aperto e poi richiuso con la sua stessa carta, prima di essere portato alla
stazione, confermando la storia dei due famosi coniugi. Il signor Trelawney
Hope, infatti, altri non era che il Segretario degli affari europei. Il fatto
che lui di persona, accompagnato dalla moglie, si fosse preso il disturbo di
recarsi alla polizia era di per sé un fatto curioso. Ma mai come il contenuto
di quel pacco: adagiato su un morbido supporto di cotone pulito si trovava un
orecchio umano.
«È
andata così» iniziò il signor Trelawney, con l’espressione impaziente di chi è
costretto a raccontare i fatti per l’ennesima volta, «mi trovavo già in ufficio
quando mia moglie mi ha telefonato. Non accade spesso, solitamente le sue
chiamate mi arrivano tramite la segretaria…»
«Quindi
l’ha chiamata sul cellulare» puntualizzò Sherlock. Non era affatto una domanda.
«Sì.
Mi ha chiamato sul cellulare e quando ho risposto ho capito che si trattava di
qualcosa di grave. Era molto agitata e preoccupata. All’inizio non sono
riuscito a capire di cosa stesse parlando.»
«Le
ha detto di aver ricevuto un orecchio per posta» completò Sherlock. Era
difficile capire chi dei due fosse più impaziente.
«Esatto»
rispose Trelawney stizzito. «Tuttavia non sono tornato a casa subito, credevo
si trattasse di uno scherzo. Avevo da fare e così me la sono presa comoda. Sono
arrivato all’ora di pranzo e così ho scoperto che, effettivamente, si trattava
di un vero orecchio umano. Mia moglie voleva assolutamente chiamare la polizia,
ma io ero restio: essendo un personaggio di rilievo sulla scena politica,
simili scandali è meglio trattarli con delicatezza.»
«Lei
voleva risolvere le cose privatamente ed ecco lo sfortunato motivo per cui mi
trovo qui» terminò Sherlock dalla sedia in cui era pigramente sprofondato, le
mani nelle tasche del cappotto. Poi si rivolse a Lestrade e a suo fratello: «Esiste
un reale motivo per cui sono stato scomodato?».
«Il
Segretario ha chiesto di te e non posso biasimarlo per questa scelta» rispose
Lestrade, mentre Mycroft ignorò la domanda, intento a rigirarsi tra le mani il
suo telefono. «Siamo comunque soliti lavorare assieme, quindi gli interessi di
tutti possono coincidere: la polizia può usare i suoi mezzi per risolvere il
mistero, mantenendo comunque la faccenda privata e ufficialmente assegnata a
te.»
«È
la polizia che lavora con me. Non è un rapporto simbiotico» disse Sherlock,
ignorando completamente la spiegazione di Lestrade. Si alzò all’improvviso e
rigirò la carta da pacchi.
«Spedita
da un uomo francese» concluse. «Persino la polizia saprebbe dedurlo visto che
il francobollo e il timbro postale sono inglesi, la scrittura è quella di un
uomo colto, ma non laureato, verso la trentina, di origini francesi o che parla
prevalentemente il francese, visto l’errore nello spelling della parola
‘Trelawney’, che è diventata ‘Trelaweny’. Quindi una sola persona o, più
verosimilmente, un gruppo di due o tre. Certamente non occorro io per dirvi di
analizzare il DNA dell’orecchio e dell’eventuale saliva sotto il francobollo.
Chiamatemi se ci sarà un vero caso da risolvere.»
Senza
attendere una risposta, Sherlock spinse la pesante lastra di vetro che fungeva
da porta, facendo alzare la testa al sergente Donovan e alla signora Hilda.
«E
se ti dicessi che altre parti del corpo sono state recapitate contemporaneamente
ad altri Paesi europei?» La provocazione di Mycroft catturò l’attenzione di
tutti coloro si trovavano nella stanza, Sherlock compreso. Evidentemente il
maggiore degli Holmes era l’unico a conoscere quel risvolto.
«Non
ne sono stato informato!» sbottò Trelawney.
«È
una notizia fresca» rispose Mycroft, accennando al cellulare. «Senza offesa,
Robert…» Alzò gli occhi su Trelawney. Non terminò la frase, ma il significato
era ovvio.
Sherlock
studiò per un istante la porta semi aperta, poi proseguì con decisione. «Penserei
a controllare i recenti movimenti del gruppo anarchico.» Uscì senza aggiungere
altro. Prima di seguirlo, gettai un’occhiata a Lestrade, sulla via
dell’esasperazione, all’offeso signor Trelawney e al sogghignante Mycroft.
Sul
taxi del ritorno rimanemmo in silenzio. La mia fu più che altro una scelta
dettata dal buon senso e dell’esperienza, anche se in verità avrei voluto
discutere di quello strano pacco.
«Cosa
ne pensi dell’orecchio?» Finalmente la domanda. Quando Sherlock chiedeva la mia
opinione ero sempre scettico; ero sicuro che trovasse le mie goffe risposte un
divertimento in quei momenti di noia che un semplice caso gli procurava. Ero
già stato oggetto delle sue critiche, quella mattina, ma il suo sguardo
penetrante fisso su di me era in assoluto la motivazione più convincente che
potesse darmi per rispondere.
«Uhm…
non ho avuto tempo di analizzarlo accuratamente» iniziai, tendando di costruirmi
una giustificazione per il mio probabile fallimento. «Era un orecchio destro.»
«Bene»
mi incoraggiò.
«Sembrerebbe
maschile, viste le dimensioni, ma c’era il buco di un orecchino nel lobo,
quindi… una donna con le orecchie grandi?»
«O,
più probabilmente, un uomo che portava un orecchino. Vai avanti.»
Imprecai
mentalmente per non aver pensato a una soluzione così ovvia. Il mio entusiasmo
iniziale subì un improvviso arresto.
«Non
credo…»
«John,
non ho una tale sfiducia nelle tue osservazioni.»
Un
complimento che celava una critica, come suo solito.
«Ho
sentito odore di formaldeide.»
«Ovviamente,
altrimenti non si sarebbe potuto conservare.»
«Ma
era sulla superficie, non è stata iniettata. Qualunque imbalsamatore o una
persona con qualche competenza medica saprebbe che, per funzionare a dovere, la
formaldeide va iniettata.»
«Bene.»
Sherlock annuì. «Poi?»
«Carnagione
scura. Ispanico?» azzardai.
Annuì
di nuovo. «Proprio come il signor Trelawney.»
Mi
illuminai. «Credi che lui sia coinvolto?»
«Non
credo niente per ora.»
«Però
pensi che sia un caso interessante.» Cercai di riguadagnare punti trasformando
quella domanda in un’affermazione.
«Neanche
lontanamente.»
Incassò
la testa nel colletto del cappotto e si ammutolì di nuovo.
Fummo
a casa per l’ora di pranzo e Sherlock non volle più parlare del caso. Ero
abbastanza deluso dalla piega inutile che stava assumendo il mio giorno di riposo
e stavo considerando l’ipotesi di fare una passeggiata prima che calasse il
buio, quando qualcosa arrivò a interrompere la mia noia.
Il
campanello suonò e la signora Hudson fece accomodare l’ospite al piano di
sopra. Si trattava di Hilda Trelawney, nello stesso trench grigio, macchiato
dalla pioggia, che indossava alla stazione di polizia. Stringeva forte i manici
della borsetta come se questa fosse il suo ultimo appiglio.
«Ho
qualcosa da aggiungere alla storia» disse, senza attendere di essere interrogata.
«Si
sieda pure» la invitai, accennando alla sedia vicino al tavolo. Sherlock era
nella sua poltrona e non aveva accennato ad alzarsi, né ad accogliere la
signora.
«Vuole
raccontarci la sua versione?» esordii. Lei scosse la testa.
«Quello
che ha detto mio marito corrisponde alla verità. Però c’è qualcosa che ha
tralasciato.»
«Lei
voleva chiedere aiuto alla polizia, è stato suo marito a volermi consultare» la
interruppe Sherlock.
«Sì.
Ma ho pensato solo ora alla possibile connessione con un altro fatto che
preferirei rimanesse privato, almeno finché non ne sapremo di più.»
«Continui»
le concesse Sherlock distogliendo lo sguardo.
«L’assistente
di mio marito è scomparso da un paio di giorni.»
«Ne
ha denunciato la sparizione?»
La
signora Hilda indietreggiò col busto in posizione di difesa. «In realtà no. Non
siamo sicuri che sia scomparso. Intendo dire che non ne abbiamo più avuto
notizia.»
«Questo
assistente è ispanico e porta un orecchino all’orecchio destro?»
La
signora annuì mestamente, senza sorprendersi: sapeva di cosa stava parlando. «Proprio
così.»
«E
perché vuole che la faccenda rimanga segreta? Il DNA confermerà comunque a chi
appartiene quell’orecchio.»
La
signora Hilda gettò un’occhiata alla finestra, mordendosi un labbro in un
momento di indecisione. «Lui e mio marito hanno avuto una discussione due
giorni fa. Una brutta discussione. Ma so che mio marito non c’entra niente con
la sua sparizione. Signor Holmes!» Il tono della sua voce si era alzato gradualmente.
«Lei è capace e intelligente, vorrei che trovasse le prove dell’innocenza di
mio marito prima che la polizia ne faccia uno scandalo!»
«Una
discussione a proposito di cosa?»
«L’assistente
– il suo nome è Eduardo Lucas – ultimamente non teneva un comportamento
professionale, arrivava sempre in ritardo, un paio di volte era ubriaco. Questo
non è da lui, mio marito ha provato a parlargli, ma lui era troppo irascibile e
mio marito non è molto paziente. Hanno finito con l’insultarsi e il signor
Trelawney gli da detto di non scomodarsi a tornare se fosse stato di nuovo in
quelle condizioni.»
«Chi
ha sentito questa discussione?»
«Molte
persone. Mio marito tiene alcune riunioni a casa e quel giorno ne era in corso
una.»
Nonostante
quelle rivelazioni Sherlock non sembrava più interessato di prima. La luce
grigia di quel pomeriggio primaverile enfatizzava il suo pallore.
«Che
compiti aveva il signor Lucas in qualità di assistente?»
«Aiuta
mio marito nei rapporti con la Francia. Gli fa anche da interprete.»
«Perché
parla al presente, signora Trelawney?» domandò con quella che parve una nota di
rimprovero.
La
donna ne rimase negativamente colpita. «Io spero sia ancora vivo!»
«Che
rapporti aveva con Lucas?»
«Era
spesso a casa nostra, qualche volta si fermava per cena.»
«Quando
hanno iniziato a manifestarsi quei comportamenti insoliti?»
«Circa
due settimane prima del litigio.»
Finalmente
Sherlock si alzò dalla poltrona e si diresse alla porta. «Bene, signora
Trelawney, lasci l’indirizzo di Lucas e vedremo cosa possiamo fare.»
Nella
sua voce non c’era un briciolo di interesse. Hilda Trelawney uscì dalla stanza con
qualche esitazione, dopo aver posato un biglietto sul tavolo.
«Si
è ritrovata un orecchio mozzato tra le mani e ora cerca di difendere suo
marito. Cos’è che ti infastidisce così tanto di quella donna?» Ero rimasto in
silenzio tutto il tempo, lasciando pazientemente Sherlock al suo
interrogatorio, ma ora che non potevo più metterlo in cattiva luce potevo
cercare di capire il motivo della sua scortesia.
«Ordinaria.
Impulsiva. Sentimentale.»
Colsi
al volo quella frecciata e non fu affatto piacevole.
Come
a sottolineare il suo disappunto, prese in mano il suo telefono e se lo accostò
all’orecchio. «Lestrade. L’orecchio appartiene ad Eduardo Lucas, assistente
personale e interprete di Trelawney.» Una pausa, la sua espressione rimase
immutata. «L’ho letto nella mia sfera di cristallo, come faccio con tutti i
casi. Andiamo a casa di quest’uomo.» Riagganciò, mentre dall’altra parte del
telefono Lestrade parlava ancora.
Mentre
salivamo le scale che portavano all’appartamento di Lucas in Godolphin Street,
riflettei: era un caso insolito, almeno per me. In un semplice pacchetto
sembravano convergere ben tre Paesi: mittente francese, francobollo e timbro
postale inglesi, oggetto del pacchetto di origini spagnole. Come aveva
affermato Sherlock, anch’io ero portato a credere al coinvolgimento di più
persone. Se un francese aveva impacchettato il contenuto e un inglese l’aveva
spedito, forse lo spagnolo poteva essere il mandante? O si trattava
semplicemente di un lungo procedimento per confondere le tracce? O entrambi?
Entrammo
nell’appartamento: era un casa vecchia, più che antica, con il soffitto alto e
parquet lucido a rivestire il pavimento. Le testimonianze dei viaggi
dell’inquilino in giro per l’Europa erano visibili nei numerosi cimeli mal
accostati appesi alle pareti e appoggiati sui mobili in legno, tra cui una
collezione di armi antiche, non troppo ben tenute. La casa sembrava più o meno in
ordine, il letto era rifatto, niente sembrava essere stato risistemato
velocemente. Pensai che Lucas non fosse stato sequestrato lì, oppure che non
avesse opposto nessuna resistenza.
Lestrade
aveva portato con sé due agenti e insieme a loro stava setacciando ogni angolo
alla ricerca di indizi. Sherlock, d’altra parte, sapeva dove osservare. Diede
un’attenta occhiata alla libreria molto fornita, aprì un quaderno che – spiai –
sembrava pieno di disegni fatti da un bambino e lo fotografò col cellulare,
sollevò le coperte sul letto e aprì i cassetti del comodino lì accanto. Ne
estrasse un piccolo sacchetto bianco e raffinato, con un nastro di seta su un
lato. Mi avvicinai incuriosito quando fui investito da uno spruzzo umido che mi
mozzò il respiro. Tossii mentre Sherlock leggeva: «Floris eau de parfum. Sirena. Oh, un regalo lussuoso.»
Lanciò
la boccetta in aria e io l’afferrai, rigirandomela tra le mani e rileggendo
l’etichetta, con gli occhi che mi lacrimavano.
«Ho
visto abbastanza» disse Sherlock approssimandosi all’uscita. «Non credo che il
signor Lucas tornerà, quindi voi della polizia avrete tutto il tempo che vi
serve per i vostri…» Agitò la mano in cerca di un termine pittoresco. «Tentativi.»
Era
buio da un pezzo quando rientrammo. Sherlock non volle cenare, pensai che
volesse sfruttare ogni sua cellula per la soluzione del caso. Eppure non aveva
dato segno di interessarsi all’orecchio mozzato o alla scomparsa di Lucas.
Anzi, seppur abituato ai suoi stati d’animo poco incoraggianti, ero rimasto
colpito dalla sua ingiustificata irascibilità. Ingiustificata per me, quanto
meno.
La
pioggia aveva cessato di cadere, Baker Street era silenziosa, fuori era buio,
eccetto per la luce paglierina del lampione che tentava di illuminare la
strada. In conclusione, non c’era nulla di interessante subito al di fuori di
quelle mura. Ciò che mi incuriosiva, invece, era lo sguardo spento di Sherlock
rivolto verso i vetri.
«Non
ti senti bene, per caso?»
«Non
saprei, come ci si sente a non sentirsi bene?» rispose lui, parlando più
lentamente del solito.
Gli
risparmiai la mia incredulità e tirai a indovinare. «Caldo? Freddo? Brividi e
formicolii? Dolore alle giunture?»
«Le
ultime due, sì.»
Annuii.
«Dev’essere influenza. Oppure è colpa di questa pioggia fredda. Ad ogni modo
dovresti riposare.»
Ero
preparato a una risposta saccente e sprezzante, invece Sherlock si alzò e si
diresse lentamente verso la sua stanza. «Forse dovrei.»
Fui
decisamente sorpreso, nonostante non lo avessi mai visto malato e quindi non sapessi
com’era solito comportarsi. Ero rimasto vagamente stordito dalla sua docilità,
quindi accennai qualche passo dietro di lui.
«Ti…
serve qualcosa? Vuoi che ti porti qualcosa?»
«No.»
Entrò nella camera.
«Cosa
vuoi che faccia con il caso dell’orecchio?»
«Quale
caso?» Chiuse la porta. Rimasi interdetto.
«Se
hai bisogno…»
«John.»
Udii la sua voce, resa ovattata dalla porta chiusa, eppure mi sembrò comunque
troppo conciliante per essere la sua. «Non ti preoccupare.»
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