CAMMINO NELLA NOTTE - Parte I
Luke fissava come ipnotizzato la canna della pistola puntata
contro di lui.
Era strano, pensava che avrebbe dovuto aver paura e invece
provava solo una curiosa sensazione di straniamento.
Due colpi sparati in successione. La sorpresa per la forza
dell’impatto. Un forte dolore alla spalla destra e al petto,
l’aria che usciva dai polmoni e la certezza di cadere.
L’erba alta lo accolse soffice come in un abbraccio,
l’ultima cosa che vide fu il cielo stellato nel quale, in un
lampo di comprensione, riconobbe il Grande Carro.
* * * * * * *
Diego si svegliò di soprassalto, suo malgrado si
era
appisolato sulla scomoda poltrona dell’ospedale, dove ormai
gli
sembrava di aver stabilito la sua nuova dimora. Sua madre aveva tentato
più volte di spedirlo a casa per permettergli di ritemprare
le
forze, ma lui, cocciuto, non ne aveva voluto sapere. Guardò
suo
fratello che giaceva immobile in quell’anonimo letto dalle
fredde
sponde metalliche. Era pallido e provato e non aveva ancora ripreso
conoscenza. Era stato in sala operatoria per più di quattro
ore,
durante le quali i medici si erano prodigati per estrarre la pallottola
dal petto e ridurre i danni provocati dal suo passaggio, medicando nel
contempo anche l’altra ferita, quella alla spalla, per
fortuna
solo superficiale. Avevano detto che era stato molto fortunato,
perché non erano stati colpiti organi vitali, ma, purtroppo,
aveva perso molto sangue e proprio per questo avevano ritenuto
più sicuro ricoverarlo in rianimazione, a titolo
precauzionale.
Ne era uscito solo poche ore prima.
Il sondino naso-gastrico ancora inserito proiettava una
strana
ombra sul viso pallido, da un lato del letto scendeva la sacca del
catetere nel quale temeva di impigliarsi ogni volta che si avvicinava e
lo sgocciolio della flebo non andava a tempo con la frequenza che, sul
monitor dietro la sua testa, registrava il battito del cuore. Tutto
l’insieme testimoniava, se mai ce ne fosse stato bisogno, lo
stato di completa incoscienza in cui versava. Si scoprì a
fissare la sacca contenente il prezioso liquido rosso, piena solo per
metà e la bottiglia con il liquido trasparente di cui
ignorava
la natura; seguì il percorso dei tubicini flessibili fino al
braccio, a suo modo delicato, adagiato sulla coperta.
Un’altra
cannula, quella del drenaggio, partiva dalla ferita al petto, sotto le
bende e raccoglieva il sangue che ancora ne stillava in una sacca
trasparente nascosta dalle coperte e dall’intelaiatura del
letto.
Era terribile vederlo in quello stato e non poter fare
nient’altro che attendere, impotenti.
Posò la mano su quella del fratello libera dalla
molletta
del saturimetro, stringendogliela, era fredda e inerte. Sconsolato, si
passò l’altra sulla fronte e sugli occhi stanchi e
sospirò. Non voleva lasciarlo solo. L’aveva
già
fatto e guarda cosa era successo.
* * * * * * *
“Oh, insomma, come pretendete che io mi riprenda,
continuando a mangiare questa sbobba!” si lamentò
Luke,
allontanando il vassoio con gesto deciso.
“Sii paziente, devi mangiare leggero, non puoi
ancora
forzare lo stomaco. Non appena tornerai a casa, ti farò quel
piatto che ti piace tanto. Promesso,” gli disse sua madre
comprensiva. Il suo primogenito le regalò un sorriso
gentile.
Guardando il figlio, non poté fare a meno di ringraziare
Dio,
aveva veramente temuto di non poter mai più rivedere quel
sorriso.
“Mamma?!” la voce di Luke la
riportò al
presente. Il giovane la stava guardando perplesso, ma anche lievemente
preoccupato.
“A cosa stai pensando?!” aggiunse,
accomodandosi meglio sui cuscini.
“Niente di particolare,” gli rispose
lei, ma vedendo
che il figlio assumeva quella particolare espressione di chi non crede
a ciò che sta sentendo, si sentì obbligata a
continuare:
“E’ solo che questa storia ci ha torchiato tutti
per bene.
Non avrei mai immaginato che il successo avrebbe potuto esporvi a
rischi simili.”
“Non l’hanno ancora preso,
vero?” la donna si
limitò a un cenno negativo della testa. Luke
sospirò,
questo era un grosso, grossissimo problema, ma tenne quel suo pensiero
per sé.
“Piuttosto,” esordì, vedendo
che alla madre non
era sfuggita la sua espressione preoccupata, ma non volendo affrontare
l’argomento, almeno per il momento, “è
un po’
che te lo volevo chiedere, si sa niente dei miei
braccialetti?”
Eliza si alzò e si diresse verso
l’armadietto, ne
estrasse il borsone con gli indumenti del figlio e vi
rovistò
dentro per un po’.
“Mi hanno dato una busta con i tuoi oggetti
personali, oh
eccola!” gliela porse, anche se un po’ titubante,
perché un’occhiata veloce l’aveva data e
non tutto
era come avrebbe dovuto essere. Luke la prese, si trattava di una busta
di carta bianca con il logo dell’ospedale, ne
rovesciò il
contenuto sul letto. Come temeva, si era salvato poco dei suoi
braccialetti, il personale medico non era andato troppo per il sottile,
ma notò che quello blu, uno dei suoi preferiti, era ancora
integro.
“Beh, vorrà dire che me ne
farò di
nuovi,” commentò deluso. Le catenine, invece, a
parte il
gancetto allentato di una, c’erano tutte, ciondoli compresi,
ed
erano in buono stato.
L’infermiera entrò portando con
sé una sedia a
rotelle: “Bene, signor Marten, andiamo a fare un
giretto?”
Nonostante avesse avuto il permesso di fare qualche passo,
evidentemente non lo ritenevano in grado di affrontare tragitti
più lunghi: “Dove andiamo, stavolta? Non siete
ancora
stanchi di farmi esami, tra un po’ potrete usarmi come luce
d’emergenza!” la donna rise alla battuta, mentre lo
faceva
accomodare.
“Le confido un segreto,” disse con fare
cospiratorio,
“non ci capita spesso di poter portare a spasso un bel
ragazzo
come lei, e oggi la sorte ha premiato me” aggiunse,
facendogli
l’occhiolino, mentre si accingeva a spingere la sedia.
Questa volta fu Luke a ridere di gusto.
Quell’infermiera era
una delle sue preferite, efficiente e precisa, era dotata anche di
quella carica d’energia e allegria che in un posto come
quello
non guastavano di certo.
Proprio in quel momento entrò Diego. Un
po’
trafelato, il giovane guardò i due interrogativo.
“Giusto
in tempo, sarebbe così gentile da accompagnare suo fratello
fino
all’ascensore? Io devo recuperare altri due
pazienti,” gli
disse la donna anticipandolo.
“Ma come, non vuole più portami a
spasso?!” la provocò Luke, fingendo delusione.
“E perdere così la
possibilità di godere della
compagnia di due bei ragazzi anziché uno? Non sia
mai!”
rispose lei, facendo loro strada, mentre la risata cristallina di Luke
la seguiva.
* * * * * * *
“Ehi, ehi, cosa stai facendo!”
esclamò Diego,
entrando nella stanza d’ospedale che ospitava il fratello
ormai
da tredici giorni. Luke stava cercando, non senza disagio, di infilarsi
la scarpa destra. Era riuscito in qualche modo a indossare i pantaloni
e la maglietta, ma le scarpe lo stavano mettendo veramente in
difficoltà, chinarsi era per lui ancora un’impresa
difficile, per non dire dolorosa.
“Lascia perdere, ti aiuto io,” disse
sollecito il
minore, accucciandosi per finire di allacciare la scarpa.
“Che
fretta hai, non ti dimetteranno prima di mezzogiorno,”
aggiunse
mentre afferrava l’altra scarpa. Alzò lo sguardo
per
incontrare quello del fratello.
Luke lo fissava intensamente: “Fai attenzione come
ti ho
detto?!” Qualcosa nell’espressione di Diego lo
convinse a
continuare. “Non è uno scherzo, ne abbiamo
già
parlato! Quell’uomo mi ha guardato dritto negli occhi prima
di
spararmi, mi ha detto chiaramente che di Sharoon ne rimaneva un altro.
Capisci quello che voglio dire, vero?” Diego sostenne il suo
sguardo, stava per rispondere, quando Eliza entrò nella
stanza
insieme alla dottoressa del turno della mattina.
“Vedo che siamo impazienti di lasciare
l’ospedale,” esordì il medico
riferendosi al fatto
che Luke si fosse già vestito. “Sei certo di
sentirti
bene, ieri avevi ancora qualche linea di febbre.” Diego,
impegnato a finire di allacciare la scarpa sinistra, non
poté
fare a meno di accorgersi che il fratello a quelle parole si era
irrigidito.
“Questa mattina non ne avevo.” si
affrettò a
dire Luke, poi, forse rendendosi conto di essere stato un po’
troppo precipitoso, sfoderò uno dei suoi sorrisi e aggiunse:
“Ho solo bisogno di dormire nel mio letto, farmi un bagno
come si
deve, specie i capelli e farmi la barba; lo so di avere un aspetto
orribile,” e diede un affettuoso colpetto sulla testa del
minore
che, da sotto, lo guardava ridacchiando, “e di tornare a
vessare
il mio caro fratellino,” concluse.
La dottoressa sorrise:
“Quand’è così,
non posso che augurarle un pronto recupero e preparare la lettera di
dimissione, ma con il bagno mi raccomando attenzione, la medicazione
non si deve assolutamente bagnare. Adesso se mi volete
scusare,”
e si accinse a lasciare la stanza.
“Dottoressa, vorrei chiederle ancora qualcosa, se
non le dispiace,” disse Eliza seguendola.
“Hai la febbre, magari solo qualche linea, ma ce
l’hai, non è così?!” gli
chiese Diego, non
appena le due donne ebbero lasciato la stanza per le ultime
formalità.
“Zitto. E poi è vero che stamattina non
ce
l’avevo,” sospirò. “Voglio
tornare a casa, non
ce la faccio a rimanere qui un giorno di più, e poi
sarà
più facile per tutti,” si alzò in
piedi, quasi a
voler sottolineare la sua determinazione. Diego, di fronte a lui, lo
fissò silenzioso.
“D’accordo, allora è meglio
che ti aiuti a
mettere il tutore per il braccio,” così dicendo
aggiustò con un unico fluido movimento le spalle della
maglietta
che il fratello aveva indossato come aveva potuto.
* * * * * * *
“Luke, Luke, dove sei?” Diego aveva
perlustrato il
piano di sopra chiamando il fratello, poi, non trovandolo, era sceso al
piano terra, ma nemmeno lì ve n’era traccia.
Da quando era tornato a casa tutto baldanzoso, alternava
notti
insonni durante le quali si aggirava per la casa, a giorni di torpore e
sonni inquieti costellati di incubi nei quali era la sua mente a vagare
per chissà quali luoghi paurosi.
Quella mattina era stata una di quelle. I loro genitori
erano
usciti, Eliza per brevi commissioni nei dintorni, suo marito per un
appuntamento altrettanto veloce e sarebbero ritornati presto.
“Dagli un occhio,” gli aveva detto sua
madre,
“il cellulare ce l’ho, comunque mi fermo dalla
Norma.”
Lui era ancora a letto, come, del resto, suo fratello, si
era
alzato con calma per andare in bagno. Quando era uscito e aveva gettato
un’occhiata nella stanza vicino alla sua, però,
Luke non
era più lì.
L’aveva chiamato, dapprima pigramente, cercandolo
per tutta
la casa, era persino sceso nella taverna, poi aveva deciso di
riguardare nel piccolo bagno di servizio, ma non aveva avuto bisogno di
entrare perché l’aveva visto riverso su un fianco,
parzialmente appoggiato alla lavella che sua madre usava anche per
lavare il cane.
“Luke, cos’è successo, ti
senti male,
svegliati,” l’aveva scosso senza ottenere risposta.
Aveva
constatato che respirava seppure piano, era quasi certo che fosse solo
svenuto.
“Qui non c’è neanche lo
spazio per tirargli su
le gambe, non posso lasciarlo qui,” si era detto, cercando di
trovare la posizione giusta per sollevarlo.
“Meno male che sono solo pochi metri, accidenti ai
falsi
magri, pesi più di quello che pensassi, è proprio
lo
sforzo adatto a uno che non deve farne!” aveva sbuffato
mentre,
in qualche modo, raggiungeva il divano nel salone, badando di non
sbattere qualche parte di suo fratello contro qualche ostacolo.
“Sicuramente gli avrò fatto male, forse
è
meglio che chiami qualcuno, mia madre e anche l’ambulanza e
già che ci sono l’esercito.”
Non appena pronunciate quelle parole, si era materializzata
nella
sua mente la visione di suo fratello steso sulla lettiga, sotto
l’acqua, assicurato dalle cinghie che non sarebbero bastate a
farlo desistere dal prenderlo per il collo. Sapeva che Luke non avrebbe
voluto mai e poi mai tornare in ospedale, ma se era
necessario…
Diego cominciava a disperare su cosa fare. Seduto accanto al
fratello, cui aveva sistemato le gambe sullo schienale, cercava di
rianimarlo con dei piccoli buffetti sul viso pallido e sudato - erano
sudati entrambi - ma era sul punto di arrendersi e raggiungere il
telefono quando l’aveva sentito lamentarsi.
“Finalmente! Cos’hai combinato, volevi
scendere
più velocemente di sotto?” Luke l’aveva
guardato
senza parlare, come se provenisse da una dimensione etilica.
“Chiamo qualcuno, mi sembra di vedere del sangue
sulla maglia,” era sobbalzato Diego accennando ad alzarsi.
Luke lo aveva trattenuto: “Ho solo approfittato un
po’ troppo di quelle fiale per il dolore, tutto
qui.”
“Tutto qui? Ma tu sei fuori di testa, vuoi andare
al
creatore, tanto per facilitare le cose a quello là. Ora
chiamo
la mamma…”
“Prima aiutami, sto per…,”
non aveva fatto in
tempo a finire la frase e aveva vomitato sul pavimento come se fosse
stato reduce da una sbronza, mentre suo fratello lo sorreggeva da un
lato.
“Per fortuna non c’è
più il tappeto. Non
ci avrai mica bevuto dietro qualcosa, vero?” aveva
commentato.
Luke l’aveva guardato male senza prendersi la
briga di
rispondere a quella battuta scema e si era sforzato di mettersi a
sedere con l’intenzione di alzarsi in piedi.
“Cosa fai, stai seduto, vuoi svenire di nuovo? Ci
penso io a
pulire,” era intervenuto Diego, intuendo quello che il
fratello
pensava di fare.
Era andato in cucina e ne era ritornato con il rotolo della
carta
assorbente e lo spruzzatore in una mano, e un bicchiere
d’acqua
nell’altra.
“Non c’è molto da
raccogliere, praticamente non mangi, almeno bevi questo.”
Luke si era rimesso a sedere, accettando il cuscino che gli
stava
sistemando dietro le spalle e lo aveva guardato con
un’espressione strana, mista di divertimento e profonda
inquietudine.
“Se ti vedesse mamma…, a proposito,
dov’e andata?” chiese.
“Doveva darsi una sistemata ai capelli e prendere
dei
feltrini e delle pile, mi pare che abbia detto. Farei meglio ad
avvertirla, non credi?”
“Lascia stare, sto bene. Anche lei ha bisogno di
fare le sue cose.”
“Sì, ma mi sentirei più
tranquillo se ti desse
un’occhiata, hai veramente del sangue sulla
maglietta,” la
voce tradiva una vena di paura mentre riportava tutto in cucina.
Quando ne era tornato, aveva cominciato a dire qualcosa sul
fatto
che se ci fosse stato Elvis avrebbe tirato su tutto lui, quando si era
accorto che suo fratello era scosso da lunghi singhiozzi silenziosi.
“Luke…,” nella sua voce tutta
la pena per l’impotenza era palese e frammista di
irritazione.
“Ci mancava anche questa, dai, lo sai che mi metti
in crisi, io la chiamo…”
“No!” la voce, più una
supplica che un ordine,
era risuonata da dietro le mani tra le quali nascondeva il viso.
“Non le prenderò più, te lo
prometto, quelle
fiale…, è un effetto di quelle fiale. Non voglio
metterti
nei guai,” si era voltato verso di lui cercando di
trattenerlo.
Diego si era lentamente riavvicinato, sedendosi nuovamente
accanto a lui.
“Non è per questo. Tu stai male, hai
bisogno di sfogarti, devi parlarne con qualcuno.”
“Parli proprio tu che hai un senso di colpa grande
come un cocomero.”
Diego era lievemente arrossito: “Non stiamo
parlando di me,
anzi no, parliamone. Proprio io, sì, che secondo tutti
dovrei
parlare con qualcuno. Come posso se tu per primo ti rifiuti di farlo?
Sei tu che di notte vai in giro per la casa come uno zombie e te ne
stai rintanato in camera di giorno, sei tu che quando dormi parli,
anzi, ti agiti e gridi nel sonno, ti abbiamo sentito tutti.”
“Mi dispiace…”
“Non l’ho detto per questo e lo sai. Sta
succedendo
quello che ci avevano spiegato quelli in ospedale, gli sembrava
impossibile che tu non avessi nessun segno di shock, ti hanno
lasciato…”
In quel momento era squillato il telefono e Diego aveva
dovuto
interrompersi per rispondere. Era Eliza, chiedeva se andava tutto bene
e lo informava che sarebbe tornata più tardi
perché stava
piovendo troppo.
“Luke sta male,” aveva detto lui tutto
d’un
fiato, guardando il fratello che gli aveva rimandato, per tutta
risposta, uno sguardo smarrito, scuotendo il capo con rassegnato
disappunto.
Diego si era riavvicinato: “Ha detto che torna
subito.
Pensa, non mi ero nemmeno accorto che avesse attaccato a
piovere.”
“Così si bagnerà tutta e
sarà andata dal parrucchiere per niente.”
“Cosa volevi che facessi, che non le dicessi
niente, se ne
sarebbe accorta prima ancora di posare la borsa. Quando ti avesse
guardato, e ti guarda di continuo, credi che non avrebbe visto che sei
bianco, anzi grigio, come un mocio usato?” aveva sentenziato,
rimanendo sempre in piedi di fianco al divano, mentre il riflesso di un
lampo entrava per la prima volta nella stanza.
Luke lo aveva guardato stancamente: “Sempre
gentile,
comunque grazie per non avermi buttato direttamente
nell’umido e
anche per aver pulito. Vuoi dirle anche questo?”
“Oh, oh, devi stare proprio male se sei
così melenso,
non potevo buttarti nell’umido, non abbiamo un contenitore
abbastanza grande. No, dai sto scherzando, lo so che lo dici
perché non vuoi che te le suoni e te le canti. No, fermo,
non
è il caso che mi tiri quel cuscino, è
sporco…,” aveva cercato di fermarlo prima di
trovarselo
tra le mani, “Che schifo, vuol dire che sei in debito con
me.” “Invece, come va la tua tosse, immagino che lo
sforzo
non ti abbia fatto proprio bene.”
“Eh, quando si ha a che fare con i falsi
magri… A
proposito, dove hai mollato il tutore, è meglio che vada a
prenderlo prima che…”
Non era riuscito a finire la frase perché la
porta si era
aperta e sua madre aveva fatto il suo ingresso gocciolando acqua
dall’ombrellino che evidentemente le era stato prestato.
“Allora, cos’è successo? Stai
bene?”
aveva esordito cercando di nascondere la preoccupazione che le aveva
fatto coprire quelle poche centinaia di metri a una velocità
degna delle sue migliori prestazioni. Si era diretta verso Luke, ancora
disteso sul divano, ma rivolgendosi alternativamente a entrambi i
figli. Diego le aveva spiegato in poche parole i fatti, omettendo,
scambiando un’occhiata d’intesa con il fratello,
che il
malore fosse dovuto anche a un eccesso di farmaci.
“Cos’è questo odore, hai
vomitato?” li aveva scrutati lei.
Luke si era fatto avanti: “Sì, avevo
provato a bere
del latte, ma non l’ho tenuto.” Era la
verità, ma
aveva tralasciato che, con tutta probabilità, aveva reagito
con
il resto e Diego non lo aveva tradito.
“Beh, che ne diresti di farmi vedere
com’è la
ferita? Diego, per favore, puoi avvisare tuo padre, ma senza
allarmarlo? Sei stato bravo, hai fatto un bello sforzo. Ah, dopo
lasciami qui il cordless, devo chiamare il dottore.”
“Non penso sia necessario,” aveva
cominciato a
protestare Luke, ma sua madre aveva spazzato via in un attimo tutte le
rimostranze: “Vuoi che andiamo direttamente in
ospedale?”
A Luke, sospirando, non era rimasto che sollevare la
maglietta aspettando che l’aiutasse a toglierla.
Quando il medico era arrivato, Diego, che era sempre rimasto
a
distanza di sicurezza, gli aveva aperto e si era dileguato, non prima
però, di essere riuscito a sentire che non si trattava di
nulla
di grave. Si era rotto un punto che non sarebbe stato sostituito,
bastava il cerottino, come si vedeva nei telefilm americani.
Salì i gradini a due a due, diretto alla caccia del tutore e
di
quelle stramaledette fiale che avrebbe consegnato alla madre
perché le conservasse sotto controllo. Poi sarebbe andato a
vedere se c’era quel cocomero che Luke aveva evocato a
proposito
del suo senso di colpa. Forse una fetta l’avrebbe gradita
anche
lui.
* * * * * * *
“Avanti, vieni qui, questa sera rifai tu la
fasciatura a tuo
fratello. Voglio essere sicura che durante la nostra assenza tu sia in
grado di fare una medicazione come si deve,” Diego si
avvicinò un po’ titubante, i suoi si dovevano
assentare
per qualche giorno ed Eliza, anche se si sarebbe potuto benissimo
trovare qualcuno che si occupasse della cosa, aveva insistito
perché anche Diego ne fosse in grado. Così aveva
preparato tutto l’occorrente su un carrello e iniziato a
sciogliere le bende giro dopo giro, davanti a un perplesso figlio
minore, mentre il maggiore sembrava affrontare la cosa stoicamente. Per
consolarsi, Luke pensava che in fondo aveva passato di peggio; non
aveva un buon ricordo dell’ultima medicazione in ospedale,
quella
in cui gli avevano tolto anche i primi punti, c’erano andati
piuttosto pesanti e gli avevano fatto male, non pensava proprio che
Diego potesse essere più ruvido di così. Forse
intuendo i
pensieri del figlio, Eliza, finendo di liberarlo dalle bende, gli
ricordò: “Ringraziando il cielo sembra che non
sarà
necessario l’intervento che ti avevano prospettato, la
scapola
guarirà da sola senza bisogno di placche, non posso fare a
meno
di pensare che ti è andata bene.” Luke le
restituì
uno sguardo d’intesa. Già, a causa della lesione
provocata
alla scapola dalla pallottola nel suo tragitto, di cui i medici si
erano accorti solo in un secondo tempo, c’era stato anche
quel
rischio, per fortuna scongiurato.
Le due ferite furono presto ben visibili. Diego era la prima
volta
che le vedeva così bene. Non vi erano dubbi sul fatto che
entrambe avrebbero lasciato cicatrici evidenti; quella sulla spalla,
alla quale erano stati dati una decina di punti, appariva ancora gonfia
e arrossata, ma era ben poca cosa se confrontata con quella
più
in basso, che aveva rischiato di uccidere suo fratello. Appariva, se
possibile, ancora più in rilievo e con i bordi
più
arrossati dell’altra trattenuti da una decina di punti, i
segni
di quelli che erano stati tolti facevano ancora mostra di sé
e
al centro, perfettamente visibile, il foro d’entrata. Quello
che
più colpiva Diego erano, però, gli ematomi estesi
e
ancora rosso bruno, soprattutto sul petto. Eliza gli stava spiegando
che dopo aver ripulito le ferite doveva spalmare direttamente su di
esse una crema antibiotica e cicatrizzante per evitare le infezioni e
tenere la pelle morbida e un’altra dove vedeva gli ematomi
più vistosi per facilitarne il riassorbimento, infine doveva
fasciarle con cura, senza dimenticare le compresse sterili. Impresa,
questa, che lo impegnò non poco tra ripetuti tentativi,
critiche
bonarie della madre e sguardi a tratti divertiti, a tratti perplessi
del fratello.
“Sì, così può
andare, ce l’hai
fatta, bravo,” disse infine Eliza soddisfatta. “Non
appena
saremo di ritorno vediamo di togliere gli ultimi punti, va
bene?”
aggiunse dando una veloce carezza sulla guancia di Luke. La donna
raccolse tutto ciò che avevano usato sul carrello e
lasciò la stanza.
“Le ferite ti fanno ancora male?” la
domanda lo
stupì forse perché non se l’aspettava.
Guardò il fratello che appariva pensieroso.
“Un po’, ma il peggio è
passato.” Diego
si era seduto accanto a lui sul letto. “Dì un
po’,
che ti prende?” chiese, intuendo che qualcosa si agitava
nella
testa di suo fratello.
“Niente, forse sto realizzando solo adesso quale
rischio hai
corso,” sorrise e aggiunse: “Non ci fare caso
compare, oggi
sono storto,” così dicendo, si alzò e
lasciò
rapidamente la stanza, afferrando la chitarra che poco prima aveva
appoggiato vicino alla porta. Luke sapeva che si sarebbe chiuso in
taverna per diverse ore, suonando ininterrottamente la sua
‘amante’, ovvero la sua chitarra preferita, magari
saltando
anche la cena, cosa che avrebbe fatto irritare terribilmente Eliza e ne
sarebbe riemerso solo quando fosse stato più che sicuro di
essersi sfinito a sufficienza. Questo era suo fratello Diego. Accidenti
a lui!
* * * * * * *
“Luke, svegliati, va tutto bene, sei a casa. Cosa
ti succede?”
Luke si era addormentato sul divano in quel pomeriggio lento
e
tiepido. Era stanco, spossato era la parola giusta, probabilmente la
tensione dell’ultimo periodo stava piano piano calando e
scopriva
i nervi messi a dura prova. Si era seduto, dopo un pranzo assai
frugale, la qual cosa cominciava a preoccupare sua madre, su un angolo
del divano che guardava verso le finestre della stanza. Non aveva
acceso la televisione e si era messo a pensare, armato di buona
volontà, ad alcuni versi che da un po’ gli
giravano in
testa, sperando di trovare un ordine che formasse il testo di una nuova
canzone e non pensare ad altro. Per un po’ si era tenuto tra
le
mani uno dei suoi taccuini, scrivendo anche qualche spunto su una
pagina bianca, ma più che altro battendoci sopra con la
penna.
Lasciando i pensieri in libera uscita, a un certo punto si era disteso
sulla schiena, per poi girarsi un attimo dopo di fianco. Scrivere non
era un’attività automatica, richiedeva tempi
diversi,
alternativamente a volte lunghissimi, a volte convulsi e tanto
più ossigeno incamerava nella ricetta, tanto più
avrebbe
emozionato in maniera convincente il risultato finale. Era scivolato
nel sonno, ma non doveva essere stato né riposante
né
proficuo per l’ispirazione, anche se qualsiasi evento, alla
fine
dei conti, qualcosa per il cervello portava sempre. Finchè
sua
madre lo aveva scosso. Si era reso conto di aver avuto un incubo. Aveva
sognato, era certo che quell’uomo era nel giardino della loro
casa, che nulla di ciò che avrebbero fatto avrebbe potuto
fermarlo. E Diego, dov’era Diego?
“E’ in camera sua, per una
volta,” lo informò sua madre, pettinandogli i
capelli con le dita.
Lui si riscosse e cercò di rimettersi seduto, ma
una
smorfia di dolore lo fece per il momento desistere e non
sfuggì
alla donna.
“Ti fa ancora così male?”
“Mi ci devo essere addormentato sopra,”
cercò
di minimizzare Luke, ma Eliza si era resa conto che era esausto.
“Luke, vedrai che si sistemerà, la
dottoressa ha ben
spiegato che quando sono interessate zone così ricche di
nervi e
tendini il dolore può durare a lungo.”
“Mi fa sempre male,” disse Luke con un
filo di voce
per non tradire il tremore, “e, all’improvviso,
è
così forte che mi paralizza…”
“Ti hanno anche spiegato che il dolore, in certi
casi, dipende molto anche da come la tua testa ne tiene
conto.”
“Stai dicendo che mi sto inventando tutto? No,
aspetta, mi
sono espresso male. Vuoi dire che non so gestirlo e sto
esagerando?” La sua innata capacità di non urtare
era
emersa anche in quella circostanza, prevenendo l’irrigidirsi
della madre che gli aveva battuto una mano sulle sue.
“Vuol dire che è ancora presto, tu dici
che nel tuo
genere di lavoro ci vuole tempo e allora concedilo anche al tuo corpo,
alla tua mente! Sono passati meno di tre mesi, non essere impaziente e
vedrai che supererai anche questa!”
“Ma quando riuscirò a reggere lo sforzo
di un
concerto, anche solo quello di un’esibizione pubblica? Non
riesco
nemmeno a guidare, Diego dice che non faccio altro che dormire,
figurati reggere due ore di concerto, lo sai che perdo anche tre chili,
ora della fine, tra liquidi e tutto il resto!”
“Diego è così spaventato da
non rendersene
nemmeno conto. Sai cos’è voluto dire per lui
vedere suo
fratello maggiore, quello che si è preso cura di lui da
quando
è nato, che lo difendeva a scuola, che gli insegnava come
avvicinare gli oggetti sotto la tavola usando il tappeto e come si
infilavano le maniche del cappotto e che ora, anche se non vuole dargli
peso, gli fa da tramite con la parte del mondo che lo indispone, sai
cosa vuol dire vederti improvvisamente vulnerabile e dover considerare
l’idea che avrebbe potuto perderti, non vederti
più da un
momento all’altro? Quando eri in ospedale, il primo giorno,
non
riusciva neanche ad articolare le parole.”
“Lui parla sempre poco…,”
“Non sto dicendo che non ha detto una parola. Sto
dicendo
che non riusciva a pronunciare le parole. Abbiamo temuto un
collasso.” La signora Marten respirò
rumorosamente.
“Perciò,” cercò di
concludere,
“quando sarai pronto, e non potrai esserlo finchè
questa
storia non sarà finita, anche il tuo corpo lo
saprà e
tornerà a darti il sostegno che desideri. Fino ad allora,
dovrai
solo prenderti cura di te. Quanto ai concerti, abbiamo già
pensato che si potrebbe trasformare la debolezza in forza e organizzare
più mini eventi per attirare gente diversa in ambienti
facili da
controllare e senza metterti troppo alla prova. Dei tuoi fans, quelli
più lontani sono molto partecipi delle tue vicende in questo
momento e quelli più vicini sono sinceramente preoccupati e
non
ti faranno mancare il loro appoggio. Ce ne sono ogni giorno di fronte a
casa e non insistono per vederti, vogliono solo farti sapere che sono
lì. Non avrei mai creduto che potessero interessarsi
così
tanto a degli sconosciuti per quanto di successo.”
“Di questo mi sono accorto anch’io
controllando il
forum e i social networks,” confermò lui,
“anche se
vederlo di persona non ha paragone.”
“Per quando riguarda Diego, questo è
uno sforzo
notevole che gli viene chiesto, ma, quando anche lui sarà
pronto, capirà che gli sarà servito per crescere.
Tutti
noi, nel nostro profondo, siamo stati rimescolati da quanto
è
successo, ma visto che non possiamo ignorarlo, tanto vale vedere cosa
ci lascia.”
“Oh, sento che sta per arrivare qualche
appunto,”
azzardò Luke con un sorrisetto che voleva essere disarmante
e,
invece, era riuscito a essere solo incerto.
Eliza lo guardò con un misto di
severità, comprensione e preoccupazione, trattenendo il
respiro.
“Tuo padre e io non sapevamo quando parlartene, ma
mi pare
che questo possa essere il momento giusto, se ce ne deve essere uno e
anche se lui non c’è,” ancora
un’esitazione
prima di dare voce a ciò che sembrava averli messi in
apprensione, rassicurando allo stesso tempo il figlio la cui
espressione si stava facendo grave.
“Abbiamo notato che assumi gli antidolorifici che
ti hanno
suggerito in caso di necessità, ma ci siamo accorti che hai
aumentato le dosi rispetto a quanto ti è stato prescritto.
Siamo
un po’ preoccupati, ci chiediamo se li prendi così
spesso
perché non sopporti il dolore e, se è
così, allora
dobbiamo tornare in ospedale e chiarire cosa succede o se lo fai per la
paura che ti torni.”
Luke, pur essendo lievemente arrossito, non ebbe dubbi nel
rispondere.
“Posso rispondere ‘tutti e
due’? Talvolta ho dei
picchi di dolore improvviso che non sono in grado di sopportare per
quanto mi convinca che posso farlo. Ma il peggio è quando mi
sembra di sentirli arrivare; l’ansia, allora, è
più
forte del dolore. Spero sempre che le cose si sistemino e non volevo
farvi stare in pena più di quanto ho già fatto.
Se tu e
papà ritenete che debba sentire un medico, va bene, ma, per
favore, fate in modo che sia lui a venire qui.”
“Luke, siamo stati in pena, è vero, ma
non sei certo
stato tu a provocarla. Se non te la senti di andare in ospedale,
vedremo di fare in un altro modo, ma l’ultima cosa che
vogliamo
è che sviluppi una dipendenza da farmaci. Vedrai che ne
usciremo,” ripeté, attirandolo in un abbraccio
deciso.
“Così finalmente Diego
tornerà a essere quello
che dorme di più in casa,” mugolò Luke,
reprimendo
un gemito.
“A proposito, quand’è che gli
farai quel
discorsetto sulla prudenza cui avete accennato? Avete notato che torna
a casa sempre più tardi?”
“Gliel’abbiamo già fatto, la
stessa sera che
sei uscito di nascosto per andargli incontro - immaginavi che se
l’avessimo saputo te l’avremmo impedito - e, senza
pensare
che non avevi la chiave, ti ha involontariamente chiuso fuori dal
cancelletto per evitare di dover sentire la solita storia del
cellulare. Così, dopo, l’ha sentita da noi;
è
mancato poco che gli gridassi, se non te ne sei accorto è
perché ti abbiamo messo subito a letto dopo esserci ripresi
dallo spavento e aver constatato che stavi bene. Una sgridata,
comunque, te la saresti meritata anche tu, lo sai.
Ci rendiamo conto che è molto insofferente, ma
non possiamo
neanche legarlo. So che tu ti sentiresti rassicurato se potessimo, ma
l’unica possibilità è che decida di
affrontare il
suo disagio e ne parli con qualcuno. Per ora, abbiamo ottenuto che ci
sia sempre qualcuno con lui.
Com’è stato che ti ha colpito proprio
sulla spalla?
Da quando è successo, ti tratta come se fossi di vetro, ma
è ancora più assente e nervoso, dorme sempre
meno,
è come se volesse risolvere tutto lui.”
“Ah, beh, non mi ha proprio colpito. E’
successo
quando mi ha accompagnato a scegliere un nuovo chiodo di pelle, anche
se poi non abbiamo preso niente perché è venuto
fuori che
è possibile riparare il mio come avevo deciso di fare fin
dall’inizio, e ha insistito perché rimanessimo
fuori a
mangiare una pizza. Secondo lui, era ora che ricominciassi ad avere una
vita sociale, anche se io avrei preferito tornare a casa. Comunque,
siamo andati al LikeNos con Andy, Giulia, Francesco, Harry e Lara, poi
è arrivato Pietro, alla fine eravamo una decina. Il primo
problema è stato quando si sono resi conto che facevo fatica
a
tagliare la pizza nonostante non avessi più il braccio al
collo
e Diego è stato costretto ad aiutarmi, ma non si
è
lamentato, anzi, è stato molto disponibile. Siamo rimasti a
parlare fino alle undici, poi io avrei voluto andare via, avevo detto a
Diego che ero stanco, anche se, in effetti, quell’uscita ci
voleva. In principio mi ha ignorato, poi mi ha detto che ero sempre il
solito e che stavo diventando un vecchietto e si è messo a
ballare con la sua ragazza, cosa che fa raramente. Per non pesargli
oltre sono uscito, cercando di chiamarmi un taxi, non volevo farmi
venire a prendere da voi. Ormai si era fatta mezzanotte e i taxi fanno
fatica a risponderti se vedono che la chiamata parte da un cellulare,
così ho dovuto chiamare più volte e non mi sono
accorto
che, intanto, tra la gente che usciva dal locale e quella di passaggio
stava succedendo qualcosa. Insomma, mi sono trovato in mezzo alla
classica rissa tra ubriachi, mi sono sentito perso e senza via
d’uscita e pensare che sarebbe bastato rientrare. Invece,
è uscito Diego, incavolato per avergli rovinato la serata,
ma
quando si è reso conto che avrei potuto beccarmi una
bottigliata, è cambiato da così a
così,”
accompagnò le parole con il tipico gesto della mano,
“e si
è preoccupato subito di tirarmi fuori di lì alla
svelta.
E’ così che è successo, in mezzo alla
ressa mi ha
afferrato per dove gli è capitato e mi ha trascinato via.
C’è mancato poco che mi si piegassero le gambe e
gli
cadessi addosso. Siamo riusciti ad allontanarci, ma ormai non era
più possibile rientrare nel locale, così abbiamo
raggiunto la macchina, ha telefonato a France perché
portasse
lui a casa Giulia, così gli ha spiegato anche cosa stava
succedendo fuori e siamo andati via, ‘sperando che non mi
vomiti
in macchina’ continuava a raccomandarsi. E pensare che, di
solito, sono io che lo tengo lontano dai guai! Voleva portami al pronto
soccorso finchè non l’ho convinto che non ce
n’era
bisogno e, una volta a casa, grazie a te è stato in grado di
verificare da solo che non aveva provocato poi questi gran danni mentre
mi chiedeva di ‘non dire niente alla mamma’. Deve
sentirsi
ancora inutilmente in colpa. Se solo riuscisse a parlarne! Da allora,
mi tratta come se dovessi rompermi ogni volta che respira,”
terminò di raccontare.
Diego, terminato di pranzare, era salito nella sua stanza.
Non
aveva voglia di scendere in taverna, era in quella fase di entropia del
pensiero che rende impossibile posarsi su qualche cosa di definito e
costringe l’euforia creativa a fare i conti con il disordine
della sua matrice. Per lasciare al processo il tempo di chiarirsi, a un
certo punto aveva deciso di portare fuori Elvis per farlo correre un
po’. Di solito ci pensava suo fratello, mentre sua madre e
suo
padre gli facevano fare la passeggiatina
‘liberatoria’
della sera o del mattino, come capitava, ma da qualche settimana si era
assunto lui il compito più dinamico. Sembrava che quel cane
non
ne avesse mai abbastanza di correre e giocare, il pallone era la somma
gioia di quell’attività e pazienza per il pallone
che
regolarmente esplodeva.
Quel pomeriggio anche il labrador sembrava assaporare quella
pausa
di tranquillità ma, invece di goderselo sonnecchiando al
sole,
si era scatenato come da molto non faceva, così Diego, una
volta
recuperatolo con fatica, aveva deciso di non portarlo subito in casa ma
di concedergli un altro po’ di libertà nel
giardino sul
retro mentre lui riprendeva fiato. Chiuso il cancelletto del recinto
costruito appositamente per tenerlo separato dal prato antistante,
aveva costeggiato il lato della costruzione sul quale si aprivano le
finestre del salone, mentre il cane era già lontano, una
macchia
bianca e saettante a ridosso della barriera che separava la loro
proprietà dalla strada a scorrimento veloce che correva di
fianco all’autostrada, mitigandone il rombo incessante.
La porta finestra era socchiusa, dal salone proveniva il
suono di
due voci che si invitavano a vicenda, sua madre e suo fratello stavano
conversando e Diego si fermò ad ascoltare mentre si
scrollava la
polvere dai jeans e dalle scarpe di tela come se lo cullasse una musica
familiare, più interessato all’effetto che al
contenuto.
Anche le voci avevano il proprio ritmo. Quella di sua madre era calda e
un po’ cantilenante, mentre quella del fratello aveva un
timbro
basso e argentino, avrebbe potuto definirla una voce piena di sussulti
ridenti.
Percepì il senso di quello che veniva detto solo
a tratti.
Dapprima, più che altro intuì la preoccupazione
di sua
madre riguardo agli analgesici che Luke assumeva sempre più
spesso al posto delle fiale che lo avevano fatto sentire male. Se
n’era accorto anche lui, specie per il numero di confezioni
che
lui stesso gli aveva acquistato in farmacia, ma Luke di questo non
aveva fatto più cenno e lui non avrebbe saputo come
affrontare
l’argomento. Bene, finalmente ne parlavano!
L’altra questione che gli aveva fatto tendere
intenzionalmente le orecchie era la solita: lui, lui e la sua mancanza
di prudenza, ancora! Avrebbe voluto entrare gridando che aveva capito,
che attenzione lui la faceva, ma qualcosa l’aveva bloccato
come
una rivelazione. Si trattava della sera che poi i suoi gli avevano
fatto il cazziatone per non aver risposto al cellulare –
cavolo,
era a cento metri da casa, fermo a quello stupido semaforo della
pasticceria che non scattava mai e che doveva rispettare sebbene
dovesse girare a destra – Luke era uscito per venirlo a
cercare
nonostante portasse ancora il braccio al collo e l’aveva
fatto
pure di nascosto! E lui l’aveva accusato di essere uscito per
farsi un giretto mentre il ‘piccolo’ doveva essere
sempre
rintracciabile e così ‘il piccolo, era andato a
farsi una
birretta al Sette Stelle Paulaner sul cavalcavia, dove suo fratello da
un po’ si sentiva a disagio, tornando ancora più
tardi e
Luke, che era ancora fuori dal cancello ad aspettarlo non aveva detto
niente ai suoi ma, poiché li avevano rimproverati entrambi,
lo
aveva accusato di essersi lamentato con loro! Diego si accorse di
essere quasi in apnea, sopraffatto dal significato che le tessere del
puzzle componevano attorno a lui. Che razza di situazione. Che idiota
era stato e che fratello complicato aveva, era più
complicato
della sua fidanzata. Comunque, questa lezione che aveva imparato da
solo, doveva bastargli. No, lui non avrebbe accettato di essere legato,
ma loro non dovevano preoccuparsi così tanto, anche lui
aveva le
sue promesse da mantenere. E, soprattutto, non dovevano sguinzagliargli
dietro nessuno per essere sicuri che avesse sempre le spalle coperte.
Certamente non Elvis, che avrebbe fatto le feste
all’accalappiacani, eccolo che stava arrivando di corsa con
la
pallina blu scomparsa da prima di Natale.
Diego l’aveva afferrato appena in tempo prima che
si
infilasse nel salone che, aveva scoperto spingendola con il muso, aveva
un’interessante porta aperta. Dentro c’era il suo
adorato
Luke!
Non aveva potuto evitare che un’anta sbattesse
contro la
sedia all’interno, accolto da un’occhiata
rassegnata di sua
madre, intento com’era nello sforzo di bloccare il cane prima
che
saltasse con tutta la sua carica focosa addosso al fratello; le sue
condizioni non gli permettevano ancora di reggere l’assalto.
Elvis dovette smorzare il suo impeto contro le gambe di Luke, ma non la
sua gioia nel vedere il suo padroncino preferito che non era stata
minimamente intaccata, sebbene trattenuto dal fratello
affinché
non desse la scalata al divano e, di conseguenza, al giovane che vi era
ancora coricato. Guaendo rimediò comunque una lunga grattata
sotto il mento e, la sua preferita, sotto le orecchie, mentre Luke,
tentando di conquistare una posizione più eretta, si
sporgeva
verso di lui. Le teste dei due fratelli si trovarono quasi a contatto
per lunghi momenti, sufficienti perché il minore sussurrasse
al
maggiore: “Vedi che ho ragione di trattarti come se dovessi
romperti ogni volta che respiro?” Luke spalancò
gli occhi,
la battuta l’aveva colto di sorpresa, dunque Diego doveva
aver
sentito parte del discorso e aver realizzato com’erano andate
effettivamente le cose quella sera, ma tutto voleva tranne che si
sentisse ancora più in colpa, ma non fece in tempo a reagire
perché, assicurata una buona presa con il guinzaglio che
Eliza
gli aveva teso, il fratello aveva finalmente portato Elvis verso i
dolci lidi della pappa in cucina.
* * * * * * *
Luke, seduto alla scrivania, fissava già da un
po’ lo
schermo del suo portatile senza in realtà vederlo; pensava
di
dedicare un po’ di tempo per aggiornare il suo profilo su
Facebook e Twitter e dare qualche news doverosa ai fans dai quali aveva
ricevuto numerose manifestazioni di solidarietà e affetto,
ma
quella sera proprio non riusciva a concentrarsi e, soprattutto, i
ricordi non lo lasciavano in pace.
Lui e suo fratello
avevano litigato, qualche volta capitava e
quella era stata proprio una litigata coi fiocchi. Quel testone non ne
voleva sapere di apportare quella semplice modifica che gli aveva
chiesto e che secondo lui rendeva quel passaggio musicale
più
accattivante. Il risultato era stato che adesso era rimasto indietro,
tardando a raccogliere le sue cose nello studio di registrazione presso
il quale si appoggiavano, mentre gli altri erano già tutti
giù al garage, o addirittura dentro il monovolume dello
sponsor,
sicuramente mandandogli qualche ‘ostrega’ per il
suo
ritardo. Uscì dall’ascensore di corsa, issandosi
la
custodia della sua chitarra sulle spalle; fu a quel punto che si
sentì afferrare da dietro. Un panno imbevuto di qualcosa dal
forte odore acre gli venne premuto sul viso. Sorpreso,
lasciò
andare lo strumento e la borsa a tracolla che conteneva i suoi appunti
e iniziò a divincolarsi. Il panico
s’impadronì di
lui quando sentì che lo trascinavano nella direzione opposta
a
quella in cui il gruppo lo stava aspettando, ma quella lotta impari
durò poco, perché la vista già si
annebbiava e le
forze venivano meno, portando con loro anche la sua coscienza.
Uno scossone
più forte degli altri fece sì che
riprendesse conoscenza. Realizzò di essere steso su di un
fianco
in uno spazio angusto e buio. Quando fece per muoversi e si rese conto
che aveva le mani legate dietro la schiena e che non riusciva a
stendere le gambe, venne preso dal panico. Qualcosa di appiccicoso sul
viso gli impediva di gridare e chiamare così aiuto. Sentiva
il
cuore battere furiosamente nel petto e, quando si accorse di respirare
affannosamente, s’impose la calma per non cadere in fame
d’aria, dato che non poteva aprire la bocca. Dal momento che
il
senso della vista era inservibile a causa
dell’oscurità,
si concentrò sui rumori. Capì immediatamente che
si
trovava nel portabagagli di un’auto; assurdo, qualcuno lo
aveva
rapito, ma chi poteva mai essere?!
Dopo un lasso di tempo
difficile da quantificare, sentì che
l’auto rallentava per poi fermarsi, udì la
saracinesca di
un garage aprirsi e il mezzo fare manovra, capì che erano
arrivati a destinazione, qualunque essa fosse.
Quando il portellone si
aprì, fu abbagliato dalla forte
luce che investì i suoi occhi abituati
all’oscurità; nonostante ciò, si
sforzò di
alzarsi a sedere.
“Bene, vedo che
sei già sveglio,” sentì
e cercò di mettere a fuoco l’immagine di un uomo
sui
cinquant’anni che lo guardava con astio. Era un uomo
imponente,
sicuramente una persona abituata a lavori pesanti, dalla carnagione
scura e la pelle segnata da molte ore di esposizione al sole e alle
intemperie. Senza attendere oltre, si chinò su di lui e lo
sollevò come fosse stato un fuscello, se lo issò
su una
spalla e cominciò a salire la stretta scala che univa quella
che
Luke giudicò essere una rimessa per auto al resto di
un’abitazione. Spaventato, si divincolò e
rimediò
subito un colpo nelle reni che gli fece sfuggire un gemito soffocato.
“Vedi di stare
buono,” fu l’unico commento dell’uomo.
Entrarono in casa, ma il
suo rapitore continuò a salire le
scale, portandolo al piano di sopra, sicuramente quello riservato alle
camere, s’incamminò per un breve corridoio,
aprì
una porta sulla destra e accese la luce. Una volta dentro la stanza, lo
scaricò senza tante cerimonie sul letto con le coperte
azzurro
chiaro. Luke strinse i denti accusando l’urto a spalle e
braccia
e si issò subito a sedere, trascinandosi verso la testiera,
nel
disperato quanto inutile tentativo di mettere tra sé e
quell’uomo quanta più distanza possibile.
“La stanza di
mia figlia Valentina, sei sul suo
letto,” esordì e aggiunse subito cupamente,
“ormai a
lei non serve più.” Il giovane si
guardò attorno.
Era sicuramente la stanza di una ragazza, lo testimoniavano alcuni
complementi di arredo, la carta da parati in una tenue tinta pastello
con piccoli fiorellini stilizzati e la stessa mobilia dalle linee
morbide. Peluche e oggettini occhieggiavano dalle mensole a muro. Uno
stereo compatto faceva bella mostra di sé sulla scrivania
poco
lontano dai poster dei suoi cantanti preferiti, appesi con cura alla
parete; si sentiva un estraneo che invadeva
l’intimità
altrui, perché lo aveva portato lì! Finalmente li
vide,
una porzione di parete era dedicata esclusivamente a lui e a suo
fratello, ce n’erano tanti, da quelli che li mostravano agli
inizi della loro carriera, a quelli più recenti.
“Eravate il suo
complesso preferito,” disse
l’uomo seguendo il suo sguardo. Lo vide alzarsi dalla sedia
sulla
quale si era seduto a cavalcioni, si chinò su di lui e tolse
con
un unico brusco gesto il cerotto che Luke aveva sulla bocca. Gli fece
male. “Puoi gridare quanto vuoi, la casa è
isolata,
nessuno ti sentirà,” commentò acido.
“Che cosa vuole
da me, perché mi ha portato qui?!” chiese tutto
d’un fiato.
“Voglio che tu
ascolti una storia,” rispose
l’uomo riprendendo la sua posizione sulla sedia posta accanto
al
letto.
Seguì una
lunga pausa carica di tensione. “Sai come
è morta mia figlia…, un incidente stradale.
Quella sera
di fine luglio stava tornando da uno dei vostri concerti, vi seguiva
assiduamente, la mia piccola…, una macchina che viaggiava ad
alta velocità…, lo schianto è stato
terribile,” concluse.
“Mi
dispiace,” disse Luke a disagio.
“Davvero, ti
dispiace…, se non fosse stato per il
vostro maledetto concerto, lei sarebbe ancora viva,” il tono
di
voce dell’uomo si stava pericolosamente alterando.
Comprendendo
il dramma a cui stava assistendo, il giovane lo guardò con
un
misto di pena e inquietudine.
“Capisco il suo
dolore, ma non può davvero ritenere
me e mio fratello responsabili di ciò che è
accaduto, si
è trattato di una tragica fatalità!” si
azzardò a dire.
“Invece
è proprio ciò che penso.”
Accadde in un attimo, lo raggiunse e gli assestò un
manrovescio
sulla bocca. Luke ricadde malamente sui cuscini, prima il dolore al
labbro inferiore, poi il sapore rugginoso del proprio sangue. Non ebbe
il tempo di preoccuparsene perché si sentì
afferrare per
i capelli. Adesso lo obbligava a mettersi seduto.
“Ti consiglio
di non fare scherzi, hai appena provato quanto
la mia mano possa essere pesante.” Lo sentì
armeggiare con
le fascette per materiale elettrico che aveva usato per imprigionargli
i polsi dietro la schiena. Non fu per liberarlo, ma solo per
assicurarlo alla testiera del letto in ottone cromato, tagliando le
fascette con l’ausilio di un cutter e bloccando nuovamente i
polsi sopra la sua testa utilizzandone di nuove, rendendogli
così impossibile qualsiasi tentativo di fuga.
Lasciò la
stanza quasi subito, non prima, però, di avergli lanciato
un’ultima occhiata ostile.
Immerso
nell’oscurità, a Luke non rimase altro che
rassegnarsi.
Fu destato da un violento
scossone, malgrado tutto, a causa dello
sfinimento e dell’effetto residuo del narcotico, doveva
essere
caduto in una specie di inquieto dormiveglia.
“Avanti,
alzati, dobbiamo andare in un posto,” fece
brusco il suo carceriere, mentre con lo stesso cutter utilizzato prima
tagliava la fascetta che lo teneva inchiodato al letto, senza liberare
i polsi che adesso, però, poteva tenere davanti. Prima di
uscire
Luke notò che uno dei suoi braccialetti giaceva abbandonato
sul
cuscino macchiato del suo sangue, forse l’uomo lo aveva
involontariamente tagliato usando il cutter; non gli fu possibile
recuperarlo. Appena fuori dalla stanza si fermarono vicino a
un’altra porta. Gli fece cenno di entrare: “Datti
una
rinfrescata, non voglio che il beniamino della mia piccola se la faccia
nei pantaloni,” rise beffardo.
“Mi
liberi,” fece Luke accigliato, alzando i polsi.
“Non se ne
parla nemmeno, vedi di arrangiarti,” fu la
secca risposta. Restio, il giovane entrò anche per non dover
sentire altro.
“Non chiudere
la porta, non sei in villeggiatura,”
udì comunque alle sue spalle. Accese la luce e si
guardò
attorno, il bagno piastrellato di rosa non aveva finestre, sicuramente
non era quello principale dal momento che non aveva né
doccia
né vasca. Si specchiò, aveva un aspetto orribile,
il
labbro inferiore era gonfio e tumefatto, gli occhi lucidi tradivano
paura e sgomento. Fece quello che doveva, dopo tutte quelle ore ne
sentiva il bisogno e ne approfittò anche per lavarsi il viso
sporco di sangue, sciacquarsi la bocca e bere qualche sorso
d’acqua, la sete lo tormentava.
L’uomo lo
spintonò verso il portabagagli aperto
dell’auto: “Entra,” gli
intimò. Luke lo
guardò con un misto di preoccupazione e
insofferenza.“Non
fartelo ripetere, ragazzino,” rincarò duro
l’altro.
Seppur riluttante, il maggiore dei fratelli Marten si
sistemò
come meglio poté nello scomodo vano. Sentì che
l’auto veniva messa in moto e ripartiva alla volta di una
destinazione per lui al m omento sconosciuta. Ancora una volta
l’oscurità e di nuovo quell’odore forte,
un misto
d’umidità, cemento e terra che gli toglieva il
fiato. Solo
adesso realizzava di averne conservato il ricordo opprimente nei
momenti di dormiveglia passati in quella stanza diventata un
reliquiario.
Durante il tragitto, un
caleidoscopio di pensieri si susseguirono
rapidi nella sua mente. Non riusciva a persuadersi che quello che gli
stava capitando fosse vero, aveva capito che quell’uomo,
seppure
disperato, era pericoloso. Aveva paura di non riuscire a venirne fuori,
pensò che in vita sua non si era mai trovato così
vicino
alla morte. Quando l’auto rallentò per poi
fermarsi, il
cuore di Luke perse un battito per poi correre all’impazzata.
Era una scena degna del
più classico film
dell’orrore. Luke quasi non poteva credere ai propri occhi,
stavano camminando in piena notte in un cimitero! Erano entrati da un
cancello laterale, probabilmente utilizzato dai custodi per le
attività di manutenzione, l’uomo possedeva una
copia della
chiave e il giovane si domandò se anche questo non potesse
essere un serio indizio per arrischiare un’ipotesi sulla sua
professione.
La notte era fredda, ma
limpida. Piccole volute di vapore si
formavano davanti alla sua bocca per il contrasto tra l’aria
gelida e il suo fiato caldo. Si stupì di quanta luce ci
fosse,
nonostante l’assenza d’illuminazione, sulle lapidi
rischiarate quasi esclusivamente dal tenue lucore dei lumini, talora
riusciva a leggere addirittura i nomi. L’uomo lo guidava
lungo i
viali, tra i filari di tombe, semplicemente con la pressione della mano
sulla sua spalla.
“Perché
mi ha portato qui?” chiese come in sogno.
“Adesso lo
vedrai,” rispose l’altro con un filo di voce.
Si fermarono davanti a
una tomba in pietra chiara con una scultura
raffigurante un angelo alato che aveva tra le mani un cero.
L’uomo lo spinse ruvidamente facendogli perdere
l’equilibrio. Cadde in ginocchio sulla pietra lucida.
“Leggi,” gli intimò. Luke rivolse la sua
attenzione
alla fotografia che raffigurava una bella ragazza dai folti e lunghi
capelli castani; sorrideva.
Lesse: Valentina X. Aveva
ventun’anni. “Questa è la tomba di sua
figlia!” esclamò colpito.
“Già.”
L’uomo lo rialzò.
“Adesso tu farai qualcosa per lei.” Lo
liberò dalle
fascette che gli avevano lasciato profondi segni rossi.
“Cambia
l’acqua ai fiori e prega per lei,” gli
disse e a Luke parve di percepire una lieve esitazione nella sua voce.
Guardò il vaso posto in un angolo della lapide, era colmo di
calle. I fiori erano freschi, sicuramente portati di recente e si erano
ben conservati grazie anche alle basse temperature di quei giorni.
Sollevò il vaso e individuò non lontano la
fontanella per
l’approvvigionamento dell’acqua.
L’operazione non gli
richiese che pochi minuti. Depose nuovamente il vaso nel suo supporto
metallico e finì di sistemare le candide calle secondo il
suo
gusto. Provava una grande pena mentre indirizzava alla giovane una
silenziosa preghiera. Quando alzò gli occhi,
l’uomo si era
spostato e lo stava guardando in modo inquietante.
“Mi lasci
andare adesso,” chiese ugualmente seppure a
bassa voce. Per tutta risposta l’altro estrasse
un’arma.
Gli occhi di Luke si spalancarono increduli e allarmati, proprio quando
credeva di aver visto in lui un po’ di umanità.
Scosse il capo:
“Questo non riporterà in vita Valentina e non
penso che lei lo avrebbe voluto.”
“Tu non sai
nulla di lei,” quasi urlò
quell’individuo.
Luke comunque
continuò come se non lo avesse udito:
“Era sicuramente una ragazza piena di vita e
d’amore. E
quello che le è successo è terribile.”
“Sta’
zitto! Non c’è nulla che tu possa
dire per farmi desistere, andrò fino in fondo!”
Tese
l’arma tra loro: “Preparati, perché stai
per farle
compagnia.” Luke lo fissò sfinito, doveva proprio
finire
così per lui, proprio adesso che aveva così tante
cose da
fare! “E poi, di Sharoon ne rimane ancora un altro,
giusto?”
Quell’accenno
al fratello ebbe il potere di riscuoterlo,
reagì con l’istinto di chi protegge da una vita un
bene
essenziale: “Perché, uno non le basta? In fondo,
per
tutti, il puttaniere sono io.” Persino lui era sorpreso del
proprio tono sarcastico, ma non bastò a smuovere la cupa
ostinazione che aveva di fronte. Questa volta fu l’uomo a
scuotere la testa con una smorfia di derisione sulle labbra. Leggendo
quella folle determinazione nei suoi occhi, Luke si arrabbiò
e
sentì il sangue scorrere più velocemente nelle
vene:
“Lascia stare mio fratello!” disse quasi roco. No,
questo
non lo poteva permettere, finché Diego fosse sopravvissuto
anche
qualcosa di lui avrebbe continuato a vivere. Sarebbe stata dura per suo
fratello, erano profondamente legati, “Due come
noi…,” pensò in un lampo. Ma era anche
sicuro che,
grazie alla musica che li aveva resi così saldi, ce
l’avrebbe fatta, sì doveva essere così!
“Non vedo come
potrai impedirmelo, dovresti pensare a te stesso, piuttosto,”
lo schernì.
“Io
troverò il modo, è una promessa la
mia!” La voce del giovane era ferma.
“Basta,
è ora, allontanati da lei.”
Che strana la mente
umana, in un momento come quello gli era
venuto alla memoria un passo di una delle loro canzoni, si rese conto
con stupore che era Metà, quella dedicata ai condannati a
morte.
Come lui, ora. Fece ciò che gli veniva chiesto.
“Luke, Luke stai bene?” si
voltò in direzione
di quelle parole, in un primo momento senza in realtà vedere
chi
le avesse pronunciate. Era Giulia, la fidanzata di suo fratello. La
ragazza lo guardava preoccupata: “Volevo solo dirti che Diego
ti
aspetta giù in taverna.” Qualcosa
nell’espressione
del giovane la convinse a superare la distanza che si era imposta di
tenere con il fratello del suo fidanzato. Gli posò una mano
sulla sguancia: “Davvero, ti senti bene. Sei
pallido.”
Luke mise la sua su quella di lei e la allontanò
con gesto
gentile. “Tranquilla, è tutto a posto. Ho solo un
giorno
no, ecco tutto,” sorrise e aggiunse: “Digli che
vengo
subito.”
Non le rimase altro che lasciare la stanza con la netta
sensazione
che Luke avesse trattenuto le lacrime, tanto le era sembrato
sull’orlo del pianto, per non farle vedere la debolezza di
quel
momento.
Uscita, si trovò davanti il suo fidanzato. Diego
la
guardava con quello sguardo da cucciolo smarrito che altre volte gli
aveva visto e sempre in relazione a momenti difficili suoi personali o
della famiglia. Era sicura che avesse sentito tutto, ma anche lei, che
lo conosceva ormai piuttosto bene, qualche volta non riusciva a capire
veramente che cosa gli passasse per la testa. Solo di una cosa era
sicura, stava soffrendo. Tese una mano verso di lei. Gliela prese e
insieme si avviarono giù per le scale. In quel momento la
giovane toccò di persona quanto ciò che era
accaduto
avesse colpito profondamente i due fratelli.
* * * * * * *
Incapace di prendere sonno, Diego fissava la libreria di
fronte al
suo letto di cui riusciva a indovinare i particolari nonostante la poca
luce. La sua mente inquieta vagava e quasi senza accorgersene si
ritrovò, suo malgrado, a ripercorrere i pesanti avvenimenti
delle ultime settimane.
“Si
può sapere cosa diavolo sta facendo
ancora!” esclamò spazientito, vicino alla portiera
aperta
del monovolume. “Oggi ha proprio deciso di farmi
incazzare,” pensò afferrando il cellulare e
chiamando
quello del fratello. Il telefonino squillò a vuoto, chiuse
la
comunicazione e sempre più furioso, s’incammino
alla volta
dell’ascensore.
Andy lo precedette:
“Si sarà dimenticato qualcosa, come al
solito,” disse divertito.
Il sorriso gli
morì sulle labbra non appena, svoltato
l’angolo, vide la chitarra e la tracolla abbandonate sul
pavimento; alcuni fogli di appunti, scivolati fuori dalla tasca esterna
lasciata aperta, forse nella fretta di raggiungerli, giacevano sparsi
alla rinfusa.
Diego lo trovò
così, con la tracolla tra le mani e
l’espressione interrogativa sul volto. Riprovò col
cellulare, ma ogni aspettativa fu presto delusa, quando le note della
melodia scelta dal fratello per la sua suoneria si diffusero
nell’aria. Non aveva con sé il cellulare! Diego di
sentì gelare.
Lo avevano cercato dappertutto, anche con l’aiuto
del
proprietario degli studi, alla fine si erano dovuti arrendere, Luke non
era più lì. Quello che era successo dopo lo
ricordava in
maniera confusa. Aveva avvisato i suoi genitori e insieme si erano
risolti ad andare alla Polizia. Il colloquio con il poliziotto di turno
lo aveva estenuato e indisposto allo stesso tempo. Era chiaro che
l’agente non prendeva troppo sul serio la scomparsa di suo
fratello, forse abituati com’erano a sparizioni e
ritrovamenti di
ogni sorta. Ma Luke non era uno sbandato qualunque che faceva le cose a
caso in preda a non si sa quale sostanza, come sembrava insinuare
più o meno velatamente l’uomo in divisa. Gli
artisti, si
sa. Non avrebbe mai lasciato la sua chitarra e la tracolla con i suoi
preziosi appunti in un garage, abbandonati sul pavimento senza nessuna
cura. Quell’idiota di poliziotto poteva fare pure tutte le
sue
supposizioni, ma lui era sicuro che fosse successo qualcosa di grave ed
era frustrante non venire creduti. Si erano ritrovati a dover
giustificare comportamenti per loro normali come le accese discussioni
sul lavoro, il processo di creazione qualche volta poteva risultare
complicato, ma questo era difficile da capire per i non addetti ai
lavori. Ricordava ancora la pressione delle mani esercitata da suo
padre, in piedi dietro di lui, sulle sue spalle. Per una osservazione
fuori luogo dell’agente, si era sentito avvampare ed era
sbottato
in un ‘cosa’ di un’ottava al di sopra del
normale, ma
Dominic lo aveva prevenuto sedando gli animi e tenendolo inchiodato
alla sedia. Quel supplizio era finito quando era entrato un altro
agente più giovane, in borghese e dallo sguardo sveglio.
“Che cosa succede qui?!” aveva chiesto, captando
immediatamente la tensione nell’aria. Aveva congedato il
collega
che era sembrato ben felice di trovare un pretesto per andarsene e,
dopo aver dato un’occhiata al monitor, l’aveva
fissato per
un lungo istante per poi affermare: “Diego dei
Sharoon!” A
quel punto la conversazione aveva preso un’altra piega. Aveva
ripetuto loro onestamente che prima delle ventiquattr’ore non
si
poteva fare molto, dal momento che si trattava di un maggiorenne in
buona salute, ma aveva anche detto che questo non impediva loro di
esplorare altre strade. Era così che la conversazione era
caduta
su un possibile stalker, vista anche la loro attività.
“Avete ricevuto minacce o è successo qualcosa di
strano in
questi ultimi giorni?” Ci aveva pensato seriamente, ma non
avevano ricevuto alcuna minaccia degna di nota, al massimo qualche
messaggio offensivo, non riusciva a pensare nemmeno che la cosa fosse
possibile, almeno così credeva in quel momento.
Erano tornati a casa stanchi e stravolti ed era cominciata
un’interminabile notte d’attesa. I suoi genitori si
erano
attaccati al telefono chiamando parenti e amici, inventandosi le scuse
più disparate per chiedere di Luke, cercando di non rivelare
più del dovuto. Poi era cominciato il giro degli ospedali,
penoso e sfibrante anche quello. Quella terribile attesa si era
conclusa solo la mattina dopo, verso le nove e mezza, quando era
arrivata la telefonata che li avvertiva che suo fratello si trovava in
ospedale. Ci si erano precipitati. Luke era in sala operatoria, gli
avevano sparato! Non poteva crederci! E ancora più
incredibile
era il luogo del suo ritrovamento, un cimitero della provincia! Quando
il mondo si era rovesciato e lui non se ne era accorto? Comunque,
quelle poche informazioni suo padre le aveva avute dal Carabiniere
della pattuglia chiamata dal custode del cimitero che lo aveva trovato
e che, ora, dovendo raccogliere informazioni sul ferito, li aveva
raggiunti all’ospedale. Si era limitato ad ascoltarli, quasi
incapace di connettere. Erano risaliti
all’identità di suo
fratello grazie all’abitudine di Luke di tenere nella tasca
interna del giubbotto sempre un documento di riconoscimento. Benedetta,
santa abitudine!
Erano seguite altre lunghe ore di attesa, anche se almeno
adesso
sapevano dov’era. Era passato dalla sala operatoria alla
rianimazione e poi finalmente alla camera d’ospedale, dove si
era
svegliato solo la notte successiva.
Entrò nella
stanza immersa nella penombra disponendosi ad
altre lunghe ore di attesa, si era assentato solo il tempo necessario
per prendersi qualcosa di caldo dal momento che non aveva mangiato
quasi niente per tutto il giorno. Socchiuse la porta perché
i
rumori provenienti dal corridoio penetrassero il meno possibile e si
accostò al letto. Sorpreso ed emozionato al tempo stesso si
accorse che suo fratello aveva gli occhi aperti.
“Luke…,”
lo sguardo del maggiore si posò
su di lui. La luce notturna rischiarava l’ambiente quel tanto
che
bastava, ma a Diego sembrò che per un lungo momento Luke non
lo
riconoscesse. “Diego…,” disse infine con
un filo di
voce.
“Sì,”
rispose, sentendo le lacrime salire agli
occhi e prendendo tra le sue la mano che il fratello gli tendeva. Luke
si era mosso appena, ma questo era stato sufficiente per vedere il suo
viso esprimere dolore.
“Piano, non
muoverti così in fretta,” disse sollecito.
“Cosa
è successo?” chiese Luke ancora smarrito.
“Davvero non te
lo ricordi…, ti hanno sparato,”
disse Diego vagamente a disagio. Ora lo guardava più vigile.
Sentì la sua mano stringere più forte.
“Sì,
ora ricordo. Diego…,” lo vide deglutire,
“Diego, tu stai bene?” chiese ansioso.
“Ma che dici,
certo che sto bene. Sei tu quello a cui hanno sparato.”
Furono interrotti dall’ingresso
dell’infermiera, alla
donna bastò una rapida occhiata per rendersi conto della
situazione, uscì dalla stanza per rientrare subito dopo con
il
medico di guardia. Gli avevano spiegato che il monitor di controllo
aveva registrato una variazione significativa ed erano venuti a
controllare. Era rimasto in disparte mentre visitavano suo fratello
poi, nervoso com’era, non aveva retto ed era uscito,
prendendo a
camminare su e giù per il corridoio rigirandosi tra le mani
il
cellulare. Quando finalmente era potuto rientrare, Luke lo guardava, un
po’ sofferente ma tranquillo dal suo letto. Gli aveva
raccontato
per sommi capi ciò che gli era successo. La storia
già di
per sé era incredibile. Si era raccomandato con lui di stare
molto attento, poi gli aveva chiesto dell’acqua, ma aveva
potuto
solo inumidirgli le labbra, così come si era raccomandato il
medico, facendo attenzione a non fargli male a causa del taglio ancora
fresco sul labbro inferiore, infine, sfinito, si era riaddormentato
stringendo ancora la sua mano, quasi volesse essere sicuro che non si
allontanasse. Si era seduto sulla sedia vicino al letto, indeciso se
chiamare i suoi oppure no. Poi, vista l’ora, aveva deciso di
aspettare, tanto sarebbero stati lì a breve.
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno avevano ricevuto la
visita di due poliziotti, uno di loro era lo stesso investigatore con
cui avevano parlato la sera della scomparsa di Luke. Suo fratello
sembrava stare un po’ meglio, gli avevano tolto il sondino ed
erano riusciti anche a fargli mangiare qualcosa di leggero. Dal suo
letto d’ospedale, ascoltava pazientemente ciò che
i due
uomini avevano da dirgli e, sollevato per metà grazie ai
cuscini
e allo schienale reclinabile, rispondeva alle loro domande con
puntualità. Così Diego e i suoi genitori avevano
potuto
ascoltare il resoconto di ciò che era accaduto dalle sue
stesse
parole.
“Dunque le cose
sono andate così?! Devo dire che non
ci capita spesso di sentire una storia come questa,”
commentò l’investigatore consultando i propri
appunti
scritti con calligrafia minuta, dando al contempo voce al pensiero dei
presenti.
“Se la sente di
descriverci quell’uomo? Possiamo
mandare uno dei nostri esperti per vedere di fare un
identikit,”
propose il collega che fino a quel momento era stato di poche parole.
“Sì
certo, ma posso fare di meglio. Conosco il nome
di sua figlia, l’ho letto sulla lapide,” aveva
risposto il
giovane convinto.
A quelle parole, i due
uomini si scambiarono un’occhiata di
approvazione: “Ottimo. Questo semplificherà molto
le
cose.”
“Ma vedo che
è piuttosto affaticato, per oggi
può bastare, non ci tratteniamo oltre. Vi faremo sapere se
ci
saranno sviluppi significativi,” concluse
l’investigatore
alzandosi in piedi, seguito dal collega.
“Un momento,
per favore,” Luke indicò Diego in
piedi di fronte al suo letto “mio fratello…,
quell’uomo è stato molto chiaro, ora che crede di
avermi
eliminato, sempre che lo pensi ancora, visto il risalto che ne ha dato
la stampa,” e così dicendo indicò la
pila di
giornali posati sulla sedia vicino alla porta, “intende
cercare
anche l’altro dei Sharoon.” Non sentendo arrivare
la
risposta che si aspettava, Luke, che fino a quel momento era stato
tranquillo e collaborativo, mostrò segni di nervosismo.
“Non…, non potete ignorare la cosa!”
esclamò
portando la mano destra alla ferita. “Luke, calmati, non fare
così,” intervenne Eliza avvicinandosi al figlio.
Il giovane scosse la
testa, mentre sul suo viso passava rapida una
smorfia di dolore: “Quello non è tipo da
rinunciare,
cercherà mio fratello!” ripeté, il tono
visibilmente alterato, nel disperato tentativo di farsi ascoltare.
“La prego di
calmarsi signor Marten, si conceda il tempo di
superare lo shock, intanto le assicuro che discuterò della
cosa
con i miei superiori, per il momento sarò lieto di dare sia
a
lei che a suo fratello qualche utile suggerimento per ridurre eventuali
rischi,” si affrettò a dire
l’investigatore nel
tentativo di quietare il ferito.
“Non sarete
abbandonati a voi stessi, adesso è un
ricercato, le sue foto segnaletiche verranno diramate a tutte le
‘volanti’,” aggiunse il collega
sollecito,
riconoscendo che le preoccupazioni del giovane non erano prive di
fondamento.
Dominic, dal canto suo,
conosceva abbastanza bene suo figlio da
sapere cosa significasse quella particolare espressione, quello sguardo
leggermente più sgranato del normale di quegli occhi scuri
già di per sé così grandi.
“Parliamone
fuori, per favore,” chiese con decisione per smorzare la
tensione
e dare a Luke la possibilità di recuperare il controllo.
“Papà!”
lo sentì comunque insistere.
L’uomo si limitò ad alzare un braccio,
indirizzandogli
quell’occhiata che il figlio sapeva significare:
“Lascia
provare me.”
I due uomini uscirono
dalla stanza, accompagnati da Marten padre
che voleva parlare loro a quattrocchi, per vedere di riuscire a
ottenere qualcosa di più.
“Che vuol dire
utili suggerimenti?! Che cazzo vuol dire
‘utili suggerimenti’!”
continuò Luke fuori di
sé per la frustrazione e l’impotenza. Il dolore al
petto
gli mozzava il respiro. “E poi, quale shock?! E anche se
fosse,
cosa c’entra, cosa gliene importa? Io non sono sotto
shock…, avrei anche il diritto di esserlo…,
vorrei vedere
loro, queste teste…,” ormai ansimava vistosamente,
la voce
sempre più roca. Com’era possibile che non
capissero o
invece capivano benissimo e non fregava niente a nessuno!
“Adesso basta
Luke, non otterrai niente così,”
lo interruppe Eliza, riadagiando con fermezza il figlio sui cuscini,
che nello sforzo di dare più enfasi alle sue parole si era
proteso verso di loro, procurandosi quel dolore che, senza rendersene
conto, stava rendendogli il respiro affannoso.
“Diego, almeno
tu, ascoltami; stai attento, devi stare molto
attento! Non voglio spaventarti, ma ti prego, non prendere questa cosa
sotto gamba!”
Invece si era spaventato eccome! Non ricordava di aver mai
visto
Luke in preda ad un tale stato di agitazione, per calmarlo i medici
avevano dovuto somministrargli un sedativo. E, anche se successivamente
aveva mostrato segni di insofferenza per quello stato di continua
allerta, era per questo che aveva messo da parte tutte le remore e
aveva contattato l’investigatore per farsi dare qualche
consiglio
su come disorientare un possibile aggressore, anche solo per guadagnare
qualche secondo prezioso, per essere magari d’aiuto al
fratello
che considerava ancora il più esposto. L’uomo, da
parte
sua, era stato molto disponibile, si era offerto perfino di fargli da
scorta in caso di spostamenti importanti compatibilmente con le sue
esigenze di servizio.
L’impressione che, però, ne aveva
ricevuto, era che
l’ispettore stesso, a conti fatti, pensasse che in certe
situazioni fosse sempre meglio sapersi arrangiare da soli.
* * * * * * *
Erano appena tornati dall’ospedale. Finalmente non
aveva
più i punti. Era un giorno da festeggiare. Eliza lo aveva
accompagnato per l’ultimo appuntamento, nonostante lui avesse
cercato di convincerla che poteva andare da solo, era grato per questo.
Anche questa volta non gli era stata risparmiata la familiare dose di
dolore, ma ora poteva dire di essere libero. Avrebbe dovuto essere
contento, invece... Non sapeva nemmeno lui. Era sollevato,
indubbiamente, cosciente che tutto era andato bene, aveva
‘sfangato’ l’intervento alla scapola, non
erano
sopraggiunte infezioni, le poche indispensabili graffe erano un ricordo
quasi sbiadito, la cicatrice, per ora bruttina, non era rilevata e il
chirurgo che l’aveva suturato, un chirurgo plastico, gli
aveva
dato degli ottimi consigli anche dopo le dimissioni, seguiti
scrupolosamente da sua madre nelle medicazioni successive per evitare
quello sgradevole esito. Lo stesso dolore provocato
dall’estrazione dei punti era dovuto alla loro particolare
conformazione; a parte una noncurante incapacità di alcuni
operatori sanitari unita a un pizzico di sadismo accuratamente
coltivato, ne era valsa la pena. Ora doveva solo aspettare, continuare
ad averne cura e osservare alcune precauzioni nell’esporla a
sole
e sostanze irritanti come il cloro della piscina. Non aveva nemmeno
avuto bisogno di riabilitazione, altro fardello evitato grazie agli
stessi preziosi consigli. Quanto al dolore, con il tempo si sarebbe
attenuato fino a scomparire del tutto, secondo i medici, o quasi,
secondo l’unica altra opinione discordante ascoltata. Non
conosceva, infatti, molte persone che avessero subìto ferite
da
arma da fuoco e l’unica conferma basata su
un’esperienza
diretta era sorprendentemente arrivata dall’investigatore
che,
ormai, era diventato una presenza costante nelle loro vite; se non
fosse stato tanto legato all’istituzione cui apparteneva,
sarebbe
potuto diventare quasi un confidente.
Questo era uno dei motivi di scontento, frustrazione,
nervosismo e
sconforto che nutrivano il suo malessere e offuscavano il positivo
decorso del suo stato. Un altro era la lontananza, ormai troppo a lungo
protratta, dal suo lavoro. La chitarra era uno strumento che
richiedeva, come tutti gli altri, attenzioni constanti, con la
differenza che non poteva suonarla posata sul letto o su un ripiano.
Richiedeva di essere imbracciata. Anche il violino lo richiedeva, ma
una chitarra pesa più di un violino, anche se la sostieni
con la
tracolla che, nel suo caso, visto che era mancino, poggiava proprio
sopra la ferita, d’altronde, se avesse usato la mano destra,
non
avrebbe potuto comunque suonare con l’energia necessaria.
Gli sembrava di avere perso altro terreno nei confronti del
suo
già irraggiungibile fratello, si sentiva come se stesse
disattendendo una promessa. Fino a quel momento, non aveva neppure
potuto allenare nemmeno la voce, per, almeno, offrire un appoggio
vocale a suo fratello che avrebbe potuto riprendere fiato
accompagnandolo.
Con questi pensieri nell’animo, si aggirava per il
salone,
sfiorando i divani come se lo vedesse per la prima volta e cercasse dei
punti di riferimento.
Eliza lo aveva lasciato solo nella grande casa vuota e
silenziosa,
doveva sbrigare alcune incombenze a lungo rimandate assieme a suo padre
che l’aveva preceduta e l’aveva fatto con fiducia
che lui
sarebbe stato al sicuro. Tra le altre, ma era un segreto,
così
almeno pensava lei, aveva anche fatto alcuni semplici preparativi per
festeggiare tutti insieme, quella sera, quel nuovo importante passo
verso la normalità. La normalità…,
anche se tutti
loro avevano un tasso di allenamento agli imprevisti superiore alla
media, cosa sarebbe mai stata la normalità dopo tutto
questo?
Diego…, già, Diego. Assecondando la
propria
insofferenza, era fuori casa ma, assecondando la loro apprensione, per
lo meno sapevano dov’era, a casa di Giulia.
Persino Elvis era stato portato momentaneamente nella casa
di
montagna, affidato alla famiglia di un amico, la cui figlia lo adorava.
La grande casa era proprio solitaria, come lui, e
tranquilla, a
differenza sua. Era anche in leggera penombra e fu per questo che mise
un piede in fallo mentre, salendo la scala per raggiungere il piano di
sopra, si era allungato oltre il muretto che fungeva da parapetto, per
staccare una chitarra dalla parete come faceva spesso quando non voleva
rifare il giro. Riuscì a non farla cadere, si sarebbe
senz’altro rovinata, un altro tradimento, afferrandola per la
tastiera, ma a prezzo di sbattere il gomito e l’interno del
braccio sinistro sul bordo del muretto ricoperto di legno. Il dolore
acuto ebbe il potere di riscuoterlo dal suo stato sospeso.
Recuperò lo strumento e scivolò a sedere sul
gradino nel
quale era inciampato. Fortunatamente il piede era stato protetto dalla
scarpa che ancora indossava, solo la caviglia sembrava essersi
lievemente distorta.
Si prese la testa fra le mani, la chitarra posata ai suoi
piedi un
gradino più in basso, lasciando libero sfogo alle lacrime
che
non sapeva nemmeno di avere. Qualcuna cadde sonoramente sul legno
chiaro. Per qualche minuto, il corpo del giovane uomo fu scosso dai
singhiozzi; chiunque l’avesse visto dall’esterno
sarebbe
rimasto impressionato non poco per la loro intensità, ma
Luke,
in cuor suo, era molto più tranquillo di quanto non fosse
anche
solo pochi minuti prima. Si era reso conto che, da quando era
cominciata tutta quella storia, non aveva mai dato sfogo ai suoi
sentimenti, nemmeno nelle lunghe notti solitarie in ospedale. Se fosse
accaduto allora, nessuno l’avrebbe saputo come nessuno
l’avrebbe saputo ora che si era finalmente liberato.
Quando si fu rilassato, dopo che gli ultimi singulti si
furono
calmati e si fu asciugato come poteva le lacrime con le mani chiuse a
pugno come faceva quando era bambino, si appoggiò alla
parete e
prese sulle ginocchia la chitarra come se fosse anch’essa
ferita
e gli chiedesse di essere cullata. Accennò quasi con timore
alcune note libere direttamente sulla buca della cassa, lei rispose e
questo bastò per entrambi a rassicurarli che il loro dialogo
non
si era mai interrotto.
Quello che Luke non sapeva era che la casa non era del tutto
vuota.
Diego era rientrato prima, segnale, anche questo, di
insofferenza,
ed era salito direttamente nella sua stanza. Sentiva il bisogno di
stare solo con i suoi pensieri e si era steso sul suo letto, senza
sonno. Aveva sentito il fratello rientrare ma non aveva voluto
avvertire della sua presenza. Quando aveva sentito la botta della
chitarra risuonare al piano di sotto si era allarmato e aveva deciso di
andare a vedere, era probabile che uno dei due si fosse fatto male.
Aveva sceso silenziosamente i primi gradini e quando era stato sul
punto di svoltare l’angolo della scala che ancora lo celava
alla
vista, aveva sentito suo fratello singhiozzare. Ormai certo che fosse
Luke a essersi fatto male, aveva vissuto un lungo attimo di incertezza,
sicuro che non fosse nulla di fisicamente grave ma ugualmente
irrigidito dal timore di non sapere cosa fare, cosa dire. Aveva
ascoltato rattristato lo sfogo, egli stesso con il cuore gonfio di
pena, lo sguardo fisso, le spalle al muro e le braccia davanti al
petto, fino a quando l’aveva sentito quietarsi. Aveva udito
il
suono argentino della chitarra salvata dal fratello e aveva compreso,
accennando un sorriso nell’ombra, che avevano fatto pace e
questo
era stato sufficiente a farlo risolvere.
Aveva colmato gli ultimi metri che li separavano per unirsi
a lui,
rivelando la propria presenza e al diavolo l’imbarazzo, era
uno
di quei momenti in cui doveva mettere da parte tutto e poi nessuno
oltre a loro avrebbe saputo. Aveva posato una mano sulla spalla del
fratello e ne aveva ricevuto in cambio un’occhiata appena
sorpresa, subito mutata in uno sguardo pieno di speranza, ricambiato.
“Andiamo giù e proviamo a suonare
qualcosa insieme?” aveva chiesto complice.
continua...
I fatti rappresentati nella
seguente opera, pubblicata senza
alcuno scopo di lucro, e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente
frutto dell’immaginazione e della libera espressione
artistica
degli autori.
Ogni similitudine,
riferimento o identificazione con fatti
ispirati a persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale
e
non rappresentativa della realtà. Tutto il progetto
è
stato curato per non arrecare involontaria offesa per la
dignità
e la sensibilità di alcuno.
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