Pillole
(di vita)
Up on
the
melancholy hill, there’s a plastic tree; are you here with
me, just looking out
on the day of another dream?
Stese
sopra l’enorme giardino
della famiglia Lattanzi, Alessandra e Giulia fissavano il cielo da
quelle che sembrano
ore, le mani intrecciate nell’erba. Erano passati due giorni
dalla fine dei
loro esami di maturità, e la prima reazione era stata quella
di riconquistarsi con
l’ozio quell’estate passata a sgobbare sopra le
tanto odiate “sudate carte”,
come aveva citato ridendo Giulia.
«Giulia?»
«Mmh?»,
mormorò l’altra,
rotolando pigramente su un fianco e posando la testa sopra lo sterno di
Alessandra.
«Che succede?»
«Abbiamo
scelto due università diverse,
in altre città… Sei sicura di voler restare
insieme?»
«Ne
abbiamo già parlato, Alessandra…»,
sospirò Giulia, chiudendo gli occhi. «Non sono io
quella che ha dei dubbi. Io non
ho intenzione di lasciarti andare, e tu?»
Alessandra
voltò la testa, fissandola
pensierosa.
«Non
mi lascerai mai andare?»
«Mai»,
le sorrise, alzandosi di quel
che bastava per lasciarle un lieve bacio sulla fronte. «Te lo
prometto».
Quando
aprì gli occhi, Alessandra
rimase per un po’ completamente immobile, ascoltando il
proprio respiro calmarsi
e tornare regolare. Solo allora si accorse del lenzuolo che le
intrappolava le caviglie
e scalciò per liberarsene, ma era un’altra la
stretta che trovava soffocante, e
della quale non riusciva ad affrancarsi. Si alzò e raggiunse
a piedi scalzi la cucina,
mettendo sul fornello un pentolino d’acqua per il
tè. Persino in estate, persino
con tutto quel caldo non sarebbe mai riuscita a fare a meno di un
tè bollente la
mattina.
Mentre
aspettava che l’acqua fosse
pronta, si appoggiò al tavolo e fissò
distrattamente la linea indistinta del suo
profilo che le proiettava la superficie metallizzata del frigorifero.
Si sfiorò
lo stomaco, sospirando, profondamente frustrata. Di sicuro non era
questa la vita
che si sarebbe aspettata dieci anni prima: sola
nell’appartamento lasciatole dalla
vecchia zia, supplente per grazia divina, totalmente rinchiusa in
sé stessa, vittima
di un’apatia esistenziale che quasi non le lasciava
requie… No, non l’avrebbe mai
immaginato.
Erano
diversi mesi che nemmeno ci
pensava, a Giulia. Lei era il simbolo più grande del suo
fallimento personale, quindi
sostanzialmente tentava sempre di evitarne lo spettro crudele.
Il
‘ma’ della sua vita, forse l’unico.
Scosse
la testa e versò il contenuto
nella tazza bianca - così anonima, così da lei -
e vi tuffò una bustina di tè Assam.
La prese tra le mani, incurante di scottarsi, e rimase a fissare per un
po’ il lento
tingersi dell’acqua, le volute più scure girare in
cerchio fino a rendere il liquido
di un colore omogeneo.
“Te
lo prometto”.
Quante
bugie.
Buttò
la bustina e aggiunse un po’
di latte, senza mettere zucchero nel tè.
Era
il giorno del suo ventinovesimo
compleanno, e si sentiva terribilmente demoralizzata.
Quella
dove abitava era una cittadina
dalle modeste dimensioni: non troppo piccola, ma nemmeno paragonabile
ad una città
vera e propria. Fu per questo che non si stupì di trovare un
gruppetto di sue allieve
sulla propria strada, una volta uscita di casa per farsi un giro.
«Buongiorno,
professoressa!», la salutò
Teresa, la più sfacciata tra tutte. Un’allieva
difficile, una da 8 in condotta,
che era riuscita a far vedere i sorci verdi al docente di religione.
Alessandra
si voltò con un sorriso, ringraziando mentalmente di essere
una delle poche nelle
sue grazie. Molto probabilmente, nel caso opposto, sarebbe stata
apostrofata con
ben altro epiteto.
«Ragazze!
Vi state godendo il primo
giorno di libertà?», domandò loro,
sorridendo. Erano cinque, sempre loro, sempre
insieme: Teresa, Anna (che non riusciva mai a tener chiusa la bocca),
Vittoria (degna
compare di Anna), Ilaria (la ragazza più ingenua sulla
faccia della terra) e Ludovica,
che più spiccava per il suo quasi eterno silenzio. Ne
avevano discusso molto, durante
i consigli di classe; a cosa potesse essere dovuto quel suo mutismo,
quella sua
volontà di scomparire tra gli altri. Gli altri colleghi
avevano scrollato le spalle,
onestamente sollevati all’idea che almeno qualcuno di quella
terribile V C non fosse
scatenato come la classe, ma lei rimaneva poco convinta. Sentiva che
non era un
silenzio normale, o perlomeno caratteriale: era un silenzio dovuto
dall’abitudine,
un po’ come il suo.
«La
quiete prima della tempesta!»,
le rispose Teresa, con un tono a metà tra il sarcastico e
l’acido.
«Gli
esami sembrano così lontani…»,
sospirò Vittoria, e il sorriso di Alessandra si
allargò.
«Certo,
lontani… Ne riparliamo il
22», rispose, godendosi lo sguardo terrorizzato delle sue
allieve.
«Su,
su, prof…», riprese
Teresa, cominciando a tallonarla mentre attraversava
la strada, diretta al grande prato cittadino poco distante.
«Proprio non vuole dirci
quali saranno le materie della terza prova?»
Alessandra
roteò gli occhi al cielo,
scuotendo la testa.
«Non
è perché sono solo una supplente
che voi potete trarre da me ogni tipo di informazione utile!»
«Sempre
meglio di quell’acida della
Bacci, perlomeno», esclamò Anna, riferendosi alla
precedente docente di storia e
filosofia. «Quella ci avrebbe distrutti
all’orale».
«E
non è detto che non lo farò io»,
terminò Alessandra, fermandosi e facendo loro capire di
voler continuare la passeggiata
da sola. «Voi pensate a ripassare per bene, il resto
è solo questione di fortuna.
Buona giornata, e buon riposo per oggi!»
Si
voltò, sorridendo nell’udire Ilaria
lamentarsi della tipica sfortuna che l’avrebbe sicuramente
fregata all’esame, e
si allontanò in fretta. Si sentiva lo sguardo di Ludovica
addosso, e questo la turbava
particolarmente. Quelle ragazze le stavano simpatiche, ma tentava di
non dar loro
eccessiva confidenza.
“Come
ogni buon insegnante”, si disse.
“O come ogni buon codardo”, ebbe anche la cortesia
di correggersi.
«Tesoro!»,
trillò sua madre al telefono,
facendo automaticamente salire il mal di testa di Alessandra.
«Mamma.
Che piacere sentirti».
Sperò
che il suo tono fosse abbastanza
seccato da farla desistere, ma non accadde niente di quanto si
augurava. In effetti,
non accadeva mai.
«Non
mi dirai che ti ho svegliato,
vero? Sono già le otto!»
«Ma
figurati, stavo facendo giusto
ora un corso di aggiornamento per l’insegnamento»,
sbadigliò la figlia, nascondendo
la faccia nel cuscino.
«Ancora
con questi aggiornamenti?
Quando si decideranno a darti una cattedra? Hai trent’anni
ormai, è ora di farti
una famiglia, un futuro…»
Alessandra
represse l’istinto di urlare,
pensando che ci avrebbe solo rimesso l’umore della giornata.
«Una
famiglia? E con chi, di grazia?»,
rispose ironicamente, sollevandosi sui gomiti e fissando il materasso
sotto di sé.
«Ti
chiamavo giusto per questo! Ti
ricordi di Maurizio, vero? Il figlio di Luisa…»
«Mamma,
se cerchi di nuovo di accasarmi
giuro che ti chiudo il telefono in faccia. A me piacciono le donne,
mamma, le donne».
«Oh,
ma piantala con queste sciocchezze
adolescenziali! È ora di crescere, piccola, di tornare su
binari giusti, normali…»
«Per
me è questa la normalità. È questa
la mia normalità. E tu
sei pregata di
rispettarla».
I
gomiti cominciavano a dolerle, così
tornò in posizione prona, sbuffando.
«Certo
che sei proprio impossibile
come tuo padre. Cosa ti costerebbe fare perlomeno un
tentativo?»
«Hai
altro da dirmi, mamma?», sospirò
Alessandra.
«No,
nulla di che… Facciamo che ci
vediamo uno di questi giorni per pranzo, magari martedì? E
ti prego, promettimi
di pensarci».
«La
gente promette, promette, promette…
e poi non mantiene mai. Ne riparliamo più avanti, va bene?
Ciao, mamma».
Spense
il cellulare senza nemmeno
stare ad ascoltare il suo commiato, stendendosi su un fianco e
lasciando cadere
l’oggetto sul parquet.
“Te
lo prometto”.
Chiuse
gli occhi e sentì il peso
nel suo petto ingrandirsi, ancora. Non pianse, no, erano anni che non
lo faceva,
e probabilmente aveva dimenticato persino come si facesse.
Rimase
solamente a farsi
inghiottire da sé stessa, come se avesse avuto un buco nero
che pian piano si
stesse mangiando le componenti rimaste sane.
Chiuse
gli occhi e non pianse,
no, ma si chiese se quella sua eterna inerzia non fosse ben peggiore di
tutta
la rabbia del mondo.
«Cosa
c’è?», sussurrò Alessandra
nel
buio.
«Niente,
torna a dormire».
Giulia
si liberò dal suo abbracciò
e si portò più distante da Alessandra,
lasciandola priva del suo calore.
Nell’aria,
solo una litania silenziosa.
“Non
mi ami più non ti amo più non
ci amiamo più”.
Fuori
pioveva con violenza, la
corrente elettrica continuava a saltare e i vetri delle finestre
tremavano ad
ogni nuovo tuono, quasi fossero sul punto di esplodere. Alessandra si
sbrigò a
chiudere le imposte lasciate aperte e venne colpita in volto dalla
pioggia, che
il forte vento faceva quasi cadere in orizzontale. Imprecando fra
sé e sé chiuse
i vetri, domandandosi perché a giugno ci dovesse essere un
simile temporale. Ah,
già, i temporali estivi.
Ma
chi li aveva inventati?
Erano
quasi le undici di sera, e l’unica
cosa che desiderava in quel momento era di mettersi comoda a leggere
qualcosa. Sicuramente,
non udire il campanello di casa squillare.
Piuttosto
perplessa, scrutò dallo
spioncino e quello che vide le fece desiderare di far finta di non
essere in casa.
Aveva paura, ma aprì lo stesso.
«Ludovica».
La
ragazza alzò lo sguardo, smarrita,
e solo allora notò il labbro gonfio e la guancia arrossata.
«Non
volevo disturbare…», mormorò
la ragazza, stringendosi contro il borsone che portava in spalla.
«Cos’è
successo?», domandò Alessandra,
prendendole la grossa sacca e posandola sul pavimento, lasciandola
entrare. «Stai
bene?»
Ludovica
si guardò spaesata intorno,
poi riprese a parlare come se non l’avesse udita.
«Non
volevo disturbare», ripeté. «Ma
non sapevo da chi andare. Le mie amiche non sanno nulla, e quello che
sa una lo
sanno tutti e-», si bloccò, capendo di essersi
sbilanciata troppo.
«Ludovica…»
«Non
dovrei essere qui, lo so. È la
mia insegnante e tutto il resto, ma davvero non sapevo cosa
fare», mormorò, chinando
il capo come se si sentisse profondamente umiliata. E probabilmente lo
era.
«Vieni
con me», le disse gentilmente
la donna, posandole una mano sulla schiena e conducendola in bagno,
dove la fece
sedere sul bordo della vasca. La luce lì era più
forte, e illuminava quasi sinistramente
il volto malridotto dell’allieva.
«Mi
dispiace, davvero…»
«Come
te lo sei fatta?», la interruppe
Alessandra, aprendo il tappo del disinfettante e buttandone
un’ampia dose su una
garza pulita. Ludovica non rispose, e Alessandra decise di insistere.
Le posò
le mani sulle ginocchia e premette con forza, non muovendosi
finché la ragazza
non mormorò un:
«Non
voglio casini».
Alessandra
le afferrò spazientita
il volto, strofinando con troppo vigore il lungo graffio.
«Ci
vogliono dei punti di sutura,
qui non possiamo fare tanto altro. Ti devo portare al pronto
soccorso».
Ludovica
le rivolse uno sguardo
terrorizzato, e Alessandra avrebbe davvero voluto dirle che si
sbagliava, che non
era necessario, ma non poteva.
«Non
c’è altra soluzione, non puoi
rimanere in queste condizioni».
Uscì
dal bagno e iniziò ad infilarsi
gli alti stivali, così presa dai suoi pensieri che quando
Ludovica la raggiunse
silenziosamente non se ne accorse e trasalì, sorpresa.
«Non
c’è proprio altra soluzione?»
Quegli
occhi spauriti le ricordarono
altri occhi, i suoi, quando aveva ripetuto come un’eco la
stessa frase che le aveva
detto l’unica persona di cui aveva fiducia
all’epoca. Contenevano quella sorta di
fiducia inespressa che teme di venire tradita da un momento
all’altro.
Per
un attimo la sua certezza tentennò,
attaccata dal fantasma di un passato che pensava morto per sempre; ma
fu solo un
istante, perché afferrò la borsa e le chiavi
della macchina, facendole segno di
seguirla.
Agisci
sempre e solo per il tuo bene, di quello degli altri non ti interessa.
“Invece
sbagliavi, e continui a sbagliare.
Non mi hai lasciato il tempo di dimostrarti che avevi torto”.
So call
in the submarine ‘round the world will go; does anybody know
if we’re looking
out on the day of another dream?
Quando
raggiunsero il parcheggio dell’ospedale
e Alessandra spense il motore, ebbe quasi l’impressione che
Ludovica fosse svenuta.
«Sei
sveglia?», le chiese, sfiorandole
la fronte. Si era presentata bagnata come un pulcino, e nella foga del
momento la
donna non aveva neanche pensato a farla asciugare. Si sentì
improvvisamente un’idiota.
Ludovica
si mosse appena sul sedile,
a disagio, prima di voltarsi di nuovo verso il finestrino con un moto
di stizza
che fece a sua volta spazientire l’altra.
«Non
possiamo fare altro?»
«Devi
capire che io non sono tua madre,
o qualcuno da cui poter andare a piangere quando non ti va di fare
qualcosa; non
sono neanche una delle tue amiche. Sono un’insegnante, e come
tale ho il compito
di tutelare la tua salute. Quindi ora scendi senza far tante storie, o
ti porto
qui il dottore».
Non
era mai stata così dura senza
motivi più che validi con i suoi allievi, ma Alessandra si
sentiva compressa nel
suo ruolo di insegnante, e come tale sapeva di dover fare il proprio
dovere. Non
poteva assecondare i capricci di una ragazzina.
Ludovica
chinò il capo in avanti,
e per un momento la donna temette che stesse per mettersi a piangere o
addirittura
per rimettere, ma non accadde nulla. Stava semplicemente raccogliendo
l’ordine delle
sue idee, esattamente come quando a scuola la sottoponevano ad una
domanda particolarmente
difficile. Le fece tenerezza, ma fu determinata nel non cambiare
espressione o motivazione.
«Abbiamo
già avuto problemi in casa.
Mio fratello non riesce a gestire bene la morte di mio padre, sono due
anni che
si comporta male con me e mia madre. Ogni tanto si sfoga
così, ma era la prima volta
che si accaniva contro di me… Sono scappata di
casa».
Ludovica
alzò gli occhi neri sul viso
della sua insegnante, con una rassegnazione mista alla rabbia per
essere stata costretta
ad aprirsi così, con la forza. «Se io ora entro
lì dentro, avviseranno qualcuno,
forse perderà il lavoro. E io non posso permetterlo. Prima o
poi gli passerà, ma
soprattutto non posso tradire mio fratello».
Alessandra
la fissò con serietà, pensando
che non era assolutamente d’accordo con quel tipo di
discorso, ma dopotutto non
poteva costringerla ad andare contro la propria famiglia.
«E
di tua madre cosa mi dici?»
Un
velo di tristezza calò sullo sguardo
di Ludovica, ma si costrinse a rispondere con voce neutra:
«Lo ha sempre difeso.
Non vorrebbe mai lasciarlo, e mi darebbe la colpa se succedesse
qualcosa che gli
facesse perdere il lavoro».
La
donna sospirò, posando il capo
contro il poggiatesta. Eppure, c’era una sola cosa che andava
fatta.
«Devi
farti guardare. Scendi».
La
ragazza ubbidì, e insieme si avviarono
verso la grande entrata del pronto soccorso.
«Che
cosa diremo?», chiese Ludovica,
mentre un fortissimo odore di disinfettante le investiva entrambe e le
faceva storcere
il naso.
Alessandra
la guardò e abbozzò un
sorriso.
«Qualcosa
ci inventeremo».
La
donna si diresse al bancone dietro
il quale stava l’infermiera addetta. Tornò e
notò la cera pallidissima della sua
allieva.
«Andrà
tutto bene», le disse.
«Non
si fanno mai promesse che non
dipendono da noi», le rispose piano la ragazza, una frase che
la colpì tantissimo.
Non
sapendo come rispondere, le strinse
una mano.
«Cercherò
di fare in modo che le cose
vadano bene», disse. Dopotutto, i tentativi sono molto
più onesti delle promesse.
Ludovica
annuì, e ricambiò la stretta.
Forse,
però, in quel momento nasceva
più che un tentativo, più che una promessa.
Nasceva un tentativo di promessa, o
la promessa di un tentativo.
Well you
can’t get what you want but you can get me, so
let’s set up and see, ‘cause you
are my medicine when you’re close to me.
Due
anni dopo
Giunta
davanti alla villetta a
schiera, verificò che l’indirizzo segnato sul
taccuino e il numero civico della
targhetta corrispondessero, si fece coraggio e suonò. Mentre
attendeva che
qualcuno le venisse ad aprire il cancello, notò nel giardino
un’altalena, una
piccola bicicletta ed un pallone giallo, e si chiese se alla fine
Giulia non avesse
cambiato idea. Nessuno resta fedele a sé stesso, nessuno
è in grado di comprendersi
fino in fondo, o non è capace di sopportare il peso di
ciò che è. La
considerazione la rese triste, ma proprio in quel momento si
aprì la porta di
casa e spuntò una donna castana, che restò ferma
sulla soglia, senza
avvicinarsi al cancello.
«Desidera?»
Alessandra
aveva immaginato varie
volte, nel corso degli anni, come sarebbe stato un suo nuovo incontro
con
Giulia, e se ci sarebbe stato. Di
sicuro, l’idea di un’altra ad accoglierla non
l’aveva mai sfiorata.
«Cerco
Giulia. Sono…» Un’amica?
La sua precedente amante? «Sono una sua vecchia
conoscenza».
L’altra
valutò un paio di secondi
la risposta, poi con un sorriso venne ad aprirle il cancello,
conducendola fino
dentro casa.
«Giulia?
Hai visite!»
La
prima cosa di cui Alessandra si
accorse, però, non fu la donna con le gambe raccolte sopra
al divano, quanto la
bambina stesa sul tappeto a disegnare.
«Ciao,
Alessandra».
Alzò
lo sguardo, turbata, ed
incontrando gli occhi scuri dell’altra sentì per
la prima volta il panico. Cosa
ci faceva lei, lì? Cos’era venuta a fare? Poteva
solamente disturbare la
serenità di qualcuno che l’aveva sbattuta fuori
dalla sua vita tanto tempo
prima. Quasi leggendole nel pensiero, Giulia incalzò:
«Hai
bisogno di qualcosa?»
L’altra
la fissò spaesata, poi guardò
la bambina.
«Volevo
solo rivederti. È da
parecchio che non ci incontriamo».
Come
se fosse infastidita
dall’attenzione rivolta alla piccola, Giulia si
alzò e accarezzò la testa della
bimba a terra.
«Ti
va di giocare un po’ fuori con
zia Mara, tesoro?»
Mara
sollevò interrogativamente
un sopracciglio in direzione di Giulia, ma non commentò,
prendendo per mano la nipote
e aprendo la porta-finestra che dava sul giardino, uscendo
nell’assolata giornata
di maggio.
«E
ora dimmi cosa vuoi».
Il
tono di Giulia era gelido, distante.
Alessandra si chiese davvero cosa si aspettava di diverso, e si diede
della
stupida per questo.
«Volevo
rivederti, te l’ho detto.
Sono anni che abbiamo preso strade diverse, ero curiosa di vedere che
fine
avessi fatto».
Giulia
la guardò con
commiserazione, e il cuore di Alessandra si restrinse dolorosamente.
Cosa si
era aspettata? Che l’avrebbe accolta con un sorriso ed un
abbraccio?
«Sempre
egoista come al solito,
vero, piccola? In questo non sei cambiata affatto». Giulia si
rialzò dal
tappeto e tornò a sedersi sul divano, incrociando le
braccia. Alessandra sentì
gli occhi pizzicarle, un improvviso freddo la fece rabbrividire.
«Sono
venuta a vedere la tua vita
senza me», ammise, con uno strano atto di
sincerità che non le era proprio.
Restarono
in silenzio per un po’,
ad osservarsi come si osservano due animali che riprendano fiato dopo
un primo scontro,
feriti, doloranti. Uno scontro che forse durava da anni e che nessuna
delle due
aveva mai vinto davvero.
«Hai
perso questa vita. Hai perso una
donna che ti adorava, una nipote da
crescere, la serenità. Io invece non ho perso
granché, probabilmente ci ho solo
guadagnato».
«È
la figlia di tua sorella Simona?»,
le domandò Alessandra, ricordando con un moto di affetto
quella ragazzina pallida
che le spiava curiosa da dietro le finestre di casa sua, quando si
baciavano in
giardino.
«Già».
«Ti
assomiglia tantissimo».
Giulia
posò il capo contro lo schienale
del divano.
«Vattene.
Mi hai fatto già male una
volta, ora non tentare di rovinare quel poco di buono che ho».
Alessandra
sospirò, e finalmente fece
quello che doveva fare da una vita.
«Ti
chiedo scusa».
«Grazie,
ma non me ne faccio assolutamente
nulla. Vattene».
La
donna annuì e tornò sui suoi passi.
“Una
totale perdita di tempo, nient’altro
che questo”, si disse con rabbia, salendo in macchina.
Quando
entrò in casa c’era una sola
luce accesa, quella della camera da letto.
«Com’è
andata?», le domandò Ludovica,
sentendo il rumore della porta. Alessandra la raggiunse, sfilandosi i
sandali e
sedendosi sul letto pieno dei fogli e degli appunti della ragazza.
«Un
disastro».
«Le
hai detto quello che volevi dirle?»
Alessandra
annuì, prendendosi il volto
tra le mani.
«Ho
fatto una tale sciocchezza…»
«Nessuno
ti dava la garanzia che sarebbe
andata bene», le rispose Ludovica, raccogliendo i fogli e
posandoli per terra, avvicinandosi
alla donna. «Ma hai fatto comunque ciò che dovevi.
Hai fatto il tuo dovere».
Le
strinse una mano, per infonderle
quello stesso coraggio che da anni si promettevano (o meglio, tentavano
di promettersi)
di avere. Alessandra si voltò e le accarezzò una
guancia.
«Grazie
per essere rimasta comunque».
«Dovere»,
sorrise Ludovica, prima
di baciarla.
Due
anni prima, dopo la maturità di
Ludovica, Alessandra aveva ricevuto una lettera di Ludovica, che nel
frattempo si
era trasferita dagli zii che abitavano a diverse decine di chilometri
da lì. Il
contenuto l’aveva commossa, ma si era ripromessa di non darle
spago; dopotutto,
pensava, si trattava solo di una cotta.
Poi
però Ludovica aveva cominciato
a farle visita, costantemente, senza pretendere da lei
nient’altro che un’ora di
chiacchierata ogni settimana. Lei, così silenziosa,
finalmente si apriva.
Senza
neanche accorgersene, Alessandra
aveva smesso di vederla come un’allieva e aveva iniziato a
vederla come una giovane
donna iscritta a Giurisprudenza, che aveva preso in mano la sua vita e
sapeva quindi
cosa farne. Senza neanche accorgersene, avevano finito con il fare
sempre più tardi,
la sera, ad incontrarsi anche fuori quegli appuntamenti prestabiliti.
Erano finite
a condividere quella casa e quella stessa camera durante i weekend.
Le
piaceva da morire quel suo modo
di baciarla. Le veniva incontro e non riusciva a fare a meno di
toccarla, di sentirla
sotto le dita, le braccia, lo stomaco. Ludovica doveva riuscire a
sentirla sua in
maniera quasi morbosa quando facevano l’amore, forse per
trasmetterle tutto quello
che sentiva.
Si
stese sotto di lei, lasciandosi
baciare sul collo e massaggiandole la schiena, sospirando e sentendo
premere da
sopra gli shorts la coscia sinistra della compagna. La aiutò
a togliersi la canottiera
e si sfilò la camicetta, tornando quindi supina e
graffiandole inavvertitamente
il fianco che le aveva stretto. Ludovica si chinò a baciare
prima il suo seno, senza
però scoprirlo, quindi l’addome, fino al bordo dei
pantaloncini. Le infilò una mano
da sotto il bordo inferiore destro, arrivando subito alle slip che
scostò, accarezzando
con due dita la pelle umida e terribilmente pulsante, almeno per
Alessandra. Riprendendo
a baciarle lo stomaco, cominciò a stuzzicarle le grandi
labbra con indice e pollice,
finché non entrò dentro di lei. Alessandra rimase
senza fiato, un po’ per il caldo
soffocante, un po’ per il momento; chiuse gli occhi e spinse
il bacino contro la
compagna, sentendo il cuore accelerare.
«Mi
dici cos’hai?», le chiese Giulia,
scostandosi irritata da lei.
Alessandra
la fissò e mormorò:
«Non
ci riesco più, non è possibile
continuare a stare insieme se riusciamo a stare bene solo quando siamo
in intimità.
Non funziona così».
Le
pupille di Giulia si allargarono,
mentre assumeva un’espressione impaurita.
«Vedrai
che riusciremo ad aggiustare
tutto, è solo un periodo, può
capitare…»
Alessandra
annuì, ma il suo cuore
era distante.
Ludovica
le prese una mano dopo il
suo orgasmo, facendole capire cosa desiderava, e Alessandra le
posò un bacio sulla
tempia, prima di rovesciare le posizioni.
«Ti
avevo detto di passare a prendere
anche quel saggio di francese, lo sai che era
importante…», la rimproverò Giulia,
e Alessandra sentì qualcosa rompersi dentro di
sé. Qualcosa che sarebbe rimasto
rotto per molti anni.
«Non
posso tenere a mente tutte le
sciocchezze che dici!», sibilò, con le lacrime
agli occhi, consapevole della sua
cattiveria, della loro cattiveria.
Alessandra
la baciò a lungo, prima
di stendersi accanto alla compagna. Ludovica la abbracciò e
le accarezzò il braccio,
stretta a lei.
«Ora
sei pronta per piangere?»
La
donna la fissò. E poi, quasi come
fosse un miracolo, sentì le prime lacrime affacciarsi agli
occhi.
«Sì».
«Non
ti amo più».
Giulia
annuì.
«Lo
sapevo già da tempo».
«Mi
sono perdonata».
If you
can’t get what you want then you come with me.
Note personali:
Questa
storia si è classificata seconda
al contest “Il Triangolo No!” indetto
sull’EFP Forum.
Sono
molto contenta della posizione,
dato che non è uscita come avevo sperato: diciamo che quasi
tutta la storia è rimasta
incastrata nella mia testa, e non ne è uscita. Questo
è solo un breve estratto,
con un finale molto più positivo di quello che inizialmente
gli avevo dedicato.
Faccio
i miei complimenti alle altre
partecipanti e alla prima classificata, ovviamente, e ringrazio le
giudici per i
giudizi (ho corretto gli errori segnalati)! A presto ♥
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