Non le piaceva ricevere quelle spintarelle –benché
leggere- dai propri genitori, pensava di essere
stata abbastanza chiara.
Ma i coniugi Roth non consideravano spintarella convincere un loro
datore di lavoro ad affidare l’incarico alla figlia, no: era
solo un onesto e
sincero consiglio mirato a far emergere la valida e notevole
professionalità di
una psicologa che stimavano molto.
Sì, ci sapevano fare con
le parole e sì, loro adoravano
esercitare quel loro
indiscusso potere ascendente.
Per qualche assurdo motivo credevano
di aver utilizzato quel
loro potere, anni orsono, anche su di lei spingendola a varcare la
soglia del loro vecchio college e
seguire le loro stesse orme.
Loro, loro, loro.
Da quando aveva tredici anni
–ed intrapreso quella tortuosa
e infelice fase denominata adolescenza- ogni litigio si concludeva con
una sua
invettiva: smettetela di psicanalizzarmi!
Sebbene Gloria Roth e Rio Roth
fossero dei famosi e
strapagati psicologi, non erano mai riusciti a capire la figlia.
Probabilmente
perché –come sempre- le cose avevano una diversa e
distorta prospettiva se si
osservavano troppo da vicino.
Così, pervasi da uno
stupido senso di colpa, cercavano in
tutti i modi di far lavorare la loro unica figlia, vittima
del loro abbagliante successo, appena uscita dal college.
La loro superbia era troppo radicata
per fargli comprendere
che no, non aveva scelto il loro dannato college per una qualche sorta
di
idolatria. Semplicemente le piaceva.
I suoi amici le avevano di continuo
domandato se credeva
seriamente che la psicoanalisi fosse valida perché, secondo
la loro scanzonata
opinione, non valeva un penny, anzi – aggiungevano
ridacchiando- valeva molti penny
solo per coloro che
disegnavano ghirigori sul taccuino a scapito dell’illuso
sdraiato sul divano. Lei
puntualmente sospirava e alzava le spalle: era ovvio che la
psicoanalisi fosse
valida fino ad un limitato punto e
la
maggior parte delle volte serviva semplicemente a dare delle
giustificazioni a
dei comportamenti umani, sgravando il paziente da quel macigno di
responsabilità e dando un posto di rilievo ad un presunto
lavoro
dell’inconscio.
Poi sorrideva e scuoteva la testa,
ammettendo che proprio in
questo non c’era nulla di male: permetteva alle persone di
sentirsi meglio, di
conoscersi meglio e, soprattutto, di migliorarsi.
Probabilmente peccava come i genitori
–in fondo buon sangue non
mente- di megalomania,
ma amava vedere i pazienti progredire verso ciò che
avrebbero voluto essere e
verso ciò che li avrebbe resi delle persone quanto
più vicine alla felicità.
Lanciò uno sguardo
impaziente all’orologio da parete che
segnava le cinque del pomeriggio, poi al piccolo tavolino imbandito che
dava ad
ogni seduta il benvenuto ai magnifici
cinque.
E’
un caso difficile,
così l’avevano avvertita i genitori.
Non per la
psicologa
che stimate, dotata di una valida e notevole professionalità,
rispose lei.
Così l’argomento
non fu ripreso, ma le problematiche continuavano
ad eccedere: dopo circa sette sedute, nessun miglioramento era
all’orizzonte.
Il caso Lowener aveva destabilizzato
e attirato come api al
miele l’opinione pubblica per settimane intere, e
l’eco del dramma di era
sentito quasi in tutte le nazioni, anche sotto forma di trafiletto
nelle
notizie dall’estero.
Un uomo sull’orlo del
baratro –forse anche di gran lunga oltre
l’orlo- cercò di rapinare la banca
che gli aveva pignorato la casa: per molti quello fu un assurdo
mercoledì
mattina alla banca più sicura del paese, degno dei migliori
film thriller. Dopo
le prime negoziazioni, durate per ore ed ore, rimasero solo cinque
ostaggi all’interno
che, a conclusione della vicenda, non riportarono ferite gravi ma,
furono
testimoni del macabro suicidio del signor Lowener.
La banca aveva dunque incaricato i
celeberrimi coniugi Roth
di occuparsi della riabilitazione psicologica dei cinque clienti.
Ma non
facevano alcun
progresso, sospirò stanca.
Pescò dalla sua maxi-bag
il barattolo che aveva preparato
per l’ultima sessione di terapia: se c’era una cosa
che aveva compreso dalla
sua limitata esperienza e dai suoi massacranti studi era che
l’essere umano
aveva un profondo bisogno di credere al destino.
Ciò succedeva sia per gli
eventi lieti –chiamasi predestinazione-
che per le disgrazie: infondo se fossero state prestabilite e dunque
inevitabili nessuno avrebbe potuto sentirsi responsabile o capace di
poter cambiare
il corso del destino.
E lei aveva deciso che avrebbe creato
per loro un destino.
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