Martedì.
Sappiate che questa storia non ha senso, l’ho scritta solo
perché non volevo rendere malinconico il capitolo
di BRAINSPIN.
Non so se merita la pubblicazione ma El
dice di sì e, siccome sostiene di essersi innamorata di
questo Louis, gliela dedico. ♥
Potete odiare questa cosa, ve lo concedo, perché
l’ho concepita (e
per metà scritta) da ubriaca mentre vagavo in bicicletta.
So, enjoy it.
Martedì
Louis Tomlinson era sulla bocca di tutti da un anno a questa parte.
Il suo nome fluiva dalle labbra dei curiosi, scorrendo tra la folla,
nei corridoi della Hatfield, infrangendosi contro gli armadietti di
latta.
Ogni secondo giorno della settimana, a scuola finita, rotolava
giù dalla scale in modo rumoroso, nel vano tentativo di
zittire
le voci.
Chiavi del garage tra le dita eleganti, graffiate dal manubrio di
quella bici rubata, che inforcava ogni martedì come da
rituale.
I buchi delle scarpe di tela sui pedali, scivolava in strada sbandando
verso la periferia, invadendo le altre corsie, come per provare a se
stesso di come fosse ancora in grado di infrangere le regole,
nonostante quello che era successo.
Pedalava in piedi perché si rompeva letteralmente il culo
sul quel sellino di merda.
Il vento gli scompigliava il ciuffo, di cenere le ciocche divise sulla
fronte lucida, la pelle sbucciata contro l’aria sotto la polo
rossa.
Gli piaceva valicare i margini della città perché
la
periferia era in discesa e non doveva faticare poi questo
granché per arrivarci.
Muoveva i pedali giusto per svoltare, quelle rare volte in cui non
decideva di rischiare, contromano nelle strade a senso unico, con quel
tramonto che, tardivo in estate, gli faceva pizzicare gli occhi di
vetro.
Tutte le volte combatteva contro l’asfalto sterrato male, per
sgommare a ridosso del cancello scuro in ferro battuto.
Harry diceva sempre che le inferriate di quel portone gli sembravano
delle liquirizie.
Masticava un chewingum senza sapore, torturandolo tra i denti che, se
solo ne avesse avuto voglia, sarebbero potuti essere più
bianchi.
Gli piaceva andare laggiù, discendere la strada principale
incurante che sarebbe diventata, poi, una salita, perché le
cicale erano l’unico inquinamento acustico di cui le sue
orecchie, già sanguinanti, si sarebbero potute lamentare.
Sua mamma diceva che Louis le voci le aveva dentro la testa, ma era
quasi sicuro che fosse colpa delle bocche che mormoravano appannando i
vetri delle macchine, delle finestre, dei suoi occhi.
Abbandonava la bici un po’ dove capitava, scavalcandola,
graffiandosi, quasi sempre, perché portava i jeans
arrotolati
sui polpacci sottili.
Sospirava, sgonfiando il petto, incurvando le spalle sotto un peso che
era sicuro di non meritare.
Erano ormai due anni che Louis pedalava lasciandosi trasportare fino al
cimitero, dove ogni martedì aveva appuntamento con Harry.
Quel ragazzino riccio lo aveva beccato con l’occhio curioso
tra
le docce negli spogliatoi e per paradosso gli aveva chiesto di uscire.
Anzi, se la verità vuol essere detta, Harry gli si era
avvicinato e gli aveva sputato in faccia un ‘Se vieni al
cimitero
vicino all’ospedale ti faccio una sega’.
E Louis, che era stanco di consumarsi le mani sul suo cazzo, disse
semplicemente ‘Quello in periferia?’
Insomma, finiva tutte le volte a sistemarsi il capelli arruffati
all’entrata di quel posto, che di lugubre non aveva proprio
nulla.
La prima volta si era trovato seduto sulla tomba di uno sconosciuto, e
mentre la mano grande, enorme, di Harry lo avvolgeva completamente
continuava a fissare il nome Eleanor
Calder inciso sulla lapide di fronte.
Gli aveva soffiato sulle labbra rosse, incurvate appena, per
ringraziarlo, dopo che proprio quello, con una malizia accennata ai
lati della bocca, gli aveva permesso di venirgli tra le dita sicure.
Si era sentito per la prima volta nel petto quella cosa che tutti sono
soliti chiamare cuore, soprattutto quando le fossette di quel Harry
Styles si erano increspate sotto i suoi morsi.
Seduto sul bacino di quel ragazzo gli aveva sussurrato sulla bocca
mille segreti vergognosi senza far fiatare una parola, gli si era
strusciato addosso tenendosi tra i suoi capelli morbidi; non seppe mai
se quello sconosciuto, che poi si trasformò nel suo impegno
di
ogni martedì, fosse venuto nei pantaloni come aveva
sospettato.
Era un ragazzo di parola, perché era preciso, Jay, sua
mamma, lo
diceva sempre, e non gli piaceva far aspettare l’unica
persona
che avrebbe atteso il suo arrivo all’infinito.
Trovava quel ragazzino, che assurdamente all’anagrafe
reputavano
più piccolo di lui, seduto su quella tomba di cui non si
degnò di conoscere il nome fino a quando non rimase
più
nessuno che vi ci sedesse sopra, oltre a se stesso.
Harry lo aspettava con gli occhi verdi, fili d’erba in quel
prato
inglese che li circondava, e delle volte aveva già
i
pantaloni slacciati, la cintura sul terriccio abbandonata, quando
voleva che Louis si chinasse su di lui per prenderglielo in bocca.
Spesso il riccio si rannicchiava su di lui, e le ombre gettate da quei
pezzi di pietra sparsi ovunque si allungavano veloci, marionette del
sole che scompariva, inesorabile.
Stavano seduti, entrambi, sul marmo bianco di fronte ad Eleanor Calder,
la quale, per inciso, era una a cui la vita non aveva sorriso, ma la
morte lo aveva sicuramente fatto visto lo spettacolo che ogni
martedì aveva l‘opportunità di godersi.
Starnutiva sempre contro i capelli di Harry, perché i ciuffi
castani ribelli gli solleticavano il naso e questo rideva con
l’emozione che travolgeva ogni pigmento della sua pelle di
porcellana.
Louis sapeva quanto fosse fragile, ma certo non avrebbe immaginato mai
che quella testa di ricci morbidi si sarebbe potuta sgonfiare sotto un
calcio, come un pallone bucato.
Harry portava sempre un orologio, un accessorio dalla dubbia
utilità, visto l’Iphone nero che teneva sempre
stretto tra
le mani, ma il più grande trovava eccitante l’idea
di un
oggetto concepito solo per scandire, per ricordare quanti infiniti
minuti ci separassero dalla morte.
'Infiniti' per quanto poteva valere questa parola, la cui accezione,
Louis, reputava fosse così relativa e vaga da fargli venire
le
vertigini.
Si faceva largo tra le lapidi calde, arroventate dal sole, e
già
si figurava le mani dure di Harry sul suo collo, tenaci mentre gli
tiravano la testa indietro aggrappandosi ai suoi capelli lisci, solo,
per poter far gocciolare la sua voce amara sul collo di Louis.
Camminava, e le scarpe di tela erano biscotti inzuppati nel fango, ma
l’elettricità già lo aveva fulminato
perché
poteva percepire il fiato caldo del riccio dietro le spalle.
Le mani sul cavallo dei suoi pantaloni, esperte, voraci come non
dovrebbero essere quelle di un ragazzo dall’involucro
immacolato
come Harry.
La pancia già gli scottava sulla lapide calda, e le labbra
secche quasi sudavano al pensiero del più piccolo contro di
lui
che gli faceva andare a fuoco il culo, e con esso tutta la carta
straccia della sua vita.
Alla fine, Louis che le voci non poteva proprio smettere di sentirle,
si sedeva sulla tomba e guardava Eleanor, la salutava, si abbassava la
zip e un soffio sottile tra le labbra sincere riempiva il gracidare
nell‘aria.
Stridevano gli sguardi di fiele nelle orecchie di Lou,
perché
avrebbe dovuto impedire a Harry quel giorno di tirarlo a sé
dal
colletto della maglia, di modellarselo tra le braccia e di violare il
loro segreto baciandolo mentre gli occhi sbagliati passavano.
Avrebbe dovuto immaginare che non si può salvare nessuno se
non
si ha voce, se non ci si può muovere e, mentre in mille modi
Harry scompariva sotto il suo sguardo tra la calca di mille cento altri
corpi, Louis non ci aveva potuto fare nulla.
Perso in un mare di parole che le persone non avevano il coraggio di
dirgli, infilava la mano dentro i propri boxer, denti a solcare le
labbra
gentili, gocce di ricordi ai lati delle palpebre annoiate.
Louis avrebbe voluto avere gli occhi di vetro condensati, infranti,
graffiati per smettere di guardare un mondo fin troppo pieno di posti
vuoti di Harry.
Ginocchio piegato, tallone al bordo della superficie rialzata della
tomba e l’altra gamba distesa addormentata, Louis impegnava
le
sue mani perchè non gli rimaneva altro da fare.
Portava un dito dentro la sua bocca, perché le mani di Harry
erano sempre lì a giocare che gli ordinavano di succhiare, e
il
polso veloce anche se il suo tocco non era un paragone fattibile, la
fantasia
di Louis doveva faticare.
Groppo in gola, quando l’orgasmo arrivava, quando prepotente
ricordava che non c’era più nessuno che leccasse
lo sperma
dalle sue mani, che gli sussurrasse un bacio sulla fronte, che
vomitasse un ‘ti amo’ sbucciando un preservativo,
che
sorridesse come un gatto quando Louis, con voce zuccherata, celava male
un gemito.
Ad osservarlo c’era solo Eleanor Calder, e a sua madre diceva
che
era lei la ragione per cui ogni martedì pedalava fino al
cimitero, e non per quel ragazzo che aveva detto a tutti di aver
trovato morto ai piedi del cancello di liquirizia.
Quando finiva era d’abitudine voltarsi sempre,
perché
finalmente la tomba su cui il suo cuore aveva battuto un colpo, per la
prima volta, non era più di uno sconosciuto.
Se ne era fregato che quella lapide recitasse il nome di un certo Simon Cowell, Louis
ci aveva attaccato una foto di Harry, perchè non gli
importava dove lo avessero portato, per lui era lì.
Trovava strano come avesse vissuto più in un luogo di morte,
che nei luoghi di vita dei suoi 19 anni.
Non era rimasto che il martedì con il suo tramonto
incipiente e
le voci che gli ricordavanocome fosse meglio essere bugiardi; con quel
Harry
Styles per cui Louis non avrebbe smesso mai di pedalare,
giù,
fin fuori Doncaster, perchè, anche se aveva le vertigini e
la
nausea a pensarci, lo sapeva che quel ragazzo con i ricci riposati
sulla fronte, le fossette impresse a carboncino e la
sincerità
marchiata nello sguardo lo avrebbe aspettato all'infinito.
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