Capitolo diciassettesimo
La notte dei miracoli
~ Napoli, 06 maggio 1872 ~
Applausi.
I lumi che venivano riaccesi scacciarono via le ombre ed Erik si
sentì quasi in dovere di voltarsi e sparire insieme a loro.
Perché anche lui era un'ombra, una mano che muoveva i fili,
il trucco dietro la magia che non va svelato.
Svanito il suono dello scrosciare degli applausi, non c'era
più nulla per lui.
Il teatro vibrò di voci e risate per lunghi minuti mentre la
gente usciva, camminando lentamente per riempirsi il più
possibile gli occhi della meraviglia che aveva appena fatto in tempo ad
assaporare.
Ora che l'incanto era finito, Erik non aveva voglia di restare ad
ascoltare la normalità riprendere possesso di quel luogo.
Lui non era fatto per la normalità.
Si diresse a grandi passi verso il suo ufficio, ma un attimo prima di
raggiungere l'anticamera il passo gli fu sbarrato da una donna.
«Maestro!» esclamò lei, con gli occhi
che scintillavano di ammirazione.
Erik la squadrò cercando di non apparire troppo infastidito.
Qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto conoscerla, che certamente
l'aveva già vista altre volte, ma non aveva idea di chi
fosse. Qualcuno di nessuna importanza, evidentemente, se in tutto quel
tempo non era riuscito a imprimersi nella memoria il suo viso e il suo
nome – e soprattutto la sua posizione.
Si trattava di una ragazza di poco più di vent'anni, con una
massa di capelli rossi e ricci e il viso pallido puntellato di
lentiggini. Era bassa e minuta, molto magra, dalla vita incredibilmente
sottile, tanto che la crinolina dell'abito la faceva sembrare un
pallone aerostatico, di quelli che si vedevano nei disegni sui
giornali.
L'uomo si costrinse alla sua maschera di cortesia e fece un mezzo
inchino, troppo sbrigativo per essere davvero cortese.
«Non vi ricordate di me, lo so» disse la ragazza,
senza però mostrarsi piccata. «Mi chiamo Cecilia,
Cecilia Mauriello».
Il nome non lo aiutava per nulla a rammentare.
«Dovete perdonarmi, signora, ma non riesco a riportare alla
mente chi voi siate» fu costretto ad ammettere. Detestava
sembrare stupido ed essere colto impreparato, ma la ragazza gli aveva
letteralmente sbarrato il passo e non sembrava voler lasciarlo andare.
Di solito le persone si trovavano a disagio con lui. Lei sembrava
più che altro emozionata di potergli parlare e questo, in un
altro momento, avrebbe persino potuto gettarlo nel panico. O sembrargli
estremamente divertente.
«Non sono una signora, non ancora. Mi sposo il mese
prossimo» precisò lei. Come se al suo
interlocutore la cosa dovesse apparire di una qualche rilevanza
– perché secondo le regole di quel gioco che Erik
stava giocando fin da quando era entrato al San Carlo, davanti a certe
notizie una persona dovrebbe mostrarsi interessata e compiaciuta.
«Congratulazioni».
Ora era Erik a sentirsi a disagio. La ragazza allargò il suo
sorriso contento.
«Scusate, vi sto importunando» disse scuotendo la
testa. «Solo che vi ho visto venire qui e... oh, desideravo
da tanto presentarmi».
«E lo avete fatto».
Ora, lasciatemi in pace.
«Sono la sostituta della primadonna» aggiunse la
signorina Mauriello, finalmente decisa a dare qualche spiegazione che
fosse di una qualche utilità.
Oh, ecco perché Erik aveva la sensazione di averla
già vista, di sicuro l'aveva intravista girovagare per il
teatro.
«Una sorte infame, essere la sostituta della
Rovesti» continuò la ragazza scuotendo la testa.
«Ad ogni modo, ho assistito alle prove. Lasciatemi dire,
senza timore di sembrare ruffiana, che siete la cosa migliore che sia
capitata a questo teatro da diversi anni a questa parte. E la serata di
oggi! Oh, l'ho gradita molto».
Erik si ritrovò a sgranare gli occhi. Non era abituato per
niente ai complimenti, non a quelli così diretti e
sfacciati, eppure era davvero certo che la ragazza non stesse facendo
la ruffiana, quello sembrava il suo modo naturale di fare. E lo
infastidiva non poco.
«Vi ringrazio, signorina Mauriello» le rispose
tuttavia, con un po' più di calore nella voce.
Lei sorrise ancora e fece una piccola riverenza,
«Vi auguro buona serata, Maestro»
«Altrettanto».
Erik restò a fissare la ragazza allontanarsi lungo il
corridoio, in un fruscio di sete e nastri di raso, con lo sguardo alto
e sicuro proprio di una giovane a cui la vita ha cominciato a
sorridere. La seguì con lo sguardo fino a quando non
sparì nella penombra.
Che strana giovane...
Stava già per aprire la porta del suo ufficio quando
sentì il rumore di uno scalpiccio avvicinarsi rapido,
qualcuno che stava correndo – si sarebbe potuto dire a
perdifiato – sul marmo del lungo corridoio che dal foyer
conduceva agli uffici.
Non fece in tempo a sollevare lo sguardo che una piccola ombra emerse
dal buio e gli si avvinghiò ai fianchi.
La piccola Luisa era troppo bassa per arrivare a cingergli le spalle,
ma la fanciulla adesso gli si era gettata addosso, stringendosi a lui e
aveva affondato la testa nella stoffa del suo panciotto.
Erik sollevò un attimo lo sguardo, quasi frastornato da
quell'assalto affettuoso. Vide Lucia, in piedi sotto l'arco che
immetteva nell'anticamera, se ne stava con le braccia incrociate sul
petto e il fianco appoggiato al muro, e lo guardava con un sorriso
strano, come se fosse fiera di lui.
L'uomo fu costretto a sollevare Luisa tra le braccia, lei gli
posò la testa sulla spalla e restò stretta a lui,
incapace di staccarsi, non riuscendo a fare niente che esprimesse la
sua più totale gratitudine.
Un pensiero quasi molesto folgorò la mente di Erik. Non
aveva mai tenuto tra le braccia una bambina – anche se Luisa
era un po' più che bambina. Il suo sguardo cercò
quello di Lucia, che continuava a sorridergli. L'uomo quasi
arrossì chiedendosi quanto dovesse apparire buffo in quel
frangente... ridicolo, persino. Perché lui non era fatto per
la normalità, e nemmeno per la tenerezza, perché
lui era solo un fantasma e i fantasmi non hanno calore da regalare al
mondo.
Ma per quanto continuasse a ripeterselo, per quanto sostenesse di
esserne convinto, l'abbraccio di Luisa e il sorriso di Lucia erano
là a smentirlo.
Ci vollero diversi minuti prima che la figlia del duca decidesse di
averne abbastanza. Si staccò da lui e gli posò un
sonoro bacio sulla guancia lasciata scoperta dalla maschera. Erik quasi
trasalì e quando la rimise a terra ebbe un brivido, come di
freddo, come se lontano dal contatto con un altro essere umano il gelo
dei fantasmi celati nelle ombre tornasse a circondarlo.
«Tuo padre si starà chiedendo dove sei
finita» disse Lucia, tendendo una mano verso la ragazzina.
Luisa lanciò un'ultima occhiata a Erik, poi si
voltò e si allontanò di malavoglia per tornare
verso il foyer.
Lucia aveva una bella stola di raso che si intonava al suo abito. La
dispiegò e se la gettò sulle spalle.
Stava per voltarsi verso di lui e salutarlo, ma Erik non le
lasciò il tempo.
«Restate» disse. Era una richiesta, non un ordine.
Non aveva alcun potere su quella giovane donna e questo lo rendeva
ancora più confuso. Ancora non era riuscito a chiarire con
se stesso se quell'assenza di potere fosse un bene o un male.
Non avrebbe mai ammesso che non aveva voglia di restare da solo, lui
che con la solitudine ci era cresciuto, tanto da essere riuscito a
farne una corazza; il vuoto e il buio erano la sua inespugnabile
fortezza, ma da quando era arrivato in quella strana città
le mura delle barricate avevano cominciato a coprirsi di crepe, come se
l'aria del mare le avesse consumate, come se il vento che portava voci,
colori e sapori le avesse levigate, rese più fragili. Ed
Erik odiava sentirsi fragile e indifeso.
Ma quella sera era diverso, quella sera niente aveva importanza. Mentre
ogni bocca della città mormorava ammirata il suo nome e lui
avrebbe continuato a sentirsi poco meno di un ombra senza qualcuno che
gli restasse accanto; e non c'era nessun altro ad eccezione di quella
giovane donna dallo sguardo che conosceva troppe cose.
Lucia lo guardò per qualche secondo, corrugando le
sopracciglia, ma non disse niente, si limitò ad annuire e
lui le tese la mano, facendole strada fino alle sue stanze.
Mentre il palmo della ragazza si richiudeva attorno al suo, Erik si
chiese per l'ennesima volta se non fosse del tutto assurdo. Se quella
città non lo avesse, in fin dei conto, fatto impazzire.
Sei sempre stato folle,
Figlio del Diavolo...
Sì, lo era sempre stato. Folle come il fuoco a cui aveva
dato in pasto il suo teatro. Come il suo cuore che batteva contro il
petto così violentemente da annebbiare la mente.
Della follia aveva conosciuto solo la parte peggiore, quella che induce
a fare del male, quella che porta alla disperazione.
Perché?
Esistono forse altri tipi di follia?
Erik non conosceva la risposta a questa domanda, sapeva solo che era
ingiusto il fatto che in quel momento stesse guardando la ragazza come
si guarda un nemico.
Potresti farle del male,
Fantasma dell'Opera...
La voce nella sua testa soffiò le parole come il vento
freddo delle mattine d'inverno. Come la nebbia che strisciava
silenziosa e invadente quella mattina gelida, in quel cimitero, quando
lui si scagliò con tutta la sua rabbia e il suo furore
contro quel giovane che voleva portarle via la sua dolce musa. Si
avventò contro di lui cieco di rabbia, con la spada in
pugno, e fu l'inizio della sua sconfitta.
Ma ora tutto era diverso. Non era più Parigi, non era
più l'Opera Populaire, non c'erano più
né angeli né muse. C'era solo...
… una
prostituta. E potresti davvero farle del male. Oppure lei potrebbe
farne a te.
Erik strinse un po' più forte la mano della ragazza nella
sua.
Non era una follia e non c'era niente che potesse fare male. I
sentimenti possono uccidere, ma lì non c'era nulla di
più di uno strano scherzo del destino che aveva voluto
incrociare due storie così lontane, due mondi distanti che
si sfioravano appena senza mai entrare in collisione.
Sul serio? Allora mandala via.
Da quando in qua la voce dei suoi pensieri era diventata
così petulante e infida? Da quando in qua la sua mente lo
sfidava e lo metteva alla prova? Non aveva nulla da dimostrare.
Nemmeno a te stesso, Fantasma?
Nemmeno a se stesso.
Sei un folle...
No, non lo era!
… e soffrirai
ancora.
No, mai più, per nessuno. Non aveva un cuore, come e
perché avrebbe dovuto soffrire?
«Erik, vi sentite bene?» domandò Lucia
all'improvviso.
«Benissimo» replicò lui in tono formale.
«Vivete davvero qui» osservò la ragazza,
guardandosi attorno dopo che lui ebbe acceso un lume. «Per
essere un genio, vi accontentate di poco».
«Chi ha mai detto che io sia un genio?».
La ragazza si voltò verso di lui, aggrottando le
sopracciglia con aria saputa.
«Ogni vostra azione, da quando siete arrivato qui,
direi» rispose con un sorriso furbo, avvicinandosi in quel
modo che faceva sempre sentire Erik come un tiro di dadi giocato male.
Oh, no, non era la sua solita maniera da seduttrice, era qualcosa di
strano e di diverso, molto meno minaccioso e più
impaurito. Sembrava
che per una volta fosse lei a sentirsi fuori posto. Che
stesse cominciando a provare della tenerezza per lui?
L'uomo rispose con poca convinzione quando la giovane donna
posò le sue labbra sulle sue. Lucia ebbe uno strano sussulto
e allontanò il viso da quello di lui; c'era uno strano
accenno di pena nei suoi occhi scuri e a Erik fece male vedere
quell'ombra attraversarle lo sguardo, perché si era sentito
rifiutato tutta la vita e, per quanto fosse stato folle e crudele,
quella non era uno sofferenza che avrebbe voluto mai imporre a un altro
essere umano, di certo non era una sofferenza che Lucia meritava.
Le cinse la vita con le braccia, attirandola a sé,
passandole una mano tra i capelli prima che le dita corressero ad
armeggiare con i lacci che chiudevano il vestito.
Questo non sei tu,
Figlio del Diavolo.
No, non era lui. E adesso, forse, cominciava a credere che tutto quello
che era stato prima di quella sera fosse la parte sbagliata di
sé.
*
La giovane si strinse un po' più forte nel suo scialle e
continuò a camminare, malgrado il suo passo fosse ormai
malfermo per il troppo bere.
Quella era stata una serata strana, la notte dei miracoli. Era entrata
nel teatro, avevo visto un bello spettacolo, aveva pensino cantato
insieme ai musicisti di strada, tutto il teatro aveva cantato in
realtà.
Speranza si chiese se succedeva anche quando i grandi signori andavano
a vedere l'opera, se anche loro cantavano tutti insieme le arie della
lirica. Probabilmente no.
La ragazza si rese conto di star formulando pensieri assolutamente
sciocchi e privi di senso. Era colpa del vino, sicuramente, ma non le
importava.
Quella era la notte dei miracoli e per una volta aveva deciso di
pensare a divertirsi.
Si passò la mano sul piccolo ciondolo d'argento che pendeva
dalla sua catenina, i simboli delle tre virtù cardinali. Sua
sorella Fede, la sua gemella, ne aveva uno uguale.
Sua sorella Fede non l'aveva mai lasciata entrare nel teatro, non nella
platea almeno. Le poche volte che si era degnata di andare a parlare
con lei lo aveva fatto uscendo da una porticina di servizio, lo aveva
detto apertamente che non voleva che qualcuno la vedesse, anche se
tutta la città sapeva.
Ad un certo punto, Speranza si era stancata, aveva cominciato a trovare
umiliante quella situazione, per questo aveva chiesto a Lucia di andare
lei da sua sorella; Lucia in teatro ci era stata, tante volte, nei
posti da signori, prima che succedesse l'incidente, e al san Carlo la
conoscevano tutti e poi Lucia era tanto brava a
impapocchiare la
gente di chiacchiere e sapeva come convincere Fede a prendere i soldi
che lei cercava sempre di farle avere, quei soldi che sua sorella
faceva sempre tanta fatica ad accettare, perché era sporchi,
come diceva lei.
Speranza era convinta che non esistessero soldi sporchi o puliti,
esisteva solo la differenza tra il morire di fame e il sopravvivere. E
che a Fede piacesse o meno, con la loro madre malata, un po'
più di denaro in tasca faceva comodo e lei guadagnava molto
di più e molto più in fretta di quello che
portava a casa Fede facendo l'inserviente al San Carlo. Era stata una
questione di scelte, Fede non ce l'aveva fatta, Speranza sì.
Speranza sbuffò contro la luna, un fanale puntato sulla
città appositamente per ricamare d'argento il mare
increspato dal vento.
Quella era proprio la notte dei miracoli. Madame Fantine aveva dato a
tutte loro la serata libera, in tante erano curiose di andare a teatro,
soprattutto quelle che non c'erano mai state. E lei non ci era mai
stata, non era bella come alcune sue compagne, né aveva
quella strana abilità a capire le persone che invece aveva
Lucia. Speranza voleva solo andare a teatro, vedere com'era il San
Carlo dall'interno e divertirsi, non aveva mai voluto guai o problemi,
per questo non pensò che quegli uomini fossero lì
per lei.
Erano in tre, appoggiati al muro dove la strada faceva angolo e
spuntava nella piazza dove affacciava il bordello. Sembravano normali
clienti usciti da poco dalla taverna che doveva appena aver chiuso, ma
quando la videro avvicinarsi, abbassarono i berretti sulle facce. Facce
da sparvieri, facce rapaci.
Sì, era molto tardi e lei era rimasta in quella cantina a
bere vino per troppo tempo. Troppo tardi e troppo vino, forse Madame
Fantine le avrebbe fatto una ramanzina...
«Scusate, signorina» disse un uomo, bloccandole la
strada.
Per un attimo Speranza ebbe paura, il vicolo era buio e deserto. Il
posto che chiamava casa era appena dietro l'angolo ma ora le sembrava
lontanissimo. Poi si ricordò che non era mai successo niente
a nessuna di loro, si ricordò che il posto in cui lavorava
era un luogo che godeva di uno strano rispetto in città e
nessuno, nemmeno il più ubriaco degli ubriaconi vomitato
dalla taverna aveva mai alzato un dito su una delle ragazze dell'Araba
Fenice; quello era un posto da signori e le cose dei signori non si
toccano.
La ragazza alzò lo sguardo un po' stralunato sull'uomo che
le si era parato davanti.
«Sì, dite...» mormorò,
sentendo la lingua annodata per i fumi dell'alcol.
E poi fu un attimo. Gli altri due uomini si strinsero di lato,
afferrandole le braccia e spingendola contro il muro.
Forse doveva succedere
prima o poi...
Si disse che forse doveva succedere, che prima o poi sarebbe spuntato
qualcuno dal nulla che non avrebbe avuto alcun riguardo per il nome del
posto da cui proveniva e che le avrebbe fatto del male.
Speranza era quasi pronta a non farsi prendere dal panico e dalla
paura. Si disse che non poteva essere diverso da tutti gli altri uomini
che aveva soddisfatto senza provarne il desiderio, si disse che sarebbe
passata in fretta.
Ma quegli uomini non volevano abusare di lei. Se ne accorse quando vide
per un attimo il baluginio della lama di un serramanico comparire
davanti ai suoi occhi.
«Io... perché?... cosa volete?»
squittì, incapace di reagire e di sottrarsi alla stretta dei
due che la tenevano ferma per le braccia, inchiodata al muro come una
vittima sacrificale su un altare.
«Lasciarti un omaggio» borbottò l'uomo
con il coltello, afferrandole il mento con la mano libera dall'arma.
Cosa? Perché?
«Eh, vedi, certe cose non si devono fare» aggiunse
il suo aguzzino, enfatizzando un'aria di monito.
Nella testa della ragazza comparvero immagini sfocate della bambina che
era stata un tempo, si rivide seduta sulla panca di una chiesa. Nella
sua mente facevano eco le parole di una preghiera che non avevano alcun
senso per lei ma che aveva imparato a memoria perché il
prete glielo aveva chiesto come penitenza la prima volta che si era
andata a confessare.
Io non ho fatto niente.
Si chiese se recitare una preghiera a vuoto potesse salvarla. Se Dio
avrebbe ascoltato ugualmente.
Non ho fatto
niente...niente...
L'uomo la schiaffeggiò con violenza, impastò la
bocca e le sputò in viso.
«Non si fanno arrabbiare...» le disse alzando la
mano che reggeva il coltello. Poi l'abbassò.
La lama tracciò un solco bruciante dal sopracciglio destro
alla mascella sinistra.
«... le brave persone, Lucia» concluse lui mentre
la ragazza cominciava a sentire il sangue colarle sul volto.
Lucia? Io non sono
Lucia...
Avrebbe voluto dirlo, gridarlo, ma non aveva più forze. Si
lasciò cadere sul ciottolato e perse i sensi.
*
Lucia si svegliò di colpo, aprì gli occhi e
scattò a sedere in mezzo al materasso.
Dagli scuri chiusi filtrava la luce del mattino, mattino inoltrato a
giudicare dalla luminosità di quella lama di sole che
disegnava una riga precisa sul pavimento sotto la finestra.
La ragazza si stropicciò il viso e si voltò per
sincerarsi di non aver svegliato Erik. Non avrebbe dovuto fermarsi a
dormire lì, non avrebbe dovuto nemmeno accettare di restare,
cosa le era preso?
Ora avrebbe voluto solo svegliarsi e andarsene senza che lui se ne
accorgesse, perché nel momento stesso in cui Lucia aveva
aperto gli occhi e aveva realizzato di essere in quegli strani alloggi
dentro al teatro si era resa conto che, dopo tutte le sue peripezie e
dopo tutti i suoi dispiaceri, c'era una cosa che proprio non era in
grado di sopportare: Erik che la pagava. Di queste cose se n'era sempre
occupata Madame Fantine e, a prescindere da tutto ciò, lei
non era rimasta lì per lavoro. Era rimasta perché
sapeva che il Maestro francese non aveva voglia di restare da solo e
lei non aveva trovato una sola ragione valida per negargli il desiderio
di avere compagnia.
Ora però, di ragioni valide ne trovava a migliaia.
Ed Erik era già sveglio, si era già alzato e
adesso se ne stava seduto su una poltrona ai piedi del letto, leggendo
un giornale.
«Me lo ha fatto avere il signor Marchesi di buon
mattino» le disse subito, appena si voltò verso di
lei, attirato dal fruscio delle lenzuola. «Pare che la serata
di ieri abbia fatto notizia».
Certo che ha fatto
notizia!
«Ne sarete immensamente soddisfatto, immagino. Dopotutto
l'avete organizzata voi».
Erik annuì distrattamente. Sembrava godere del suo successo
solo nell'attimo in cui avveniva, dopo tutto sfumava in un lampo per
lui. Lucia scosse la testa e alzò gli occhi al cielo.
Naturalmente,
è un genio e i geni sono sempre affamati di nuove mete da
raggiungere...
«E sarete contento di aver regalato una tale emozione alla
piccola Luisa» aggiunse la ragazza, notando che gli occhi di
Erik si illuminavano al sentir pronunciare quel nome.
Lui accennò un sorriso, uno dei suoi, talmente rapido e
furtivo da sembrare solo un'illusione su quel viso dal cipiglio grave.
«Mi permettete una domanda, signora?» disse poi
l'uomo, piegando il giornale che stava leggendo e appoggiandoselo in
grembo. Non era esattamente una richiesta, Lucia se ne accorse dal modo
in cui Erik la stava guardando negli occhi, con quel fare
così... così
inesorabile.
«Dipende dalla domanda»
«Cosa c'è tra voi e la signorina
Rovesti?».
Lucia avrebbe davvero voluto evitare di rispondere, ma sapeva che in
qualche modo Erik non glielo avrebbe permesso e sapeva anche che doveva
esserci un motivo per il quale gli stava facendo quella domanda.
«Lei non ve lo ha detto?» chiese, mordendosi il
labbro.
«Se ve lo sto chiedendo è perché sono
interessato a quello che voi avete da dire» rispose lui, con
pacata freddezza, come a lasciarle intendere che non voleva che si
mettesse alla prova la sua pazienza.
«Lei si è sempre sentita minacciata da
me» spiegò la ragazza. «Ambiva alla
corte di certi signori che mi avevano dedicato le loro attenzioni,
signori benestanti che avrebbero sovvenzionato i suoi spettacoli se lei
fosse riuscita a entrare nelle loro grazie. Poi...».
Lucia si interruppe, chiedendosi se fosse il caso di continuare il suo
racconto. Aveva già dato al suo interlocutore una risposta
abbastanza esaustiva e non c'era bisogno di aggiungere altro, anche se
dentro di lei sentiva che Erik meritava di conoscere tutta la storia,
perché si stava fidando di lei, perché le aveva
chiesto delle spiegazioni dimostrando di credere alla sua parola e non
dare per scontato ciò che gli doveva aver detto quella
maledetta sirena incantatrice.
«Continuate» la esortò Erik.
«Nessuno meglio di voi sa quanto poco io conosca le donne, ma
conosco l'astio e il risentimento più di chiunque altro, e
quello che c'è tra voi e la signorina Rovesti non mi sembra
una semplice rivalità tra donne molto popolari tra i ricchi
signori».
«Ci innamorammo della medesima persona. Siete
soddisfatto?». Lucia buttò fuori quelle parole
quasi con rabbia e non capì se lo sguardo vagamente stupito
di Erik fosse dovuto alla sua reazione o al senso delle parole che
aveva detto.
Il suo cuore cominciò a sanguinare. Provò sincera
rabbia per l'uomo che aveva di fronte e che la teneva inchiodata
lì con quello sguardo di piombo fuso e mare in tempesta, non
la sciandole scampo, pretendendo spiegazioni.
«Si chiamava Andrè. Era francese, come voi. Ed era
mio...» sibilò Lucia, sentendo l'eco di ombre
lontane che si dibattevano nella sua testa, voci che si mischiavano in
una tremenda sinfonia che aveva il suono dello scoppiettare del fuoco.
«Poi ci fu l'incendio. Io rimasi confinata a letto per non so
quanto tempo a riprendermi dalle ustioni e lei me lo portò
via».
E perché diamine lui la stava fissando in quel modo assurdo?
Con quel sopracciglio inarcato e la bocca schiusa per lo stupore? Cosa
altro voleva da lei?
Erik si voltò, distolse lo sguardo e fece piccoli respiri
regolari, come se per un attimo gli fosse mancata l'aria e adesso aveva
bisogno di tornare a respirare normalmente.
«E dov'è quest'uomo, ora?» chiese con la
voce arrochita da una strana, penosa emozione.
«Evidentemente non amava né me né lei,
perché dopo avermi abbandonata e dopo essere caduto tra le
sue braccia, lasciò Napoli. Credo sia tornato in Francia,
non ho più avuto sue notizie». La ragazza
cercò di pronunciare quelle parole con il tono
più calmo e freddo possibile, poi chinò il capo e
restò lunghi secondi in silenzio.
Quando alzò di nuovo lo sguardo su Erik, che era rimasto
anche lui immobile, con le dita serrate attorno ai braccioli della
poltrona, Lucia comprese.
«È quello che è capitato anche a voi,
giusto? Con la donna che amavate...» mormorò.
Quella consapevolezza affiorata come dal nulla ebbe solo l'effetto di
acuire il dolore che ora sentiva al petto.
«No, non esattamente. Lei scelse un altro perché
amava lui e non me» concluse Erik con una voce che adesso
sembrava lontanissima, come se ogni parte di lui stesse affondando in
un mare di ricordi. E doveva essere proprio un mare in tempesta.
«Amate ancora il vostro Andrè?».
«No. Dopo tutto questo tempo temo sia solo rimpianto e
delusione. E voi, amate ancora quella donna?»
«Questa, signora, è una risposta che non so
darvi».
*******
~ Parigi, 16 maggio
1892 ~
Christine accarezzò distrattamente l'orlo morbido del
lenzuolo rimboccato sul suo letto, quel letto dove il medico l'aveva
confinata per prudenza. La donna sapeva bene che la prudenza non
apparteneva al dottore ma a suo marito, ma andava bene comunque. In
tutti quegli anni Raoul non le aveva mai fatto mancare attenzioni e
premure e se tre giorni a letto erano il prezzo da pagare, Christine ne
era ben contenta.
Christine aveva pagato il prezzo di quell'amore molte volte e non aveva
rimpianti. Tranne uno...
Per anni aveva tenuto i ricordi imprigionati in un angolo molto remoto
della sua mente, quando distrattamente il pensiero andava a toccare i
confini di quella gabbia della memoria, le immagini riaffioravano come
spezzoni di una fiaba ascoltata tanto tempo prima, erano disegni
sfocati, tele sfilacciate. E poi, naturalmente, c'erano gli incubi, ma
con quelli aveva imparato a fare i conti, perché ad ogni
brutto sogno seguiva un risveglio e al suo risveglio c'erano suo marito
e suo figlio accanto a lei.
E poi era arrivato Louis, con il suo violino e la sua musica.
Christine non aveva idea di cosa fare, di come comportarsi con lui. Il
ragazzo sembrava non avere la benché minima idea di chi
fosse lei – di chi fosse, in relazione al passato di suo
padre. Durante la sua convalescenza, la donna aveva persino pensato che
quel giovane fosse giunto a Parigi mandato a cercare vendetta o
qualcosa del genere, che ci fosse un piano prestabilito dietro
quell'assurda coincidenza; ma era chiaro che Louis non sapesse nulla,
era rimasto troppo turbato dal suo malore, parlava con discrezione
della sua famiglia, era troppo troppo innocente.
E tuttavia Christine non sapeva cosa fare quando lo avrebbe rivisto,
non sapeva se sarebbe stata in grado di celare il suo turbamento. Se
quel ragazzo non aveva mai conosciuto il nome dei De Chagny
è perché evidentemente
lui... suo padre
aveva voluto proteggerlo dalla verità di una storia troppo
tremenda e troppo dolorosa e chi era lei per infliggere a quel giovane
privo di colpe una condanna così grande? La
verità su quella storia aveva fatto già fin
troppe vittime in passato.
Eppure lei avrebbe desiderato tanto parlargli, insistere per sapere di
più della sua famiglia, sapere chi era stato suo padre in
tutti quegli anni, se era stato felice. Se il suo Angelo della Musica
aveva trovato un grammo di paradiso di cui appropriarsi senza
sofferenza.
In realtà, Louis era già una risposta abbastanza
eloquente a tutte quelle domande. Era un bel ragazzo, di buon cuore,
educato, allegro, senza tracce di sofferenza nei suoi occhi...
Christine non fu subito consapevole delle lacrime che le stavano
rigando il viso, se ne accorse solo quando sentì dei
movimenti concitati provenire dal corridoio.
«Lasciate che vi annunci, mademoiselle» stava
dicendo il maggiordomo.
«Sciocchezze! So bussare da sola alla porta,
grazie» aveva replicato una voce stizzita.
«Christine, posso entrare?!».
Meg...
Christine si affrettò ad asciugarsi il viso rigato di pianto
e si fece aria con le mani, sperando di soffiare via dagli occhi un po'
di rossore.
Mag Giry bussò alla porta e chiamò il suo nome.
«Entra pure» la invitò la viscontessa,
appoggiando le mani in grembo e tentando di assumere un'aria serena.
Meg aveva conservato tutta la grazia propria della giovane ballerina
che era stata un tempo e non aveva mai perso quella sua aria giocosa e
un po' impertinente, né quel suo fare risoluto. Tra lei e
Meg, era la ballerina bionda a sapere sempre cosa dire, come fare,
quali parole usare per rincuorarla quando lei era triste. Tra lei
è Meg, Meg era quella che sapeva molte più cose o
che, quanto meno, aveva il coraggio di non fingere, di non ignorare la
verità quando questa arrivava a chiedere il proprio
tributo... come la notte dell'incendio... come quando...
«Oh, Christine!» esclamò la donna
bionda, attraversando la stanza con il suo passo aggraziato da felino,
«sei stata male e io devo venirlo a sapere per caso da una
signora in teatro!».
Certamente, Parigi non aveva mai smesso di parlare, e di certo non
avrebbe mai smesso di parlare di lei.
«Mi dispiace Meg, ma non era niente di grave e non volevo
distrarti dai tuoi impegni, ma grazie di essere venuta» disse
Christine, stringendo le mani dell'amica nelle sue. Solo al contatto
con le dita calde di Meg si accorse di quanto le sue mani invece
fossero gelide.
Your hands are cold...
Your face, Christine,
it's withe...
Don't be frightens.
Un pensiero sconnesso e disperato attraversò la mente di
madame De Chagny. Meg era lì quando tutto aveva avuto
inizio, ed era lì quando tutto era finito. Forse Meg avrebbe
saputo ancora una volta cosa dire, darle qualche suggerimento su cosa
fare con il giovane italiano, con il figlio di... il figlio del
Fantasma dell'Opera.
Trak down this murderer,
he must be found!
«Christine, cos'hai? Sembri distante, a che pensi?»
chiese Meg, con dolcezza, come quando si raggomitolavano sotto le
coperte dello stesso letto nel dormitorio del collegio e lei non aveva
il coraggio di parlarle del suo Angelo della Musica. Avrebbe dovuto
parlargliene adesso? Avrebbe dovuto dirgli di Louis, di quello che
aveva scoperto?
To long he's preyed on us
but now we know:
the Phantom of the Opera
is there,
deep down below...
No, Meg non avrebbe capito. Meg era insieme agli latri quella notte, a
guidare la folla inferocita che si era riversata nei sotterranei.
Ancora una volta Christine era sola e in balia dei fantasmi.
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Here,
I have a
note...
"Impapocchiare di chiacchiere" sta per "rabbonire e persuadere con le
parole", più o meno (ci sono singole parole, nel dialetto
napoletano, che esprimono con molta precisione concetti che tradotti in
italiano meriterebbero frasi più lunghe).
Oook! Vorrei avere una scusa per questo abnorme ritardo, ma non ce
l'ho, non una particolarmente eloquente e
giustificante
almeno. Però farò il possibile per aggiornare
entro una settimana, facciamo che ci rileggiamo mercoledì
prossimo, costi quel che costi!
I
remain,
gentlemen, your obidient servant.