DD
Titolo:
Di lepri e codardi
Serie:
Pandora Hearts
Rating:
Verde.
WARNINGS:
SPOILERS.
Pairing:
Elliot/Leo
Credits:
Pandora Hearts appartiene a Jun Mochizuki; non è intesa
violazione
di copyright.
Note:
E’
OOC, stupida, inutile e scritta male. Ma erano mesi che
l’avevo in
cantiere, ed oggi l’ho finita.
Avrei
voluto dedicarla ad una persona scomparsa. Ma questa persona
è,
appunto, scomparsa.
Perciò,
la dedico a chi se ne va. Anche se noi non vogliamo.
A.
Di
lepri e codardi
A
Leo le gite in campagna non piacevano. In generale, non gli piaceva
alcun tipo di attività all’aperto che non
comprendesse lo stare
seduti all’ombra con un libro tra le mani e, possibilmente,
della
limonata fresca. Più nello specifico, non gli piaceva
l’attività
fisica.
E
a ragione.
Ogni
volta che alla Latowidge ci si dedicava a qualsivoglia sport, Leo
finiva, a seconda dello sport praticato, col didietro sul campo, con
la racchetta spezzata, con le mani graffiate o le ginocchia
sbucciate. Ma non era precisamente questo ciò che
più lo crucciava.
Era come, in un modo inspiegabile, Elliot riuscisse in tutti gli
sport che gli venivano presentati senza particolare sforzo e con una
grazia che, paragonata agli usuali ed elefantiaci atteggiamenti, era
quasi innaturale. Erano entrambi abbastanza brillanti in tutte le
materie insegnate nella scuola, ma l’unica in cui Elliot
eccelleva
più di lui era senza dubbio l’attività
fisica.
E
in quella particolare giornata si rendeva conto di come, piuttosto
che punzecchiare Elliot, avrebbe potuto impiegare il suo tempo
libero: allenandosi.
Come
Ada Bezarius avesse convinto i professori era un mistero, o, come
Elliot l’aveva definito durante il viaggio in carrozza,
«Un mero
esempio di lecchinaggine e favoritismo», ma qualsiasi fosse
il nome
con cui la si dipingeva, l’uscita era una vera e propria
manna dal
cielo contro la noia che l’andazzo di lezioni e logorio
quotidiano
avevano insidiato negli studenti. Era più che altro una
semplice
passeggiata nelle tenute più esterne della Latowidge, al
limitare
del bosco di pini che segnava un confine naturale con
l’esterno,
però si trattava comunque di prendere aria con
più libertà che nel
cortile interno, e quindi un gradevole strappo alle rigide regole
della scuola. E a Leo non sarebbe pesato più di tanto se
Ada, in uno
slancio di sportività, avesse proposto una battuta di caccia.
A
piedi.
Ovviamente
le ragazze si sarebbero limitate a cavalcare all’amazzone nei
dintorni, tenute d’occhio dai professori. Ma i ragazzi, che
sotto
incitamento di Ada e del professore di Lettere, appassionato
sostenitore della caccia, avevano già imbracciato i fucili,
si
sarebbero dedicati ad un sano e mascolino hobby all’aperto.
«Io
continuo a dire che trovo deprecabile questo tipo di
attività,
specialmente nei confini della scuola», obiettò
per l’ennesima
volta al professor John Doyle, il quale si limitò a caricare
il
fucile con un sorriso eccitato sotto i sottili baffi scuri.
«Oh,
taci, Leo, un po’ di caccia non ha mai ucciso
nessuno».
Elliot
Nightray, intervenendo per il professore, si sistemò il
fucile a
tracolla, indossando poi il cappello per proteggersi dagli aghi di
pino — i quali continuavano a cadere sotto i colpi dei
pallettoni —
e dal sole forte.
Il
suo fidato (Elliot avrebbe volentieri aggiunto un
‘mal’ prima del
‘fidato’) servitore strinse la canna del fucile nei
palmi
guantati di cuoio, guardando l’arma da dietro gli occhiali da
vista, con l’aria di chi ha tra le mani un topo morto.
«Ma
questo potrebbe uccidere te, o peggio me, quindi trovo la tua ultima
affermazione molto discutibile».
«Sei
più pesante di quell’altro Bezarius, da quanto sei
petulante in
questi momenti potresti stecchire una mosca in volo».
Le
labbra sottili di Leo si curvarono in un sorriso sibillino, mentre
imitava il padrone infilando il fucile a tracolla e raccogliendo
parte dei folti capelli neri sotto al cappello marrone.
«Non
vedo il nesso nell’accostamento, ma noto che non manchi di
nominare
per l’ennesima volta Oz Bezarius. Non ti sarai forse
affezionat—»
«TACI!»
Il
sorriso a mezza bocca di Leo si allargò in un ghigno
sornione.
L’espressione di Elliot divenne più congestionata
dei piedi di un
carcerato russo in Siberia.
«IO
NON NOMINO QUELL’IDIOTA!».
«Ma
lo hai appena fatto, Elliot».
«Stai
tergiversando solo perché non vuoi partecipare alla caccia,
non è
così?», berciò l’altro,
incrociando le braccia al petto con aria
imperiosa, la bocca sgradevolmente arricciata in una smorfia
soddisfatta, consapevole di aver toccato Leo nel suo orgoglio
maschile.
Questo,
senza smettere un secondo di sorridere, alzò la canna del
fucile
verso Elliot, mirandogli dritto tra gli occhi.
«LEO,
CHE CAZZO—»
«Bang».
L’urlo
di Elliot e la pacata onomatopea di Leo si scontrarono nello stesso
istante nell’aria, e gli occhi scioccati del suo padrone
assunsero
una sfumatura arrabbiata.
«Ti
sei bevuto il cervello?!»
Leo
ignorò la sonora protesta di Elliot, guardando i compagni
incamminarsi verso la prima linea di alberi, pronti a darsi a quello
sport del quale i padri tanto spesso parlavano. Lui sentiva solo un
forte fastidio all’idea di impugnare un’arma da
fuoco per sparare
ad animali ignari.
«Non
voglio farlo», replicò invece, tentennando sotto
il peso del
fucile.
Elliot
fece roteare lo sguardo, palesemente tediato
dall’atteggiamento
restio di Leo. «Se ti infastidisce così
tanto», iniziò,
accennando al folto gruppo di ragazze ridacchianti a cavallo di bai e
roane, «puoi fare un giretto con loro».
Però nel tono perentorio
con cui aggiunse «Premesso che tu voglia rovinarmi per sempre
la
reputazione ed ogni dignità in questa scuola», si
sentiva
chiaramente il divieto.
«Dignità?
Non credevo conoscessi il significato di questa parola»
borbottò
Leo, con pesante sarcasmo.
L’altro
controllò l’istinto omicida che ululava, nella sua
testa, di
piantare una scarica di pallettoni in quella criniera leonina,
preferendo premere il grilletto contro il cielo.
Le
ragazze sussultarono allo sparo, guardandosi intorno allarmate, sino
a quando Ada, la quale aveva assistito al breve battibecco dei due da
lontano, non provvide a calmarle proponendo di iniziare ad avviarsi,
o non avrebbero fatto in tempo a fare neanche una partita a volano.
«Il
prossimo è per te», sibilò poi Elliot,
lanciando un’ultima
occhiataccia al suo servo e inseguendo con passo rapido un altro
gruppo di ragazzi in tenute all’ultima moda, pronti a
vantarsi
delle qualità della propria mira e del proprio fucile, pur
sapendo
che erano tutti dati in dotazione dalla Latowidge.
Leo
sospirò, aspettando testardamente altri cinque minuti prima
di
decidersi, contro ogni sua logica e morale, a seguire le orme del suo
padrone. Non capiva, davvero, cosa ci trovassero di divertente
nell’andare in mezzo alle sterpaglie, al fango e alla resina
solo
per ammazzare qualche cervo e insipide faggine. Avrebbe di gran lunga
preferito unirsi ad Ada, a costo di fare la figura
dell’effeminato
vigliacco, piuttosto che entrare nel bosco con quelli che da
‘studenti di una scuola privata d’alto
lignaggio’ si erano
trasformati in ‘selvaggi’. Letteralmente.
Da
parecchi metri di fronte a lui venivano urla e risate, spesso
accompagnate da riferimenti osceni e affermazioni scandalose dette ad
alta voce. Almeno non udì la voce squillante di Elliot
unirsi a quel
coro infernale, ma limitarsi a ridere e a raccontare aneddoti che lui
ormai conosceva a memoria, ma che, con sua sorpresa, divertivano i
suoi compagni.
Dopo
una decina di minuti aveva gli stivali coperti di terra e i pantaloni
impolverati, i capelli sfuggiti al cappello erano costellati da aghi
di pino e il caricatore era ancora pieno. Visto il coro di spari che
si sentiva ogni minuto che passava, i composti rampolli nobili si
stavano più che divertendo a svuotare il caricatore sulla
evidentemente abbondante fauna del bosco. Lui no.
«Elliot?»
chiamò, scostando i rami più bassi dei pini con
la canna del
fucile, il naso arricciato nello sforzo di scacciare l’odore
forte
di resina e terra umida. «Elliot?»
ripeté, incerto. Si diede dello
stupido per non averlo seguito immediatamente, e subito dopo diede
dello stupido a lui, perché se n’era andato avanti
con gli altri
studenti.
Beh,
si sarebbe arrangiato.
Guardò
verso il fitto della bassa vegetazione, sperando di intravedere una
quaglia, o un’anatra. Per una qualche ragione, tutti
riuscivano a
trovare selvaggina tranne lui. Intorno a Leo c’era solo il
silenzio, ora che il vociare si era allontanato nel folto del bosco,
interrotto solamente dal rumore dei rami secchi spezzati dai tacchi
degli stivali. Imprecò sottovoce, per poi estrarre
l’orologio dal
taschino.
«Non
ci credo», mugolò, fissando la lancetta delle ore
sfiorare le dieci
del mattino. Non era passata neanche una mezz’ora da quando
si era
inoltrato tra gli alti alberi di pino, e già non ce la
faceva più.
E non era la fatica di avanzare tra radici e dossi di terra che gli
faceva bruciare i muscoli dei polpacci a pesargli di più,
non era
l’essere lontanissimo dall’ambiente familiare della
scuola, non
era l’arma che stringeva convulsamente tra le mani, non erano
gli
squittii sommessi. Era la solitudine a fargli paura. Attraverso le
lenti degli occhiali studiò gli alberi, tutti uguali, che lo
circondavano. Dietro di lui i rami spezzati formavano un sentiero
chiaro, ma mano a mano che si inoltrava gli arbusti e i cespugli si
facevano più fitti e vicini, e gli rendevano impossibile
formare un
percorso. Sospirò, frugando nelle tasche alla ricerca di un
qualsiasi oggetto affilato, e fu piuttosto fortunato di trovare un
coltellino multiuso che probabilmente Elliot gli aveva dato tempo
prima. Fece scattare la lama, e guardandosi prima attorno con aria
circospetta, fece una profonda incisione a forma di croce sulla
corteccia di un pino. Quando fu soddisfatto del suo lavoro e la croce
fu abbastanza visibile, riprese a camminare.
La
sua intenzione non era quella di trovare qualcosa da cacciare,
bensì
quella di trovare qualcuno, fingere un improvviso malore e farsi
portare fuori dal bosco. Non sarebbe stato un problema passare del
tempo con le ragazze, con ogni probabilità avevano con loro
dei
libri, e lui si sarebbe semplicemente seduto a leggere. La loro
compagnia non l’avrebbe disturbato eccessivamente.
Certo,
questa era la sua intenzione.
Percorse
diverse iarde più all’interno del bosco, e mano a
mano che si
inoltrava i rami si facevano più fitti e la luce del sole
arrivava
sempre meno forte, sino a ridursi ad un bagliore verdognolo. Ogni
dieci passi si fermava a marcare un albero, sentendosi un nuovo
Hansel, che invece di lasciare sassolini lasciava croci.
«Inquietante»,
disse, ad alta voce, per riempire il silenzio denso.
Il
rumore parve attirare un animale, perché vide dei cespugli
agitarsi
piano. Si pietrificò sul posto, incapace di capire cosa
fare. Poi si
disse che tornare con una quaglia o un cervo sarebbe stato un bello
smacco per Elliot, che lo credeva incapace di prendere la mira e
sparare — e un po’ di ragione l’aveva:
non era riuscito a
colpire mortalmente quella Baskerville nonostante fosse ben
più che
vicina, e non ci sarebbe riuscito neanche se l’altra tizia
non
l’avesse deviato col potere della sua catena. Fece un passo
indietro, per nascondersi dietro al tronco tozzo di un pino,
sfilandosi l’arma dalla tracolla in silenzio. Il rumore si
fece più
forte, e si sporse di un niente verso quello per vedere che animale
fosse.
Una
lepre.
Avrebbe
preferito qualcos’altro diverso da un paio di occhi
imploranti e
due orecchie lunghe, ma decise che era meglio di niente. Imbracciato
il fucile, si voltò lentamente, prendendo la mira. Fece un
respiro
profondo, il dito esitante sul grilletto. Tolse la sicura, le spalle
improvvisamente tremanti. Non voleva ucciderlo, ma voleva riuscire
a farlo. Se non riusciva ad uccidere una lepre, come avrebbe potuto
proteggere Elliot in una situazione simile?
Chiuse
gli occhi per un secondo, poi li puntò di nuovo sulla lepre.
Questa,
come se avesse sentito il pericolo, si immobilizzò, fiutando
l’aria.
Sapendo che era l’unica occasione di prenderla, fece per
premere il
grilletto.
Poi
successero molte cose insieme: i cespugli si mossero con violenza, la
lepre balzò via, Leo sparò e qualcuno
urlò.
«LEO,
PEZZO DI STUPIDO IDIOTA! SPARI ADDOSSO AL TUO PADRONE?»
Leo
non seppe dirsi se fosse più contento per
l’apparizione di Elliot,
insudiciato e con due lepri in una mano e il fucile
nell’altra, o
arrabbiato per il fatto che avesse fatto scappare la sua unica preda.
Decise che era più forte l’arrabbiatura, e irruppe
in un iroso:
«STAVO SPARANDO AD UNA LEPRE SE NON L’AVESSI
NOTATO, SEI TU CHE
L’HAI FATTA SCAPPARE!»
Si
rimise l’arma a tracolla e incrociò le braccia al
petto con aria
profondamente seccata, lasciando Elliot sconcertato.
«Ma
a te neanche piace cacciare! Devi stare più
attento!»
Leo
sorrise, e le mani ebbero uno spasmo.
«Io
dovrei stare più attento? Sei tu quello che si mette in
mezzo come
uno stoccafisso».
«STOCCAFISSO
A CHI, CAPELLONE?»
«A
te, Elliot. Ed ora, se non ti dispiace, vorrei ritrovare la mia
lepre».
Si
diede di nuovo dello stupido mentre gli voltava le spalle e schizzava
nella direzione in cui la lepre era sparita.
«LEO,
TORNA QUI!», ordinò Elliot, gridando da dietro.
Leo proseguì senza
obbedire, dimentico persino di segnare i tronchi degli alberi.
Elliot
era un idiota. E perché era spuntato di nuovo lì?
Insomma, era
andato con quella massa di selvaggi, e da quanto aveva sentito prima
che si allontanassero si stava anche divertendo. Escluse
l’ipotesi
che si stesse annoiando: la compagnia degli altri studenti di solito
non lo infastidiva. Inoltre non si sarebbe mai sognato di lasciare il
gruppo per inseguire una misera lepre, visto che ne aveva catturate
già due senza alcuna difficoltà.
Soppesò l’idea che si fosse
preoccupato per lui, o meglio, che fosse stato assalito dai sensi di
colpa per averlo lasciato da solo nel bosco, idea che gli
sembrò più
che plausibile.
Sorrise
con aria superiore, prima di ricordarsi dell’esecrabile
atteggiamento che aveva assunto col suo padrone, lasciandolo a sua
volta solo nel bosco. Probabile che questo gli sarebbe costato un bel
sermone, ma non era un gran problema. Di sermoni ne sentiva ogni
giorno, e la maggior parte — se non tutti —
venivano dalla
propria bocca.
Borbottò
degli improperi a mezza voce prima di scuotere il capo e riprendere a
tracciare croci spesse sulla corteccia degli alberi che incrociava.
Se non altro, si disse, sarebbe riuscito ad uscire da quella
boscaglia senza perdersi.
Estrasse
l’orologio per l’ennesima volta e notò
con vaga soddisfazione
che la lancetta delle ore adesso oltrepassava mezzogiorno. Presto
probabilmente sarebbero tornati indietro per riunirsi e mangiare, e
avrebbero passato il resto della giornata a parlare delle loro
mirabolanti esperienze da tiratori scelti, agitando selvaggina e
urlacchiando come ragazzini. Gli altri, ovvio. Lui
si sarebbe
seduto a leggere com’era nei suoi piani sin da principio.
Elliot,
invece, si sarebbe lamentato. Per assenza di cibo ben cotto, per la
scomodità del pranzo od altre piccolezze.
Strizzò
gli occhi dietro gli occhiali, nonostante ci vedesse più che
bene.
La faccenda degli occhiali era stata più che altro un vezzo,
un modo
come un altro per creare una barriera tra sé e quelle
cose.
Persino in quell’istante, come sempre, vedeva leggeri punti
di luce
fluttuare nell’aria, vicino a lui e in tutto il bosco. Si
nascondevano dietro gli alberi, lo sfioravano e gli passavano vicino
senza realmente toccarlo. Ci aveva fatto l’abitudine, ma ora,
nel
fitto di un bosco di pini, con la luce che trapassava a malapena la
folta trama di rami e aghi, le luci sembravano più intense e
reali.
Non si era mai dato del pazzo per questo suo ‘vedere cose
strane’:
ci aveva fatto l’abitudine. Il suo unico cruccio era il non
poterne
assolutamente parlare con nessuno. Ci sarebbero state troppe cose da
spiegare — come, ad esempio, il fatterello dei bambini della
casa
di Fianna e Humpty Dumpty. Provò una dolorosa fitta allo
stomaco, e
le dita si chiusero a pugno. Non passava giorno in cui i rantoli di
Elliot non gli risuonassero nelle orecchie, come un macabro mantra
per ricordargli che, nonostante tutto, era «Colpa
tua».
A
volte aveva la netta sensazione di vivere in un mondo parallelo. Nel
mondo scuro, freddo e solitario, Elliot era morto e non aveva formato
un contratto illegale con il cacciatore di teste. Nel mondo scuro,
freddo e solitario, Elliot non aveva ucciso i suoi fratelli e non
viveva ignaro della spada di Damocle pronta a mozzargli la testa come
Humpty Dumpty aveva mozzato quelle dei suoi familiari. Nel mondo
scuro, freddo e solitario, Elliot non c’era, le voci che
sussurravano ricordi di cui non aveva memoria erano deboli e lontane
e lui non era un colpevole. Ma nel mondo reale, Elliot era un
centinaio di metri più indietro, immerso nel verde,
imprecante e,
sicuramente, incazzato. Le labbra gli si curvarono in qualche modo in
un sorriso triste. «È colpa mia».
Senza
autocommiserazione. Come se stesse parlando del tempo.
Il
filo dei suoi pensieri si interruppe bruscamente quando un rametto
sotto al suo piede fece un rumore più forte e gli occhi
incontrarono, oltre il bordo di un cespuglio, la figura rotonda della
lepre.
«Almeno
sei grassa» mormorò a fior di labbra.
Studiò per qualche secondo
il terreno, prima di acquattarsi, chino su sé stesso e
infine in
ginocchio, attento a non fare rumore. Infilò la canna del
fucile tra
i rami sottili del cespuglio, con un fruscio. La lepre non
sembrò
darci peso, e continuò a cercare tra l’erba
sottile e incolta
qualcosa da mangiare.
Fece
un respiro profondo, scacciando Elliot, la sua espressione sofferente
e il sangue che gli insozzava i vestiti dalla mente, riempiendola
invece di paesaggi tratti da libri, lepri saltellanti ed un banchetto
da re. L’idea lo rallegrò di un niente, ma tanto
bastò perché la
concentrazione tornasse.
Prese
con attenzione la mira, ma ogni qualvolta sembrava aver messo a fuoco
l’animale, quello si muoveva e perdeva la traiettoria. Si
sentiva
come un giocatore di acchiapparella che non riesce a raggiungere gli
altri partecipanti. Scosse il capo per liberare il campo visivo dai
ciuffi scuri lasciati incolti sul volto, e poi, in uno slancio
inaspettato persino a se stesso, li scostò completamente con
un
gesto silenzioso della mano.
Tanto
non l’avrebbe visto nessuno, no?
Provò
nuovamente a tenere nel mirino l’animale, sentendo di nutrire
un
profondo odio per qualsiasi essere vivente dotato di coda a
batuffolo.
Non
udì i passi dietro di lui, né si accorse che
qualcuno gli era
spuntato alle spalle sino a quando non sentì due braccia
posarsi
sulle sue e una voce inconfondibile, abbassata ai limiti
dell’impossibile, mormorare tre parole lievissime al proprio
orecchio.
«Più
a destra».
Non
ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere Elliot nei gesti rudi ma
impacciati, e seguì con diligenza il suo consiglio. Si
sentì un
idiota, ma quel particolare giorno il sentirsi idiota gli era
stranamente facile, dunque evitò persino di soffermarsi
troppo sul
pensiero. Spostò la canna del fucile di un paio di
centimetri sulla
destra, percependo con chiarezza le dita di Elliot guidare i suoi
polsi e il suo respiro caldo accarezzargli i ciuffi sulle orecchie.
Provò un’altra stretta allo stomaco, di diversa
natura ma
ugualmente dolorosa.
«Vai».
Tolse
la sicura con uno scatto e premette il grilletto.
Il
suono rombante dello sparo fece scivolare giù diversi aghi
di pino e
scosse il cespuglio. Leo sobbalzò per il rinculo del fucile,
ed
Elliot smozzicò un’imprecazione colorita
— il calcio del fucile
gli si era piazzato dritto dritto nello sterno.
«Oh»,
si limitò a dire Leo, affrettandosi a riportare la folta
frangia
sugli occhi.
Elliot,
dopo un momento di imbarazzata esitazione, si allontanò
dalla
schiena dell’altro, alzandosi in piedi con un grugnito e
sporgendosi oltre il cespuglio. Il corpo inerte della lepre giaceva
ad un metro da loro, lo stomaco trapassato dai pallettoni.
«È
andata», informò, lanciando uno sguardo a Leo, il
quale, dopo
averlo imitato, si spazzolò le ginocchia con le mani e
facendo una
smorfia alle macchie verdi sui pantaloni.
«Queste
non andranno via».
Elliot
scrollò le spalle, aprendosi un varco nel cespuglio con le
gambe e
raccogliendo il cadavere della lepre per le orecchie. «Non
è un
problema, è solo un vestito». Gli porse
l’animale, sul viso una
sfumatura quasi orgogliosa. «La tua prima
preda».
Leo
non mosse un dito verso la lepre, guardandola con occhi inespressivi.
Fece invece un passo indietro, storcendo il naso con disdegno.
«Mi
fanno schifo le cose morte, tienila tu».
Per
Elliot non parve un problema, perché la fece cadere sulle
altre due
lepri catturate, un cumulo grottesco.
«La
prossima volta non correre via come una ragazzina», soggiunse
dopo
diversi secondi di silenzio, gli occhi azzurro vivo che evitavano la
figura di Leo.
«Non
sono corso via come una ragazzina, inseguivo la preda che tu
hai fatto fuggire», precisò pacato
l’altro, prima di incidere
un’altra croce sul pino più vicino.
Elliot
evitò di replicare, dicendosi fermamente che non avrebbe
fatto altro
che creare altre polemiche sterili. Si avvicinò invece al
pino,
squadrando incuriosito la croce incisa. «Le hai lasciate su
tutti
gli alberi? Una specie di filo di Arianna?»
Leo
scrollò le spalle, terminando il lavoro di falegname con uno
svolazzo della lama del coltellino. «Preferisco la metafora
di
Hansel e Gretel, gradirei evitare di incontrare un Minotauro
qui».
Elliot
rise, raccogliendo le lepri due nella mano destra ed una nella
sinistra.
«Comunque»,
continuò Leo, guardando nella direzione in cui
presumibilmente aveva
lasciato l’ultimo albero inciso, «Non puoi sapere
se fosse la mia
prima preda. Sottovalutarmi in questo modo è davvero
incivile».
Il
sorriso di Elliot si trasformò in una smorfia tesa.
«Leo, sta’
zitto. Credo sia ora di tornare indietro, gli altri si saranno
già
avviati da un pezzo».
Accogliendo
la considerazione in un dignitoso silenzio, Leo annuì,
precedendolo.
L’altro sospirò a fondo, e poi, tenendo
d’occhio il terreno
pieno di sporgenze e protuberanze, lo seguì.
«Hai
lasciato quelle croci su tutti gli alberi?», chiese Elliot,
speranzoso.
Leo
arricciò le labbra, scostando un ramo particolarmente spesso
di
pino.
«Sì,
su tutti, tranne che su un tratto. Saranno duecento metri,
saprò
orientarmi». Nel tono, però, c’era una
sottile sfumatura
d’incertezza che allarmò Elliot più del
fatto che fosse
inesorabilmente tardi.
«Duecento?
Dannazione, Leo, finiremo col girare in tondo».
In
risposta al suo padrone, Leo sbuffò, tediato. «Oh,
figurati. E poi,
anche se fosse, non siamo così tanto dentro il bosco, ci
troveranno
in un batter d’occhio, vedrai». E poi, con aria di
superiorità,
aggiunse, «Ammesso che ci perdiamo. Poi sarei io
l’uomo di
malafede, Elliot?»
Elliot
fece roteare gli occhi con aria scocciata, camminando dietro di lui
senza più proferire parola. Leo, da parte sua, proseguiva
convinto,
dritto davanti a sé, sicuro di trovare immediatamente il
nuovo
albero segnato. Camminarono per dieci, venti, quaranta, ottanta
metri. Quando Elliot rivide per la terza volta lo stesso albero con
le radici intrecciate a forma di ‘h’ si chiese se
non fosse
meglio avvertire Leo. Fece per parlare, schiarendosi la voce, ma
l’altro lo interruppe.
«Taci.
Non ci siamo persi». Il tono con cui lo disse era
così sicuro che
Elliot si limitò ad aggrottare le sopracciglia, continuando
a
tallonarlo con un’insolita docilità. Strinse
più forte le
orecchie delle lepri, deciso a non perdere le prede che aveva
catturato. Poi guardò verso il basso, notando che il peso
delle
lepri era diminuito di un po’.
E
invece di essere tre, erano diventate solo due.
«Aspetta,
Leo!», berciò, guardandosi attorno. Insomma, se
avesse perso la
lepre di Leo lui l’avrebbe ammazzato. Poi vide un movimento
nel
cespuglio alla sua sinistra, e comprese che qualche volpe doveva aver
raccolto la lepre caduta.
«Di
là!», esclamò, correndo nella direzione
del cespuglio, guardandosi
attorno per essere sicuro di non lasciarsi sfuggire niente. Se
quell’animale voleva il suo pranzo, avrebbe dovuto
combatterselo.
«Elliot,
dove stai andando?» gli urlò dietro Leo,
imprecando a mezza voce
prima di inseguirlo, l’espressione corrucciata.
«Elliot!» Chiamò,
guardando disorientato la figura di Elliot inoltrarsi di nuovo tra i
tronchi spessi dei pini. Sbuffò, imprecò, ed
infine, quando non
vide più nient’altro che un’ombra che
camminava molti metri
avanti a lui si decise a inseguirlo, chiaramente intenzionato a
fargli una tirata d’orecchi, ‘da bravo
servitore’. Non era
certo un comportamento signorile mollare lì il proprio servo
e
andarsene a zonzo per i boschi due volte in una
giornata.
Fu
solo dopo un paio di cadute e diverse e colorite maledizioni che Leo,
fucile alla mano nonostante fosse certo di non poterlo usare contro
nient’altro — la lepre era già
abbastanza — vide di nuovo
Elliot, fermo nel mezzo di una radura minuscola che doveva essere
stata riparo per qualche incauto escursionista.
«Che
stai facendo?»
«Ssssh».
Leo
lo guardò con un’espressione che oscillava tra
l’esasperazione e
l’impazienza, e fece per ricordargli che era tardi,
decisamente
tardi, e inoltrarsi di nuovo nel bosco non era un’idea
geniale come
doveva sembrare al suo padrone. Ma l’altro alzò
una mano,
intimandogli il silenzio, e si costrinse a tacere, limitandosi ad
incrociare le braccia al petto con aria poco ben disposta.
Elliot
fece un passo all’interno della radura, lasciando cadere le
altre
lepri a terra, come incapace di tenere i pugni chiusi, ed
alzò gli
occhi verso l’intricata trama di rami e fogliame che premeva
a
coprire il sole, arricciando le labbra di un niente, concentrato.
Leo
lo seguì, attento a non pestare rametti per non far
divampare la
rabbia del padrone come un incendio, senza però togliersi
dal viso
la smorfia impaziente.
«Lo
senti anche tu?», sibilò Elliot, guardandosi
attorno con
circospezione.
«Cosa,
il suono che fa la tua testa mentre lavora? Sì, è
una novità».
Qualcosa
nello sguardo dell’altro fece pentire Leo di ciò
che aveva detto.
Elliot si sporse, afferrandogli un gomito, e sibilò
«Taci e
ascolta».
Leo
fece per ribattere, poi udì qualcosa che gli fece passare la
voglia
di parlare. Voci. Altre voci. Guardò
nella direzione del suo
padrone, e lo vide assorto a fissare un punto nel vuoto, troppo
impegnato ad ascoltare per guardarlo negli occhi. Strinse le mani a
pugno, desiderando ardentemente di avere un’arma tra le mani,
ma
incapace di muoversi per prendere il fucile. D’altro canto
Elliot
non era altrettanto pietrificato, per cui gli fu facile mollare il
braccio di Leo per prendere il fucile e puntarlo verso gli alberi.
«Le
senti anche tu?» sussurrò, cercando di mascherare
il vergognoso
groppo alla gola.
Leo
annuì, e fu con un grande sforzo che si trattenne dallo
sputare un
«Dovrei farti io questa domanda» grondante
sarcasmo. Cercò di
trattenersi anche dall’afferrargli un braccio per assicurarsi
di
tenerlo vicino, ma non gli riuscì granché bene,
perché gli si
ancorò ad un lembo della giacca della tenuta, gli occhi che
scandagliavano le ombre tra i tronchi degli alberi.
«Elliot...»,
sussurrò, sforzandosi di tenersi ben dritto sulle gambe
malferme.
«Leo,
sshhh» intimò ancora l’altro, facendo un
passo verso il bordo
della radura, il fucile ben alto.
Le
voci che ronzavano nelle sue orecchie si fecero insopportabili.
Sentiva mille e mille frasi sconnesse, brandelli di conversazione, ma
tra tutte c’era una voce in particolare, una voce tonante
che,
perentoria, gli ricordava «E’ colpa
tua!». Per un secondo solo
smise di respirare.
Se
Elliot le avesse sentite avrebbe iniziato a farsi delle domande. Si
sarebbe spaventato. E lui non sarebbe stato capace di fingere di
averle sentite per la prima volta, gli sarebbe sfuggito qualcosa,
Elliot avrebbe scoperto tutto. Leo non poteva permetterlo: le
implicazioni erano distruttive. Se Elliot avesse scoperto... se
avesse scoperto quello che era successo... non se lo sarebbe mai
perdonato. Elliot non l’avrebbe mai perdonato.
Leo
avrebbe voluto avere la forza, la voce per chiedere ad Elliot se
fossero parole quelle che sentiva, se erano sussurri e non fruscii
del vento, se erano urla e non il verso di una fiera. Ma non ce
l’aveva. Si sentiva un nodo all’altezza dello
stomaco e della
gola, che gli impediva anche di respirare regolarmente. Era
passivamente attaccato ad Elliot che camminava verso il bordo della
radura, il fucile carico e il respiro pesante. Ad ogni passo che
muoveva verso la linea di alberi, sentiva una nuova voce aggiungersi
al coro che lo assordava, voci che non ricordava, voci che non
sentiva da quel giorno nella voragine vicina alla Casa di Fianna.
Voci che non voleva sentire.
«Elliot»,
gemette di nuovo, la presa sulla stoffa che si faceva ancora
più
forte e disperata. Elliot sganciò la sicura del fucile. Gli
occhi
gli si ridussero ad una fessura. Poi, al di sopra del brusio delle
voci, Leo sentì quello che Elliot sentiva.
Foglie
calpestate. Rametti spezzati. Un suono rombante.
Non
erano voci. Era altro. Per un momento non seppe se piangere, ridere,
o urlare fino a soffocarsi. Poi decise di rimanere in perfetto
silenzio.
Non
aveva sentito l’orrore nella sua testa. Per qualche motivo si
sentì
deluso, forse perché aveva perso l’ennesima
occasione di
condividere con lui quel mondo impossibile da spiegare, forse
perché
si sentiva ridicolo per aver avuto tanta paura. Dio solo sapeva
quanto Leo volesse spiegare ad Elliot, dirgli il perché di
quei
sogni orrendi, dirgli cosa era davvero successo alla Casa di Fianna,
che quei bambini non erano scomparsi né mai esistiti, ma
erano
morti, di una morte brutale e orrenda, e che lui li voleva
proteggere. Deglutì un bolo di paura e parole non dette e
fece per
parlare, ma, di nuovo, successero molte cose insieme.
Ada
Bezarius spuntò nella radura a cavallo della sua roana,
nelle mani
le redini della cavalla e quelle di un baio scuro, Elliot
sparò e
Leo spinse la canna del fucile in alto per evitare un assassinio
accidentale.
«Oh,
cielo!»
«Porca
miser-»
«Elliot,
non imprecare!»
«Taci,
Leo! Per Dio!»
«Eravamo
tutti preoccupati e così sono venuta a cercarvi-»
«Stai
zitta, donna!»
Leo
si mise una mano su una tempia, massaggiandola delicatamente. Va
bene. Le voci erano state aizzate dalla sua immaginazione e la fonte
di tutto quel caos erano gli zoccoli dei cavalli. Allora
perché non
si sentiva totalmente tranquillo? Fissò il viso di Ada
Bezarius,
incorniciato dai folti capelli biondi e sinceramente preoccupato.
Scacciò la sensazione di pesantezza che gli aveva
attanagliato le
viscere e si allontanò da Elliot, ricomponendo il viso in un
sorrisetto saccente.
«E’
inquietante quanto facilmente tu dimentichi le buone
maniere», celiò
Leo, posandogli una mano sulla spalla. «Dovremmo ringraziare
Miss
Ada per averci portato una cavalcatura, invece».
Elliot
lo guardò con profondo astio, per poi abbassare il fucile e
rimetterlo a tracolla. Si sistemò il cappello sul capo ed
evitò con
lo sguardo sia Ada che Leo. Parve illuminarsi per un attimo,
perché
emise un verso di sorpresa e si slanciò sotto ad un vecchio
olmo.
Leo sospirò e Ada si limitò a guardare la scena
in silenzio, ben
conscia delle ripercussioni che avrebbe avuto una sua intromissione
nella conversazione. O anche solo una sua constatazione.
Il
giovane Nightray si chinò su un cespuglio, frugando tra i
bassi rami
per diversi secondi e soffocando imprecazioni con sbuffi e rantoli.
Poi emerse dalle foglie, nelle mani la lepre che Leo aveva catturato,
sul viso un’espressione trionfante.
«Ah-ah!
La volpe deve averla lasciata per via del nostro arrivo».
Ada
emise un gemito soffocato e guardò dall’altra
parte, sfuggendo la
vista del docile animale tenuto per le orecchie e con il ventre
sbrindellato dai pallettoni e dalle zanne della volpe. Leo
abbassò
le braccia di Elliot con un gesto secco delle mani, accennando col
capo alla giovane.
«Non
credo che queste siano visioni adatte ad una lady».
Elliot
parve infastidirsi a quella considerazione, ma gettò la
lepre sul
cumulo delle altre due e si sfregò le mani per eliminare il
pelo dai
guanti scuri. Poi guardò Leo ed accennò agli
animali.
«Allora
prendile e mettile nel sacco appeso alla sella»
replicò, brusco,
guardando Ada con astio. Per un secondo Leo credette che stesse per
disarcionarla, poi intimò, con la medesima intonazione che
aveva
usato per rivolgersi a lui, «Fammi spazio. È
già umiliante
abbastanza».
Con
un leggero nodo allo stomaco Leo si rese conto che Elliot non voleva
cavalcare con lui. Poi si rese conto di quello che i ragazzi
avrebbero pensato vedendo la giovane e procace Ada Bezarius cavalcare
da sola e, sul cavallo accanto, il giovane e virile Elliot
Nightray... col suo servo. Non era esattamente l’immagine che
il
suo padrone voleva dare al resto degli studenti. Un conto era
condividere la camera, studiare insieme ed essere servo e padrone. Un
altro era cavalcare attaccati sullo stesso cavallo nel bosco. Sarebbe
stato equivocabile.
Perciò,
Leo per una volta chinò il capo e si limitò ad
eseguire gli ordini,
ancora scosso dal modo in cui le voci si erano sviluppate in un
crescendo terrificante nella sua testa. Quello strano.
Beh,
dopotutto lui era davvero stato quello strano. Era inutile sperare di
cambiare ruolo in quel teatrino maledetto. Come se potesse anche solo
pensare di riuscirci, arrivati a quel punto.
Infilò
le lepri nel sacco assicurato alla sella e montò sul
cavallo,
afferrando le redini come il mastro stalliere gli aveva insegnato
nella magione dei Nightray. Elliot fece lo stesso, prendendo posto
dietro Ada Bezarius ed afferrando le redini a sua volta, cercando in
tutti i modi di non toccare eccessivamente la giovane ragazza.
Tornarono
verso il limitare del bosco guidati dalle indicazioni di Ada, che
aveva seguito le croci sugli alberi e ne aveva evidentemente
tracciate altre fino alla radura. Non era poi così stupida
come
sembrava, si ritrovò a pensare Leo, mentre uscivano dal
bosco,
accolti dalle esclamazioni sollevate dei professori e dai versi
scherzosi degli altri studenti.
«Miss
Ada, non sarebbe dovuta andare da sola!», esclamò
il professor
Doyle, venendo incontro ai tre ed esibendo un’espressione
infuriata. «Verrà punita per aver disobbedito ai
professori»
Ada
chinò il capo e balbettò «C-cercavo
solo d-di aiutare...»
«La
prossima volta lascia fare a chi di dovere»
replicò duro il
professore, facendosi dare le redini di entrambe le cavalcature e
guidandole verso il folto gruppo più avanti.
«Ammesso che vi sia
una prossima volta. Nightray, che cosa avevi in mente?»
chiese, poi,
lanciando un’occhiata delusa e arrabbiata ad Elliot.
Elliot,
contrito e congestionato, resse a malapena lo sguardo del professore,
evidentemente ferito nell’orgoglio.
«Io...»
«E’
stata colpa mia», intervenne Leo, aggiustandosi gli occhiali
sul
naso con aria casuale. «Mi ero perso perché sono
partito in ritardo
ed il mio padrone è venuto a cercarmi»
continuò, sincero. Non era
disposto a vedere Elliot bastonato per una sua mancanza.
Metaforicamente o fisicamente che fosse: ancora non avevano mai
provato una delle punizioni della Latowidge.
Elliot
lo guardò disorientato, sorpreso dalla sua intercessione, e
fece per
parlare ma lo precedette.
«Sono
io a dover essere punito, professor Doyle. Sono sinceramente
contrito».
Il
professore parve credergli, perché fece cenno a tutti e tre
di
scendere.
«Non
ho intenzione di punirvi, ma per i prossimi tre mesi è fuori
discussione una qualsiasi altra gita» sentenziò, e
per evitare
lamentele si voltò e si diresse verso gli altri professori,
facendo
cenno ad Ada di seguirlo. «Vieni con me, miss Ada. Che tutti
tornino
alle proprie carrozze!»
Due
giovani stallieri vennero verso Elliot e Leo, prendendo le redini dei
cavalli e portandoli verso la coda della carovana di carrozze, mentre
il resto degli studenti, un po’ per la stanchezza, un
po’ per la
consapevolezza di non avere più gite a disposizione, si
ritirava
nelle carrozze borbottando e mugugnando, lanciando sguardi ostili ai
due.
Leo
si sentì in dovere di spezzare una lancia a favore di
Elliot, perché
sopportò l’onta con molta più
dignità di quanto avesse potuto
mai immaginare. Nella carrozza fu silenzioso e tranquillo e si
limitò
a guardare fuori dal finestrino, accarezzando la canna del fucile di
traverso sulle gambe. Tornando a scuola non disse una parola e, una
volta arrivati, portò personalmente le lepri nelle cucine.
Risalendo
verso i dormitori non mancò, anche se con qualche
difficoltà ed un
po’ di ritrosia, di scusarsi con gli altri studenti, che
accolsero
l’inaspettata gentilezza con più comprensione di
quanto Elliot
stesso si aspettasse. Leo invece si limitò a stargli dietro
e a
cercare di trovare il coraggio per parlargli.
Quell’umiliazione
pubblica dopotutto era colpa sua. Se l’avesse seguito fin
dall’inizio senza fare storie non si sarebbero persi e non
avrebbe
sentito le voci e Ada Bezarius non avrebbe dovuto riportarli al campo
come due bambini dell’asilo.
Una
volta nella propria stanza, Elliot si avviò verso il bagno
continuando con quella farsa del muro del silenzio. Leo stava
iniziando ad irritarsi. Un conto era sentirlo urlare e sbraitare: con
quell’Elliot poteva ragionare a suon di risposte a tono e
mobilia
lanciata; ma con un Elliot silenzioso e cupo non era abituato a
trattare. Non sapeva come comportarsi, e questo lo pungeva nel vivo.
Perciò,
non appena Elliot, pulito e asciutto e pigiamamunito, uscì
dal
bagno, Leo, ancora lercio di terra, si alzò
dall’angolo in cui si
era seduto a riflettere su come farlo ragionare e si slanciò
verso
di lui.
«Elliot-»
«Non
mi va di parlarne, Leo. Sono stanco». Detto questo, come per
chiudere il discorso sul nascere, si distese sul letto, voltandosi su
un fianco e dandogli le spalle. Leo sospirò ed
entrò nel bagno a
sua volta, raccogliendo il pigiama dal proprio letto pieno di libri e
ritirandosi in silenzio.
Quando
uscì, a sua volta pulito e abbigliato per la notte,
trovò la luce
spenta ed Elliot sotto le coperte. Convinto che stesse già
dormendo,
si sdraiò al suo fianco, come di routine – il suo
letto, dal suo
arrivo alla Latowidge, non era mai stato occupato da altro se non da
libri, ed Elliot, dopo le prime settimane di strenue resistenze e
calci per scacciarlo, aveva accolto la sua presenza con quella che
Leo avrebbe definito rassegnazione, anche se spesso, di mattina, si
svegliava con un braccio dell’altro saldamente ancorato ai
propri
fianchi.
Avvertì
la schiena dell’altro aderire alla propria e chiuse gli
occhi,
sistemandosi sul cuscino, cercando di prendere sonno al più
presto.
Contro le sue aspettative, però, il suo padrone non dormiva.
«Ho
avuto paura, oggi».
Leo
schiuse le labbra per rispondere, ma rimase qualche secondo in
silenzio. Poi, ricacciando indietro l’acida risposta che era
affiorata alla bocca, modulò il tono e replicò
con un semplice
«Perché?»
«Perché
nella radura sembravi terrorizzato. Non pensavo che un paio di
cavalli ed un po’ di caos ti potessero spaventare
tanto».
Leo
ebbe di nuovo l’istinto di urlare fino a perdere la voce, al
ricordo delle voci che gli sussurravano cose spaventose alle
orecchie. Si rannicchiò, raccogliendo le gambe al petto e
cercando
di occupare meno spazio possibile.
«Sono
meno impavido di quanto tu creda».
«Perché
hai avuto paura?»
A
quella domanda Leo non seppe rispondere. Avvertì Elliot
rotolare su
un fianco per voltarsi, e la sua schiena sulla propria venne
sostituita dal petto, una mano ruvida e impacciata gli
sfiorò il
fianco, per poi posarvisi sopra con una delicatezza quasi commovente.
Leo si morse le labbra e, con voce arrochita e incerta, rispose:
«Non
è niente, Elliot. Sei diventato paranoico?»
Un
silenzio denso accolte la sua domanda. Poi, con voce incerta quanto
la sua, il giovane rispose con un altro quesito.
«C’è
qualcosa che non va?»
Leo
avrebbe voluto dirgli che sì, c’era qualcosa che
non andava, che
credeva di stare diventando pazzo, che sapeva che non appena avessero
chiuso gli occhi Elliot avrebbe iniziato ad agitarsi, a sudare, a
soffocare urla nel cuscino, a vedere tragedie e sangue e dolore ed
era colpa sua. Avrebbe voluto chiedergli scusa, stringerglisi contro
e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che avrebbero trovato una
soluzione, che il mostro che gli insozzava il petto con un sigillo
nero e tormentava le sue notti sarebbe scomparso. Avrebbe voluto
dirglielo, ma non glielo disse. E si maledì per questo.
«No,
va tutto bene. Davvero, Elliot».
E
avrebbe voluto piangere fino ad addormentarsi e non svegliarsi
più,
perché Elliot gli credette. Sentì il suo viso
affondare tra i
propri capelli e la sua mano stringere appena il fianco.
«Se
ci fosse qualcosa che non va me lo diresti, vero?»
Per
un momento Elliot gli sembrò un bambino che cercava le
rassicurazioni della madre contro i mostri sotto al letto. Gli fece
una tenerezza immane, e una mano raggiunse la sua sul proprio fianco,
intrecciando le sue dita alle proprie.
«Sì».
Bugie.
Una sopra all’altra, a innalzare un muro tra lui e il suo
padrone.
Erano così vicini, eppure lo sentiva lontano anni luce.
«Va
bene».
Leo
rilassò il collo nel sentire il suo respiro accarezzarlo, e
tracciò
minuscoli cerchi sul suo palmo con il polpastrello del pollice.
«Domani
andremo alla Casa di Fianna. Mio padre vuole che andiamo con
lui»
Un’unica,
fredda, infantile lacrima bagnò le ciglia di Leo.
Sfilò gli
occhiali e li lasciò cadere per terra, lasciando che le luci
dorate
fluttuassero davanti alla sua vista annebbiata dall’acqua.
Annuì
contro il cuscino e sentì il peso del mondo intero gravare
sulle
proprie spalle. Per un secondo ebbe la sensazione di crollare. Poi si
rese conto di essere già un cumulo di macerie e si
raggomitolò di
più, cercando di proteggere quell’unica cosa che
lo reggeva in
piedi, le mani di Elliot e la sua voce che accarezzava le proprie
orecchie, come un balsamo contro le voci che raschiavano nella sua
testa.
«Come
Lord Nightray comanda».
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