Ciao
a tutti! Questa è la mia prima long fic in questa
sezione, quindi ancora non so bene cosa ne uscirà fuori xD
Avevo già scritto
una one-shot su Sherlock, passateci se vi piacciono i cagnolini e il
genere
fluff, si chiama “Bulldog inglese”.
Per
quanto riguarda questa ff, lascerò decidere a voi
se mettere insieme Sherlock e il fantasy sia una buona idea o un
insulto alla
serie. Spero nella prima :)
Buona
lettura!
Sherlock aveva sempre
preferito che io non raccontassi il caso della Casa Maledetta ai miei
lettori.
“A chi
interessano i casi
irrisoli?”, diceva.
Ma stavolta era diverso: il
caso era stato risolto, eccome.
Eppure Sherlock provava un
grande senso di sconfitta per non essere riuscito a trovare una
spiegazione
razionale agli eventi a cui avevamo assistito.
Ma procediamo per ordine,
perché fatti tanto straordinari meritano di essere narrati
con accuratezza e
precisione.
Era lunedì 20
novembre,
quando Lestrade venne a Baker Street per offrirci quello che si sarebbe
rivelato il caso più strano che ci sia capitato tra le mani.
In realtà
inizialmente mi
parve banale e fin troppo semplice, tanto che pensai di ipotizzare io
stesso
una soluzione.
Ero già pronto a
sentire la
voce annoiata di Sherlock che mormorava “noioso”,
oppure “ovvio”, oppure (e
questo era quello che più aveva il potere di irritarmi)
“elementare”.
Ma, inaspettatamente, lui
rimase in silenzio per qualche istante, per poi dire, con un sorriso
compiaciuto, << Accetto il caso >>.
Mentre eravamo in auto,
ebbi
modo di farmi spiegare i particolari dell’omicidio di Samuel
Welch.
Questi era stato trovato
morto nel suo appartamento, apparentemente suicidatosi con un colpo di
arma da
fuoco alla testa. L’ipotesi che si trattava di omicidio era
emersa dalla
testimonianza di una passante, che giurava di aver visto dalla finestra
due
uomini immobili uno di fronte all’altro, e in seguito, dopo
essersi ormai
allontanata, il rumore di uno sparo.
La testimonianza era
attendibile, in quanto coincideva perfettamente con l’ora del
decesso.
Uno degli uomini era stato
identificato come Samuel Welch, mentre il secondo era parso
irriconoscibile
alla testimone perché si trovava di spalle rispetto alla
finestra.
L’edificio
conteneva tre
appartamenti in tre piani diversi.
In quello al pianterreno
vivevano i coniugi Joanne e Thomas Carlton, quest’ultimo
sospettato
dell’omicidio.
Al primo piano viveva
Samuel
Welch e al secondo un’anziana signora, che al momento
dell’omicidio era fuori
casa.
Prima di entrare Sherlock
si
soffermò sulla strada che conduceva all’edificio,
guardando la finestra del
primo piano da diverse angolazioni.
Doveva essere una casa
molto
antica, constatai, ma era stata restaurata spesso e pertanto aveva
un’aria
sicura e dignitosa.
Una volta
all’interno ci
dissero che il corpo era già stato rimosso, cosa che fece
innervosire Sherlock.
<< La sensibilità degli altri inquilini
è più importante della soluzione
del caso? >> sbottò irritato.
Ma in compenso la sagoma
della vittima era stata accuratamente tracciata con un gessetto.
Sherlock gli diede una
rapida
occhiata, per poi passare ad esaminare con più interesse un
vaso di fiori
frantumato, probabilmente caduto dal tavolino accanto alla finestra.
<< Su uno di
questi
frammenti di porcellana abbiamo trovato tracce di sangue appartenenti a
Thomas
Carlton. L’avrà fatto cadere e poi si
sarà tagliato… >> disse Lestrade.
<< Che
rapporto
intercorreva tra Welch e Carlton? >> chiese Sherlock.
<< Si
conoscevano da
molti anni. Era risaputo che fossero grandi amici…
personalmente trovo
improbabile che l’abbia ucciso lui >>.
Sherlock non parve
ascoltare
il resto della frase dalla parola “personalmente”
in poi.
Andò a curiosare
in tutte le
stanze della casa, e dopo qualche minuto si ritenne soddisfatto e si
apprestò
ad uscire.
<< Dove sono
i coniugi
Carlton? >> chiese infine.
<< Li stiamo
interrogando. Thomas non ha detto una parola, mentre Joanne sembra
voler
collaborare, pur sostenendo di non aver visto nulla >>
rispose Lestrade.
<< Bene. Per
ora è
tutto >> sentenziò Sherlock.
Durante il tragitto verso
casa fu silenzioso e pensieroso, ed io ebbi il buonsenso di non dire
nulla.
Sapevo come comportarmi in
quei momenti: il segreto era non parlare, non pensare troppo, non
fissarlo, non
muovermi, non respirare troppo pesantemente, spegnere il cellulare, non
incoraggiare nessun tipo di conversazione col tassista, e anche altro
all’occorrenza.
Quando arrivammo a Baker
Street mi ritirai nella mia stanza, lasciando Sherlock che pizzicava
distrattamente le corde del violino, immerso nei suoi pensieri.
Nelle ore successive mi
affacciai ogni tanto al soggiorno, ma la scena era sempre la stessa.
Mentre andavo a letto non
immaginavo minimamente che il giorno successivo sarebbe stato il
più strano
della mia esistenza.
Ricordo che, poco prima di
addormentarmi, mi chiesi cosa si provava ad essere Sherlock Holmes.
E nello stesso momento
pensai
ad una famosa frase di cui non avevo mai compreso appieno il
significato:
“attento a ciò che desideri, potresti
ottenerlo”.
Martedì 21
novembre è stato
ufficialmente il giorno più strano della mia vita.
Sì, so di averlo
già detto,
ma lo ripeto per ribadire il concetto.
Mi svegliai verso le sei,
circa un’ora prima del solito, e dal momento stesso in cui
aprii gli occhi
capii che c’era qualcosa che non andava.
Primo: ero sul divano. Che
ci
facevo sul divano?!
Ricordavo perfettamente di
essere andato nella mia stanza. Era Sherlock che era rimasto sul
divano, in una
meditazione che l’avrebbe tenuto certamente occupato fino al
giorno dopo.
Secondo: avevo in mano un
cellulare.
Era quello di Sherlock,
potevo distinguerlo facilmente anche nella semioscurità.
Ma ciò che
catturò
immediatamente il mio sguardo fu la mia mano. In realtà non
era esattamente la mia mano.
Era grande, magra, dita
lunghe e pelle chiara.
Dov’eravamo
rimasti? Ah sì,
terzo: la mia mano non era la mia mano.
Suona strano, tuttavia in
quel momento pensai proprio questo.
Mi alzai di scatto,
spaventato, ma fui costretto ad aggrapparmi al bracciolo del divano.
Perchè
sono così in alto?, pensai, mentre cercavo di ritrovare
l’equilibrio.
Mossi qualche passo
incerto,
rischiando di inciampare nei miei stessi piedi (ma perché
erano così grandi?!),
fino a riacquistare un po’ di sicurezza, dopodiché
mi precipitai in bagno.
Premetti
l’interruttore e,
esitante, mi voltai verso lo specchio.
Il mio primo impulso fu
quello di guardarmi alle spalle.
Non c’era nessuno.
Ma era impossibile.
Perché
altrimenti avrei visto Sherlock Holmes nello specchio in cui io mi stavo specchiando?
Decisi che era un sogno.
Sì, doveva
essere un sogno.
Mi avvicinai ancora di
più allo
specchio e alzai una mano, osservandola attentamente. Poi, determinato
a
mettere fine a quell’incubo, mi tirai uno schiaffo.
Attesi dieci secondi, poi
trenta, poi un minuto intero.
No, non poteva essere un
sogno, perché niente era cambiato. Però
c’era il dolore alla guancia, il che
poteva significare che ero effettivamente io
quello allo specchio.
Scrutai ancora il mio viso,
ma non ce n’era bisogno, perché lo conoscevo
benissimo e non era il mio viso,
era quello di Sherlock!
In quel momento mi posi una
domanda
spontanea: se, ammettendo per assurdo, quella era la realtà
ed io ero lui…
allora lui dov’era?
La risposta alla mia
domanda
giunse subito dopo come un tonfo secco provenente dalla stanza accanto.
Tornai in soggiorno,
misurando
con attenzione ogni passo, ma non appena alzai lo sguardo, rischiai di
perdere
nuovamente l’equilibrio.
A terra, ai piedi della
scalinata, c’ero io.
Ma non potevo essere io!
Stavo guardando
dall’esterno,
quindi a rigor di logica non potevo essere quella persona.
L’uomo che aveva
le esatte
sembianze di John Watson aveva tutta l’aria di essere appena
caduto dalle scale,
constatai, vedendo che si massaggiava con espressione sofferente la
spalla.
All’improvviso
ricordai che
non avevo ancora provato a parlare.
<<
S… stai … bene?
>> chiesi. Le parole furono pronunciate con la voce
profonda di Sherlock,
ma velata di una paura che mai avevo visto in lui.
L’uomo uguale a
me alzò lo
sguardo e mi fissò atterrito.
<< John?
>>
chiese, con la mia voce, colma di
preoccupazione, ma con un tono diverso, che somigliava vagamente
a…. <<
Sherlock! >> esclamai.
Lui annuì.
<< Perché
sto parlando con me stesso? >>
<< Ci sono io
qui. Sono
John >> cercai di fare chiarimento.
Sherlock, finalmente ero
certo che fosse lui, era sconvolto.
Mi avvicinai lentamente e
gli
porsi una mano, aiutandolo ad alzarsi.
Constatai, con non poco
divertimento, che per la prima volta ero io quello alto, e dovevo
ammettere che
quei centimetri in più mi davano un grande senso
d’importanza.
Restammo a guardarci ancora
a
lungo, senza trovare niente da dire o fare.
Poi Sherlock
indicò le scale.
<< Ho realizzato troppo tardi di non essere al piano
terra… >> disse,
con tono di accusa, << Ragioni troppo lentamente
>>.
Ovvio. Riusciva ad
insultare
le mie facoltà mentali anche mentre si trovava nel mio corpo.
<< Io? Ci sei
tu lì
dentro. La colpa è tua >> ribattei, seccato.
<<
Sì, ma il cervello è
il tuo. Ed è troppo lento per i miei gusti >>.
Preferii non rispondere.
Qualcosa
mi diceva che nei giorni successivi avrei avuto molte altre
opportunità di
perdere la calma…
<< Scambio di
corpi
>> mormorai tra me e me.
Sherlock scosse la testa.
<< E’ impossibile >>.
<< Allora
come ti
spieghi il fatto che io stia parlando con qualcuno uguale a me in tutto
ad
esclusione del pessimo carattere? >>.
<< Non me lo
spiego
perché non è possibile >>
ripeté. << Non è logico!
>>.
<< Ma
è successo. E ora
dobbiamo capire come >>.
Sherlock andò a
posizionarsi
sul suo divano, con la stessa espressione che gli avevo visto la sera
prima e
tutte le volte che ci occupavamo di un caso… solo questa
volta era sulla mia
faccia.
Io mi sedetti sulla
poltrona.
<< Accidenti,
John!
>> esclamò dopo appena qualche secondo,
<< E’ un’impresa formulare
qualche deduzione coerente con questo cervello che ti ritrovi!
>>.
Sbuffai, annoiato.
Perché si
lamentava?
Era così ovvio
quello che
dovevamo fare…
<< Dobbiamo
riflettere
su quello che abbiamo fatto nei giorni scorsi. Luoghi che entrambi
abbiamo
frequentato, persone con cui siamo entrati in contatto…
qualsiasi avvenimento
diverso dal solito, e che sia capitato ad entrambi. Proporrei di
iniziare dagli
eventi delle scorse ore, fino ad allargare il campo
all’intera settimana
>>.
Sherlock sgranò
gli occhi.
Mi chiesi se era questa
l’espressione che avevo ogni volta che mi stupivo delle sue
deduzioni.
<<
Sì, giusto. Non ci
avevo pensato… >> ammise. << Ma
non ti ci abituare >>
aggiunse subito dopo.
Mi meravigliai della
velocità
con cui i pensieri si facevano largo nella mia mente. Era una
sensazione
esaltante e spaventosa allo stesso tempo.
<<
E’ così che ti senti
continuamente? >> domandai, curioso.
<< Ti stavo
per fare la
stessa domanda >> rispose Sherlock, sbuffando.
Restammo in silenzio per un
po’, riflettendo.
Poi, ad un tratto,
un’idea
balenò nella testa di entrambi.
<< La casa di
Samuel
Welch! >> esclamammo all’unisono.
Spero
che vi sia piaciuto questo primo capitolo e che
sia stato divertente leggerlo come lo è stato per me
scriverlo :)
Mi
piacerebbe sapere la vostra opinione, quindi…
recensiteee xD
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