Rigel || ETERNALLY
MISSED
Chase your dreams away
Glass needles in the hay
The sun forgives the clouds
you are my holy shroud
~ Eternally Missed, Muse
Mi sveglio nel silenzio.
È notte, il mio corpo caldo e sudato mi lancia subito i primi segnali. Ho sete,
mi fa mal la testa.
Scatto a sedere e mi
guardo in giro. Il buio avvolge il pavimento tutt’attorno al letto. La porta e
la finestra della mia stanza, nella semi oscurità, rendono quel luogo come
l’interno della mia mente: spaventoso e ignoto.
Non nego di avere paura.
Una paura devastante. Ma non posso farci niente. Non posso cambiare le cose.
Questo è il mio destino.
Appoggio i piedi nudi
sul pavimento e il legno mi inonda del suo calore, del calore estivo. L’estate
dei miei quindici anni, la più brutta della mia vita. Raggiungo a tentoni la
porta della stanza, l’apro e mi butto nel corridoio. Sono subito sollevato da
una corrente d’aria notturna che mi asciuga il sudore, che mi disseta
immaginariamente.
Se mia madre fosse stata
lì, forse mi avrebbe sentito, e si sarebbe affacciata sul corridoio con uno
sguardo preoccupato dipinto sul volto gentile. Mi avrebbe chiesto se andava
tutto bene, se avevo bisogno di qualcosa, se poteva aiutarmi.
Mi manca così tanto.
E se anche mio padre
fosse stato lì, avrebbe sentito mia madre scostare le coperte, avrebbe
socchiuso gli occhi e la sua voce mi sarebbe giunta, dall’interno della stanza.
Avrebbe biascicato qualcosa di incoraggiante, o più semplicemente avrebbe detto
a mia madre di lasciarmi stare, che la mia era un’età turbolenta e che di
sicuro non avevo bisogno di lei…
Mi mancano così tanto.
Con il senno di poi,
forse avrei trovato il coraggio di ribattere a mio padre, di dirgli che, anche
se giovane, avevo terribilmente bisogno di loro. Delle due persone migliori che
avessi mai conosciuto.
Arrivo in cucina e
rovescio un po’ d’acqua da una bottiglia ad un bicchiere. È così fredda che mi
blocca la gola. Ingoio, sospiro e bevo un altro sorso.
Corro. Amo correre. Se
fosse possibile, se non servisse nient’altro per sopravvivere, non farei che
questo. Un piede davanti all’altro, le ginocchia che si danno il cambio, il
torace che ruota impercettibilmente, le braccia morbide che mi danno la spinta.
La testa alta, lo sguardo fisso davanti a me. Il respiro affannoso, unico mio compagno.
Insieme al sudore che sa di vita.
I fusti degli alberi
danzano al mio passaggio, le chiome si salutano. È come se tutta la foresta
fosse partecipe nello spettacolo che le sto offrendo. Siamo solo io e lei. Non
c’è niente di meglio.
Mi fermo per riprendere
fiato. Mi piego in avanti, mi appoggio sulle ginocchia. Ritrovo il respiro
regolare. Passo una mano sul mio viso, e raccolgo un pugno di sudore che
traspira nuovamente nella mia stessa pelle.
La giornata è così bella
che quasi mi commuove. Il sole splende, come tanto adora fare in questa
stagione. Ma prima che i suoi forti raggi mi raggiungano, c’è una folta coltre
di chiome di alberi, che mantengono lo spazio sotto di essi più fresco, in
ombra, perfetto.
Sento degli uccelli
chiamarsi, delle volpi gironzolare, degli scoiattoli arrampicarsi sulle
cortecce. La natura si anima attorno a me. Il mondo animale prende vita.
E io rimango lì, in
piedi, estasiato da tutto ciò che mi circonda. Gli occhi mi bruciano, piango.
Perché piango, davvero
non lo so. Ho quindici anni, dovrei essere impassibile. Dovrei essere forte,
essere un uomo…
Ma non è così che mi
sento, e qui non c’è nessuno che mi possa giudicare. Così mi lascio andare,
sciolgo la mente, i muscoli, il respiro. Chiudo gli occhi e le lacrime mi
bagnano il viso.
Non voglio smettere,
perché se lo facessi, mi sembrerebbe di esplodere. È questo il momento. Posso
essere sensibile e vulnerabile fino all’osso. Non sarà la natura, a farmi del
male.
Quando ritorno conscio
di me stesso, apro gli occhi e mi ritrovo a terra, in ginocchio, con i palmi
delle mani affondati nel terreno solido.
Stringo gli occhi,
piango come un disperato, un fallito. Ora la consapevolezza del mio essere si
aggrappa al mio inconscio. E mi rendo conto che, infine, sono solo.
Urlo, nessuno mi
risponde. Piango, gemo. Nessuno mi verrà ad aiutare. Ho quindici anni e non
voglio fare del male a un altro essere vivente. Non voglio dover uccidere un
animale innocente, solo per accertarmi la sopravvivenza.
Ho quindici anni, e ho
voglia di sapere la verità. Voglio sapere dove sono i miei genitori, chi è
stato a rapirli, se sono ancora vivi. Ma ho solo quindici anni, e non so dove
andare, a chi rivolgermi, se verrò mai preso in considerazione. Se qualcuno mi
darà mai importanza.
Il pianto si è
affievolito. Sento i singhiozzi scuotermi, ma le lacrime hanno fatto il loro
corso. Mi sento sfinito, esausto. Ma in un certo senso, sono contento che
nessuno sia stato lì a giudicare il mio comportamento.
Forse sarebbe stata
quella la mia consolazione? Che nella solitudine, nessuno mi avrebbe detto che
cosa fare?
Non mi sembra una consolazione
sufficiente.
Tiro su con il naso e
faccio leva su braccia e gambe per rimettermi in piedi. Ma succede qualcosa, e
io sono totalmente impreparato.
Un rumore. No, più un
suono, un gemito… Anzi, un verso. Di un animale.
Resto immobile, colto da
un senso di sorpresa, quando un felino di medie dimensioni esce dalla
vegetazione, con zampate lievi e lente, misurando il terreno fra noi due. Tiene
il muso chino quasi fino a sfiorare il terreno, le orecchie diritte, gli occhi dorati
luccicanti, i canini digrignati.
E quel manto, del colore
più bello che avessi mai visto. Me ne riempio la vista, di quel rosso fulvo,
intenso e vivo come il più meraviglioso dei tramonti.
Ho studiato abbastanza
da sapere che non è un felino comune. È una lince. Una lince rossa. Non sono
del tutto estranee nella foresta di Ismene, ma sono alquanto rare nel resto di
Hestla.
Io non ne ho mai vista
una dal vivo.
L’animale continua ad
avanzare verso di me, fino a fermarsi, all’incirca a un metro di distanza. Ci
guardiamo negli occhi con intensità. E in qualche modo la convinco che non sono
un nemico.
Abbandona la posizione
di difesa, e assume un atteggiamento più “amichevole”, per così dire.
Allora decido di
chinarmi a terra, per mostrarle che sono alla sua altezza, che non voglio farle
del male, che ho buone intenzioni. I muscoli del mio volto restano tesi, non
sono perfettamente certo che la mia azione vada a buon fine.
Potrebbe decidere di
scattare in avanti e aggredirmi, e io avrei ben poche possibilità di uscirne
illeso. Ma rischio. Non ho niente da perdere. E lei ha già catturato tutto il
mio interesse.
Quindi piego le
ginocchia, resto flesso a terra e non distolgo lo sguardo da lei. Il felino mi
squadra e se fosse un essere umano avrebbe quell’espressione tipica di
scetticismo, quando si ritiene che uno sia pazzo, fuori di senno.
Poi accade
l’incredibile. Avanza verso di me, ma non mi fa paura. Non vuole aggredirmi. Il
suo muso si china, imbarazzato, verso di me. Mi struscia contro il collo e il
viso. E fa le fusa.
Sono così contento,
sorpreso e commosso che non mi rendo conto più di nulla. So solo che ho appena
stretto un’amicizia.