Cosa faremo, Alec?
Per Herm, dopo una lunga attesa.
<< Però, Magnus, non me lo hai mai detto.
Non mi hai mai avvertito che sarebbe stato così, che un giorno
mi sarei svegliato e mi sarei accorto di stare andando in una direzione
che tu non potevi seguire.
Non mi hai ricordato che siamo essenzialmente diversi.
Non c'è “finché morte non vi separi”, per chi non muore mai >>.
Shadowhunters-Città degli Angeli Caduti.
Alexander Lightwood taceva.
Era ormai da più di
un'ora che il ragazzo giaceva abbandonato sul letto, il corpo steso
stancamente, le palpebre appesantite dalla debolezza, dal silenzio.
Fissava assorto il soffitto, lo sguardo che vagava su ogni angolo di
esso, perlustrandolo cercava risposte, risposte a domande che ormai da
settimane, da mesi gli affollavano la testa.
“ Che cosa faremo ora?”
Alexander Lightwood non
sapeva, e non sapeva neanche se, alla fine, potesse davvero essere
concepita una risposta adeguata a tale domanda - semplicemente si
ritrovava a pensare, a rifletterci sopra per interi pomeriggi, quando
il sole bruciava troppo fuori dall'istituto o quando persino i demoni
perdevano la voglia di attaccare, di combattere, di uccidere. Aveva
smesso di illudersi di aver trovato certezze, di poter intuire una
risposta soddisfacente dalle pieghe del sorriso di Magnus, o di poter
strappare ai suoi occhi false promesse di amore ed eternità.
“ Che cosa faremo ora, Alec?”
Alexander Lightwood si sarebbe
voluto arrendere, alle volte, al destino, alle sciagure, ai dolori, e
altrettante volte avrebbe voluto seriamente smettere di impegnarsi e di
combattere, perché resistere, in quei casi, diveniva troppo,
troppo per il suo fisico, per il suo animo... Per il suo cuore. Poi,
puntualmente, Magnus compariva, e pure quell'abbandono diveniva
stringente, come se l'amarezza ed il dolore non bastassero più,
come se quella controllata disperazione non fosse già abbastanza
pesante da sopportare.
Magnus e le sue parole, Magnus ed i suoi gesti, Magnus e la sua vita che non avrebbe mai conosciuto la morte.
“ Che cosa faremo, adesso?”
Per Alexander Lightwood quella
questione sussurrata fu una delle domande più spinose e
brucianti che sua sorella gli avesse mai posto - avevano perso valore,
a confronto, anche quelle relative alla sua omosessualità o al
vecchio innamoramento per Jace, che al tempo, anni indietro, nonostante
la delicatezza e la dolcezza di Iz, erano state dolorose come
coltellate, come ferite e lividi menati ancora da pugni e lame.
Così come allora, il
ragazzo, alzando lo sguardo sugli occhi della sorella, aveva perso sia
la voce che le parole, ed ogni singola risposta si era dissolta nel
silenzio - se mai fossero davvero esistite delle risposte.
Alexander Lightwood non lo
sapeva, non sapeva cosa avrebbero fatto, dove sarebbero andati, cosa
sarebbero finiti a sacrificare pur di riuscire a stare al loro passo -
al passo di due amanti senza tempo, senza morte.
Non sapeva come consolare la
sorella quando, accorrendo, gli aveva raccontato di quel bacio, del
tanto atteso bacio con Simon, il daylighter - perché doveva
essere consolata in quel momento, Isabelle, mentre confessava a suo
fratello di essersi finalmente innamorata, innamorata per la prima
volta, innamorata di un ragazzo che non avrebbe conosciuto la vecchiaia
né la morte, ma solo un'adolescenza senza fine, senza scampo.
E avrebbe dovuto consolarla,
Alec, dirle a sua volta che anche lui amava un Nascosto, uno stregone,
che erano simili, lei e lui, tremendamente simili. Perché in
quanto Shadowhunters non dovevano desiderare l'eternità, non
dovevano cercare di sconfiggere il tempo, il destino, perché
erano caduti nella stessa trappola, erano animati dalle stesse speranze
- “ tanto prima o poi mi renderà immortale ”, dalla stessa brama- l'eternità.
Invece l'aveva solamente
assecondata, perché in Iz rivedeva se stesso quando ancora non
aveva conosciuto le ombre dell'amore, quando non era ancora consapevole
del prezzo da pagare per aver ottenuto una così profonda e
sincera felicità, quando ancora riteneva che bastasse unire le
mani, stringere i corpi, chiudere gli occhi per scongiurare il pericolo.
Perché nutrire un'amore
così devastante, così intenso non avrebbe causato altro
che atroci sofferenze, enormi paure, terribili incubi.
Perché prima di lui ce ne erano stati a centinaia, e dopo di lui ce ne sarebbero stati a migliaia.
Perché Alec non sarebbe mai stato l'unico, non poteva esserlo, non come Magnus lo era per lui, il primo... L'unico.
Perché allo stesso modo Iz non sarebbe mai stata la sola per Simon, forse la prima, ma non l'unica, non l'ultima.
E questa consapevolezza diveniva dolore, a poco a poco, giorno dopo giorno. Lentamente.
Ed il dolore, a volte, era troppo.
Troppo.
Per entrambi.
“Quindi, cosa faremo, ora, Alec?”
“Non lo so, Iz. Non lo so.”
Alexander Lightwood
rifletteva; erano passate ormai delle ore da quando, varcando la soglia
della propria camera, si era rifugiato nel letto, tra le lenzuola, la
morbidezza del cuscino ad accudirlo delicatamente. Erano passate delle
ore eppure il suo cervello non smetteva di elaborare mille e mille
soluzioni, il cuore in subbuglio, l'animo dannato. Sarebbe dovuto
andare da Magnus, parlarne con lui, cercare di comprendere, capire
quale valore avesse realmente la propria vita tra le mani dello
Stregone, avrebbe dovuto abbracciarlo, baciarlo e tentare di marchiare,
quanto più possibile, con la propria vita l'esistenza
dell'altro, tentare di imprimergli addosso il proprio essere, il
proprio amore, e rendere ricordo ogni singolo momento trascorso
insieme. Perché l'eternità è lunga, ed immaginarla
nella sua totalità impossibile, perché Magnus disponeva
dell'eternità e lui non era altro che una manciata di anni in
mano allo Stregone.
Come renderli indimenticabili?
Come rendersi indimenticabile?
Non scartare nulla, non
sprecare nulla, non trascurare niente. Perché ogni minimo
dettaglio sarebbe potuto divenire un appiglio al quale aggrapparsi, una
volta morto, una volta svanito, una volta tramutatosi in passato.
Ed era questo a terrorizzarlo: il passato.
Presto o tardi, anche Alec
sarebbe divenuto un'immagine della memoria, un frammento da buttarsi
alle spalle, di cui dimenticarsi un giorno per continuare a vivere, per
proseguire ed avanzare.
Alla fine, Alexander Lightwood lo avrebbe perso.
Avrebbe perso tutto, se stesso e Magnus, inesorabilmente.
Eppure non si mosse.
Continuava a fissare il soffitto con occhi vacui mentre la notte, silenziosamente, calava sull'istituto.
In fondo, lì accanto
dormiva Isabelle, ed Alec non desiderava altro che lasciarsi cullare
dal respiro regolare e monotono della ragazza.
Andava bene così, per il momento.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare.
Per il momento quello bastava,
l'estremo impegno e l'incrollabile speranza con cui entrambi nutrivano
quell'amore tanto massacrante eppure così necessario.
Sorrise, Alexander Lightwood.
“Che cosa faremo tra dieci anni, Alec?”
“Non lo so, Iz. Non lo so.”
Al risveglio avrebbe avuto molto di cui parlare con Magnus Bane.
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