Capitolo diciannovesimo
Sotto la polvere
~ Napoli, 09 maggio 1872 ~
Il mare cominciava a riflettere l'incerto riverbero azzurrino delle
prime luci dell'alba. C'era poco vento e l'acqua era solo leggermente
increspata mentre rifletteva il colore indistinto del cielo che ancora
non aveva preso i toni distinti e luminosi del giorno.
Erik ascoltava le onde infrangersi con il loro ritmo cadenzato contro
gli scogli, cercava una musica da accordare a quel suono ripetitivo,
come se fossero le battute di un metronomo.
In quei due giorni, da quando aveva lasciato l'Araba Fenice dopo aver
raccontato la sua storia a Lucia, aveva cercato disperatamente di
mettere ordine nei suoi pensieri. Quello che era accaduto gli sembrava
simile a una pugnalata sferrata con una lama molto ben affilata che
lascia che il bruciore del taglio si propaghi tempo dopo rispetto a
quando il colpo è stato inflitto.
Per una parte, Erik trovava giusto quello che era accaduto. Non poteva
sfuggire per sempre agli effetti delle sue azioni, era normale che
prima o poi sarebbe accaduto qualcosa che gli avrebbe imposto di
scontare in qualche modo la sua pena. D'altro canto, la rassegnazione e
l'arrendevolezza non erano mai stati atteggiamenti che facevano parte
della sua indole: aveva dovuto sopportare troppe cose irrisolvibili per
arrendersi a tutti gli altri tiri mancini che il destino gli aveva
giocato nel corso della sua esistenza.
Adesso l'uomo si chiedeva cosa fosse giusto fare. E la risposta era
sempre la stessa: la cosa giusta è non far nulla.
Per ogni volta che formulava questo pensiero, però, la voce
che si agitava nella sua mente lo sfidava, sarcastica e pungente.
Da quando in qua ti
interessi di cose giuste, Figlio del Diavolo?
E ogni volta quella voce riusciva ad averla vinta, perché
faceva montare dentro di lui quell'antica rabbia, quella furia cieca
che lo portava a lottare contro ciò che non era in grado di
accettare, con la stolida convinzione che gli fosse dovuto qualcosa di
diverso.
La reazione di Lucia lo aveva ferito, annientato. Ma era l'unica
reazione plausibile, l'unica che si sarebbe potuto aspettare, l'unica
che meritava. Reagire, imporsi, dar voce alla propria rabbia lo avrebbe
fatto sentire uno stupido. Certe lezioni sono fatte per essere
imparate, certe cicatrici servono da monito, anche se la sua, di
cicatrice, continua a sanguinare.
La consapevolezza del dolore che la ragazza gli aveva procurato
mandandolo via lo aveva costretto a fare i conti con i propri
sentimenti. Gli importava di lei, forse gli era sempre importato,
altrimenti l'idea che qualcuno avesse cercato di farle del male non lo
avrebbe reso così furioso, altrimenti la sua assenza adesso
non avrebbe prodotto un simile eco tanto assordante.
Ma la cosa giusta
è non far nulla...
Era giusto. O forse c'erano altri modi di non arrendersi, di
combattere. Ma l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera non aveva
conosciuto altri mezzi che il ricatto e l'omicidio.
Oh, torna in te! Fa'
ciò che sai fare, va' a prenderti ciò che vuoi...
La voce sibilava nella sua mente, come le spire di un serpente
incantatore, mischiandosi ai versi acuti dei gabbiani che volavano
spediti incontro all'orizzonte.
Non lo avrebbe fatto, non c'era alcun motivo per farlo. Lui non voleva
l'amore di quella ragazza, né voleva che lei soccombesse a
lui, non aveva mai cercato di soggiogarla, aveva sempre voluto un
rapporto alla pari per provare a se stesso la sua umanità,
la sua capacità di essere come tutti gli altri. E ci era
riuscito, fino a un certo punto. Non era stato l'uomo a distruggere
quell'affetto, era stato il Fantasma, con il suo alito di morte che
arrivava da un passato tanto lontano quanto indelebile.
A questo lui non sapeva porre rimedio. Se anche avesse voluto imporre
la sua presenza alla ragazza fino a quando lei non si fosse rassegnata,
se anche avesse voluto insistere a farsi ricevere da lei in veste di
cliente, avrebbe comunque perso quella sorta di complicità,
la spontaneità con cui Lucia lo trattava.
Ho perso. Di nuovo.
Avrebbe dovuto essere dispiaciuto per il grave turbamento che aveva
provocato a Lucia, ma in realtà riusciva a pensare solo a
ciò che lui aveva perduto. L'unica cosa che poteva fare per
lei e per se stesso era lasciarla in pace, per non dover subire di
nuovo il peso dello sguardo freddo e distante della ragazza.
La luce del giorno adesso cominciava già a riflettersi sullo
specchio d'acqua, facendo luccicare le increspature di bagliori che
ferivano la vista.
Erik decise di tornare sui suoi passi e si incamminò verso
il teatro.
Si era dato così tanto pensiero nel riflettere su Lucia, nel
riportare ordine dentro di sé, che non aveva ancora pensato
all'altro aspetto della faccenda: Graziana. Se era stata lei a mandare
quegli uomini ad aggredire la ragazza – e non poteva essere
altrimenti, dato che Lucia non aveva altri nemici – Erik non
avrebbe permesso che una cosa simile restasse impunita. La questione
aveva importanza per lui, a prescindere da Lucia. Era stato lui a
innescare una tale reazione in Graziana, per quanto gli apparisse
folle, e a lui adesso toccava fare giustizia.
Era appena giunto a teatro. Entrò da una porta secondaria e
raggiunse i suoi alloggi, immerso nei suoi pensieri. Come danneggiare
Graziana senza fare danno al San Carlo e senza mandare a monte quei
mesi di lavoro per la rappresentazione della Traviata? Mancavano solo
due settimane e non c'era tempo per architettare qualcosa che avesse
senso.
Erik osservò il suo riflesso sbiadito contro il vetro di una
finestra. Mai come quella mattina si era sentito così vuoto
e rassegnato.
Quando era giunto a Napoli e si era risvegliato in quel letto a casa
del duca dopo una lunga convalescenza, aveva desiderato di essere morto
e si era piegato al destino semplicemente perché non gli
importava più di nulla, perché era convinto di
aver distrutto tutto ciò che aveva e che non ci sarebbe mai
stato un posto nel mondo per lui, che ora che la sua dolce musa era
andata via, nessun altro avrebbe potuto provare affetto o pena per
quell'angelo dell'inferno.
E poi il destino lo aveva sorpreso, gli aveva mostrato che si
sbagliava, che se solo fosse stato disposto ad accettare le regole di
quella normalità che aveva sempre rifuggito, il mondo
avrebbe potuto accoglierlo, le persone avrebbero potuto, se non amarlo,
quanto meno stimarlo. Ma anche così, c'era qualcosa di
distorto e manchevole nel suo fato. Erik non voleva tornare ad essere
il Fantasma e, allo stesso tempo, non era capace di restare
semplicemente un uomo.
I suoi stessi pensieri sembravano sfinirlo. Si chiuse la porta della
sua camera alle spalle, poggiandosi contro lo stipite di ciliegio e
sospirando stancamente. Quando alzò lo sguardo, si
trovò davanti Fede, con in mano le lenzuola che aveva
cambiato e che doveva portare a lavare.
La ragazza aveva il viso pallido, segnato dall'accenno di occhiaie di
chi aveva passato tutta la notte sveglia. Ebbe un sussulto quando lo
vide e immediatamente abbassò la testa per sfuggire al suo
sguardo.
«Scusatemi» mormorò come se fosse una
supplica. «Io... stamattina ho fatto tardi».
Erik la fissò quasi attonito. Certo che aveva fatto tardi,
stava passando le notti a prendersi cura della sorella allettata e,
comunque, le tempistiche entro le quali veniva sistemata la sua stanza
non gli erano mai sembrate importanti.
«Non devi aver paura di me» le disse a bruciapelo.
«No, io non ho paura di voi» replicò lei
immediatamente, per un istante riuscì anche a guardarlo in
viso. «Solo che voi...».
«Sì?» Erik la esortò.
«Solo che voi, sembra che riuscite a vedere tutto».
L'uomo fissò la ragazza, un po' stupito da
quell'affermazione che non riusciva a comprendere.
«Se anche fosse, non vedo niente di male in te,
Fede».
Lei ebbe uno strano sussulto di sorpresa, come se non si aspettasse che
lui conoscesse il suo nome, poi accennò persino una specie
di timido sorriso. Fece una rapida riverenza, strinse la matassa di
lenzuola e coperte e lasciò la stanza mormorando un saluto a
mezza voce.
Erik restò qualche secondo in piedi, a fissare il vuoto
davanti a sé. L'idea arrivò improvvisa, come un
lampo e lui l'accolse con un sorriso di soddisfazione, un sorriso che
avrebbe spaventato chiunque si fosse trovato a guardarlo in quel
momento. Dopotutto poteva ben definirsi un genio e in quanto tale era
assolutamente avvezzo alle illuminazioni.
*
Madame Fantine non sapeva né leggere né scrivere,
sapeva a malapena far di conto, ma si era fatta insegnare da Lucia a
scrivere e riconoscere i nomi di tutte le ragazze della casa. Lucia
forse era convinta che gli servisse per annotare i guadagni di ogni
singola prostituta, ma non era solo per quello.
La stanza della maîtresse dell'Araba Fenice era un ambiente
angusto e spartano, distante dalle camere dove alloggiavano le ragazze,
ricavato da un angolo della cucina che era stato separato dal resto con
un muro irregolare.
Nella piccola camera non c'erano finestre, solo un piccolo lucernario
rotondo sulla parete di fondo, e ci voleva una bella forza a far girare
sui cardini lo sportellino arrugginito. Per il resto, l'arredo
consisteva in un armadio tarlato, in una cassapanca e in un letto.
La donna si alzò dal letto cigolante su cui si era stesa a
notte fonda, con la faccia ancora impiastricciata dal trucco ridotto
ora a una maschera di chiazze rosa. Le faceva male la schiena, ogni
mattina un po' di più.
Brutta cosa farsi
vecchia, brutta assai...
E come se non bastasse, ci si mettevano di mezzo pure le
preoccupazioni. Non pensava che essere la tenutaria di una casa di
piacere fosse una cosa semplice, avrebbe dovuto essere meno buona e
affezionata alle sue ragazze, forse, ma in quelle ultime settimane
sembrava che la malasorte si fosse accanita tutta su di lei e
sull'Araba Fenice. Prima il Maestro francese che si fissava con la
povera Lucia e adesso l'aggressione a quella disgraziata di Speranza. E
lei si sentiva in dovere di trovare una collocazione alla
piccirella,
perché non ce la faceva a buttarla in mezzo alla strada, non
aveva mai buttato fuori nessuno. Forse poteva usarla come cameriera, o
chissà se la ragazza sapeva cucinare... non era quella
più sveglia e intelligente, questo era sicuro, ma qualche
soluzione si sarebbe trovata. Certo, non avrebbe più
guadagnato bene come prima, ma almeno non sarebbe morta di fame.
Premendosi una mano all'altezza dei reni, Madame Fantine raggiunse la
cassapanca e alzò il coperchio, tirò fuori un
vestito dismesso e rattoppato che portava durante la giornata per stare
più comoda. Gettò l'abito sul letto e
restò qualche secondo a fissare i fogli appuntati sulla
parte interna del coperchio di legno: pagine di calendario con i nomi
delle ragazze scritti nella sua calligrafia imprecisa, e forse pure
scritti con qualche lettera messa male. Avrebbe dovuto far controllare
a Lucia, ma non voleva che lei sapesse dove teneva il suo calendario
dove segnava le date delle regole delle sue ragazze. Se qualcuna
rimaneva incinta, lei voleva saperlo prima e comunque, voleva essere
certa che a nessuna di loro venisse in testa l'idea di tenerglielo
nascosto; quello del calendario era un trucco che tutte quelle come lei
usavano.
Era capitato in passato che qualche ragazza rimanesse incinta. Era
sempre impossibile stabilire chi era il padre e se anche si fosse
saputo, il padre in questione probabilmente se ne sarebbe del tutto
disinteressato.
Madame Fantine era indulgente su un sacco di cose, ma non sull'idea di
tenere bambini in quella casa. Allo stesso tempo però,
quelli che usavano i ferri per tirare via i bambini dalla pancia delle
donne le facevano orrore, l'idea di strappare via una creatura dal
grembo di sua madre come si sradica un'erbaccia dall'orto le sembrava
mostruoso e impossibile da tollerare. I bambini malauguratamente
concepiti tra quelle mura erano venuti tutti alla luce, le ragazze che
li avevano partoriti erano state curate e coccolate per tutto il tempo
della gravidanza e della convalescenza. L'orfanotrofio di Pompei era
pieno di creature nate in un letto dell'Araba Fenice. Essere orfano o a
essere figlio di una puttana non è che facesse molta
differenza, comunque. Madame Fantine era solo contenta di non avere
sulla coscienza nessuno di quegli affarini innocenti, per il resto
doveva pensare in termini pratici perché la fame era una
brutta cosa ed evitare la fame a se stessa e alle ragazze era la sua
principale occupazione.
La donna scorse i fogli del calendario e i nomi annotati tra le righe.
«Carla il 2 del mese, Annarella e Giovanna il 4... tutto a
posto» mormorò, elencando nomi e date come se
stesse recitando un rosario. «Tina la prossima settimana.
Lucia...».
Di Lucia da un po' di tempo a questa parte aveva smesso di avere
pensiero, ma aveva continuato ad annotare il suo nome sul calendario
per semplice abitudine. E aveva fatto bene, visto che poi era arrivato
il Maestro francese... era arrivato e se n'era pure andato, o almeno
questo era quello che Madame Fantine aveva sospettato. La ragazza non
gli aveva detto niente, ma doveva essere successo qualcosa di cui lei
non voleva parlare; la sera dopo la sua ultima visita il Maestro non
era tornato.
«Lucia a giorni» disse, e poi passò
oltre, continuando a scorrere la lista di nomi.
Alla fine richiuse il coperchio con un sospiro e si decise a vestirsi.
Mentre si abbottonava l'abito, Madame Fantine si ritrovò a
pensare, come era capitato altre volte, a cosa sarebbe successo se
fosse stata Lucia a rimanere in attesa di un figlio. La donna era certa
che lei non lo avrebbe messo al mondo e poi lasciato in un
orfanotrofio, a costo di tornare a fare la sarta sull'isola dalla quale
era venuta. Lucia era diversa dalle altre ragazze, questo Madame
Fantine lo aveva sempre saputo, e in tutto quel tempo non aveva capito
se la cosa dovesse essere motivo di orgoglio o di ulteriore
preoccupazione.
*
Cecilia stava parlando con delle ballerine quando gli si
avvicinò l'inserviente, quella ragazzetta piccola e minuta
che sembrava aver paura della sua stessa ombra. La ragazza le porse un
biglietto, la salutò timidamente e si dileguò.
Il foglio di spessa carta era piegato a metà, lei lo
aprì e quasi le venne un infarto quando lesse la singola
riga annotata in una calligrafia elegante ma frettolosa.
Signorina,
vi prego di recarvi nel
mio ufficio appena vi è possibile.
Erik.
Erik. Certo, il vero nome del Maestro che nessuno osava mai
pronunciare, come se il solo dirlo lo rendesse più umano e
meno straordinario.
Era stata molto contenta di essere riuscita a incontrarlo un paio di
sere prima. E non le era parso affatto così permeato di
elegante fascino come sembrava dai racconti dei musicisti
dell'orchestra con i quali spesso parlava. Naturalmente, era tanto
elegante quanto affascinante, ma c'era qualcosa in lui, una certa
impacciata rigidità che lo faceva sembrare quasi buffo, se
non fosse stato per quegli occhi gelidi che non si accaloravano
minimamente nemmeno quando accennava un sorriso o provava a dire
qualcosa di cortese. Ma aveva sentito dire cose straordinarie su di lui
e tanto le era bastato per incuriosirla, tra l'altro, doveva ammettere
con se stessa che le aveva provocato una strana infantile emozione
incontrarlo faccia a faccia. E adesso essere stata convocata da lui la
rendeva euforica oltre ogni misura.
La richiesta in quel biglietto suonava tanto come un ordine che non
ammetteva repliche e Cecilia era certa che quel «appena vi
è possibile» significasse in realtà
«prima di subito», ma non le importava.
Lasciò le ballerine ai loro pettegolezzi e si diresse di
gran carriera verso l'ufficio del Maestro francese.
Non sapeva cosa aspettarsi da quell'incontro. Cecilia si era iscritta
al conservatorio e aveva completato gli studi con buoni voti; era
entrata al San Carlo con la raccomandazione di uno dei suoi insegnati
ma era sempre rimasta relegata al ruolo di sostituta, così
minuta e priva di fascino non aveva mai mostrato le doti necessarie per
calcare la scena come si conviene a un artista di un teatro tanto
importante, anche se quando cantava tutti restavano ammirati dalla sua
voce, così potente per una donnina tanto piccola.
La giovane donna prese un paio di lunghi respiri quando giunse davanti
alla porta chiusa, sperando di non avere l'aria di una che si era
precipitata di corsa. In un gesto istintivo, si tastò i
capelli raccolti in due trecce sollevate sulla nuca, per sincerarsi che
fossero a posto, ma i suoi dannati capelli non erano mai abbastanza in
ordine. Solo dopo qualche secondo si decise a bussare e attese
educatamente il permesso di entrare.
Il Maestro, Erik, era seduto dietro la sua scrivania. C'era un
pittoresco disordine di fogli male impilati in un angolo dell'elegante
piano di legno e sulla superficie liscia e lucida spuntavano di tanto
in tanto, come funghi in un prato, dei fogli appallottolati e lasciati
lì. Su una mensola, cecilia notò anche una
scatola di legno aperta con uno strano ingranaggio che sembrava tanto
essere il meccanismo interno di un carillon. Tutto si poteva dire di
quell'uomo tranne che non fosse assolutamente singolare, e la mezza
maschera bianca che si ostinava a portare non era nemmeno il
particolare più bizzarro.
«Buon giorno, signorina Mauriello. Sedete, prego»
la invitò l'uomo, indicandole con un cenno la sedia libera
davanti alla scrivania. Lei obbedì e lo guardò in
attesa che le dicesse il motivo di quell'inaspettata convocazione.
Ora sì che sembrava davvero misterioso e affascinante. Forse
era capace di rendersi tale solo quando sceglieva lui il come e il
quando di un incontro oppure solo nei momenti in cui poteva esercitare
la sua autorità su chi gli era sottoposto, come in quel caso.
Sei un prepotente, eh,
Erik?
«Innanzitutto devo porvi le mie scuse»
esordì l'uomo, con un tono di infinita squisitezza che fu
capace di confondere la ragazza.
«Le... vostre scuse, Maestro?» domandò
lei, titubante.
«Sì. In tutto questo tempo non vi ho dato la
giusta considerazione, ed è stato molto scortese da parte
mia, oltre che negligente da un punto di vista professionale»
«Maestro, sono solo una sostituta...»
«Togliete quel
solo.
Non vi ho mai chiamata per le prove, scioccamente non ho preso in
considerazione la possibilità che la signorina Rovesti
potesse non essere in grado di cantare la sera della prima»
«Da che ricordo, la signorina Rovesti non è mai
mancata a un evento importante»
«Non vuol dire che ciò non possa
accadere» replicò Erik con una punta di durezza.
Non gli piaceva essere contraddetto, dietro la sua maschera di perfetta
cortesia doveva celarsi una persona molto impaziente e forse anche
assai brusca, ma la sua voce aveva qualcosa di strano, Cecilia si
convinse subito che lui avrebbe convinto la Terra a girare al contrario
solo con il giusto tono di voce.
«Vorrei provare con voi» aggiunse il Maestro.
La donna aggrottò le sopracciglia,
«Mi fa molto piacere, ma devo farvi notare che mancano meno
di due settimane alla sera della prima» gli disse in tono
pratico.
«Siete così poco dotata che un paio di settimane
non basterebbero?» la provocò lui, diretto e
perentorio. «Sono certo che non è così.
Non voglio lasciare nulla al caso, non voglio andare alla cieca
nell'eventualità in cui la signorina Rovesti dovesse avere
dei problemi la sera della prima».
La Rovesti salirebbe sul
palco anche moribonda piuttosto che farsi sostituire!
Cecilia dovette fare un grande sforzo per non scoppiare a ridere,
«Voi avete carta bianca e tutto il teatro è al
vostro servizio» asserì. «Se voi volete
provare con me, io sarò ben lieta di accontentarvi, ma posso
esprimere la mia opinione?»
«Prego. Anche perché credo che la esprimereste
comunque»
«È inutile, e quando la signorina Rovesti lo
saprà si farà venire una crisi di nervi e voi non
avrete altro che tanta tensione tra la compagnia».
Erik si lasciò cadere con le spalle contro lo schienale
della sua poltrona. All'improvviso sorrise, anche se non era un vero e
proprio sorriso, era una smorfia tirata che sembrava quasi minacciosa.
Mosse la mano in un gesto di disinteresse, con la stessa grazia di un
felino che si prepara ad attaccare una preda.
«La signorina Rovesti non lo saprà. Voi e io
proveremo quando gli altri saranno andati via» concluse,
tranquillo. «Cominceremo oggi stesso»
«Sembra una congiura»
«Forse lo è. Buona giornata, signorina
Mauriello».
Cecilia restò impietrita a fissare l'uomo sbattendo
ritmicamente le palpebre. Si alzò goffamente, tanto il suo
atteggiamento l'aveva spiazzata, e lasciò la stanza
mormorando un saluto in modo così confusionario che quasi
sembrò che la lingua le si fosse annodata contro il palato.
Uscì dall'ufficio e si appoggiò con le spalle
contro il muro dell'anticamera.
Non sapeva cosa il Maestro francese stesse tramando, ma era quasi del
tutto certa che la cosa aveva a che fare con lei che cantava ne La
Traviata al posto di Graziana Rovesti la sera della prima.
*******
~ Parigi, 20 maggio 1892 ~
Il visconte De Chagny sembrava davvero amareggiato a causa di
quell'impegno imprevisto che lo aveva costretto a partire quella
mattina, qualcosa che aveva a che fare con dei possedimenti di famiglia
in Normandia. Si era sporto fuori dal finestrino quasi con tutto il
busto, per chinarsi verso Gustave e dirgli: «Mi raccomando,
prenditi cura di tua madre», poi aveva dato a suo figlio un
affettuoso scappellotto in mezzo alla testa ed era partito.
Gustave sembrava compiaciuto; non che trovasse niente di piacevole nel
fatto che sua madre fosse stata poco bene, ma se non fosse stato per
quella eventualità, suo padre lo avrebbe trascinato con
sé ad occuparsi di qualcosa che, a detta del giovane biondo,
doveva essere molto noioso.
Louis non aveva idea di cosa volesse dire avere dei possedimenti di
famiglia a centinaia di chilometri da casa. Il lavoro di suo padre gli
aveva permesso una vita agiata e di certo non poteva dire di aver
provato sulla sua pelle la miseria, però ne aveva vista
tanta, di miseria, nel suo paese. Una miseria contro la quale nessuno
aveva ancora mai alzato un dito, nemmeno quell'Italia per cui le
generazioni prima di lui avevano dato la vita, il sudore e il sangue.
Ma non era quello il momento di indugiare in simili riflessioni. Louis
era del tutto intenzionato ad aiutare Gustave a prendersi cura di sua
madre, se c'era qualcosa in cui loro due potevano essere d'aiuto a
madame De Chagny, dato che ancora si sentiva in colpa per quello che
era successo durante la festa di compleanno del suo amico.
Christine salutò Raoul con la tenerezza malinconia di una
moglie ancora molto innamorata, che al solo pensiero della partenza
già sente la nostalgia del marito. Restò a
guardare la carrozza allontanarsi lungo il viale alberato e poi si
voltò e rientrò in casa con l'aria di qualcuno
che sta pensando a qualcosa di macchinoso da attuare.
«Mi è venuta un'idea!»
esclamò all'improvviso, battendo le mani con l'aria
entusiasta di una bambina e guardando i due ragazzi che si erano seduti
su un sofà.
«Madre?» domandò Gustave un po'
perplesso.
Forse Christine voleva semplicemente tenersi impegnata per non pensare
alla mancanza del visconte.
«Era da tempo che volevo sistemare la soffitta, ora che ho
del tempo a disposizione e posso contare sull'aiuto di due giovanotti,
credo proprio che ne approfitterò, se a Louis non
dispiace»
«Ma voi dovete riposare, madre!»
protestò il giovane De Chagny. «La soffitta
possono pulirla i domestici»
«No! I ricordi sono nostri, tocca a noi fare ordine.
È una lezione che dovresti ricordare, Gustave» lo
rimbeccò lei, voltandosi con una specie di piroetta che fece
disegnare un cerchio perfetto alla sua gonna di raso. Rise e la sua
risata sembrò quella di una bambina.
Louis restò a fissarla mentre si avviava verso le scale. Era
perplesso, c'era una strana vitalità che animava lo sguardo
della donna, una specie di euforia propria di chi ha tra le mani
qualcosa di nuovo con cui cimentarsi o di chi sta per partire per una
qualche straordinaria avventura.
«Beh, magari sarà divertente» disse alla
fine il ragazzo, dando una gomitata al suo amico.
Gustave si arrese con un sospiro e insieme a Louis seguì sua
madre fino in soffitta.
La soffitta della casa seguiva il perimetro del corpo centrale della
villa, era un'enorme stanza quadrata con sottili lucernari, ingombra di
scatoli e vecchi mobili coperti ci polvere.
Louis si tolse la giacca e la appese a un gancio, al riparo dalla
fuliggine.
«Cosa ne dite, amico mio?» domandò
Christine, guardandolo con un mezzo sorriso.
«Che sarà un lungo lavoro»
«Avete forse altri impegni?».
Il giovane sorrise, se anche ne avesse avuti, vi avrebbe rinunciato
più che volentieri.
«No, Christine» concluse.
La donna cominciò ad aprire elle scatole dalle quali
estrasse una serie di statuine di porcellana avvolte dentro a degli
stracci perché non urtassero tra loro. Le depose una ad una
sulla superficie di un vecchio tavolino tarlato che era addossato al
muro. Il risultato fu che in dieci minuti c'era una fila di orribili
pastorelli, donnine e madonne di porcellana allineate sotto ai loro
occhi.
«Queste immagino fossero della nonna»
borbottò Gustave, guardandole con una smorfia.
«Non so nemmeno perché le ho tirate fuori da
quello scatolo» commentò Christine scuotendo il
capo. «Potremmo portarle da un qualche rigattiere. Ah, ma
cosa abbiamo qui?».
Christine si diresse verso l'angolo più remoto della stanza,
dove il soffitto si inclinava e lei era costretta a procedere curva.
«Oh, no, Dio Onnipotente, ti prego...»
bofonchiò Gustave riconoscendo l'oggetto che sua madre stava
faticosamente trascinando verso il centro della soffitta.
I due ragazzi si affrettarono a darle una mano, sporcandosi le dita di
polvere e inalando l'aria viziata che c'era nella stanza.
A Louis venne in mente di quando lui e Gustave erano stati a visitare
il teatro dell'Opera. Anche lì aveva respirato quell'aria
polverosa e stagnante, ma ogni angolo di quel posto gridava malinconia
– e forse qualcosa di ancora più drammatico. E
scendendo le scale non si andava verso la luce, verso una casa abitata
da una famiglia felice, ma verso un luogo fatto di buio, dove un'anima
era rimasta a patire la solitudine, perché Louis era
convinto che in quei sotterranei fosse davvero vissuto qualcuno.
L'oggetto che madame De Chagny aveva scelto di ispezionare era una
culla. Una culla con il dondolo verniciata di bianco, tenuta al riparo
dalla polvere grazie a un telo grezzo.
«Oh, che tenerezza» esclamò Louis
canzonatorio, battendo una mano sulla schiena di Gustave. In
realtà si stava chiedendo se a casa sua, nella soffitta, sua
madre avesse conservato la sua culla.
«Non capisco la necessità di conservare una cosa
simile, è ingombrante» borbottò il
ragazzo biondo.
Sua madre lo guardò scuotendo la testa,
«Un giorno, se Dio vorrà concederti la benedizione
dei figli, forse capirai» sospirò.
Dentro la culla, sopra al materasso leggermente ingiallito dal tempo,
erano sistemate due scatole che Christine tirò fuori,
intenzionata ad esaminarne il contenuto.
Da una scatola uscirono fuori delle biglie di vetro colorato e una
cartellina piena di fogli. Louis fece per prenderla, ma l'amico gliela
strappò di mano e si avvicinò a uno dei
lucernari, sfruttando la poca luce che filtrava dai vetri impolverati
per esaminare il contenuto della cartellina, sicuramente i suoi primi
disegni da bambino. Louis lo lasciò a scorrere quei fogli,
osservando per qualche secondo la sua aria assorta, senza capire se
fosse emozionato, divertito o disgustato da quello che vedeva.
Piuttosto, lui aiutò Christine a sollevare l'altra scatola
che era molto più pesante. La donna gli fece cenno di
posarla sul ripiano di un vecchio comò e l'aprì,
tirando fuori un carillon con sopra un pupazzo a forma di animale
piuttosto irriconoscibile, non si capiva se era una pessima imitazione
di uno scoiattolo o una mancata riproduzione di un cane.
Louis osservò perplesso lo strano oggetto mentre Christine
lo puliva alla buona con le dita.
«Ne ho visti di migliori» gli disse lei
all'improvviso. «Fatti meglio, con molta più cura
per i particolari». Poi diede la carica e il carillon
cominciò a suonare un motivo di Mozart, mentre l'animale
muoveva meccanicamente le zampe anteriori su e giù.
«Anche io ne ho visti di migliori. Ne avevo uno che mi aveva
costruito mio padre, era veramente ben fatto»
«Vostro padre sapeva costruire carillon? Ma mi avevate detto
che era un musicista». La voce di Christine aveva un tono
allegro, leggero, ma i suoi occhi sembravano molto seri e concentrati
su quello che lui stava per dire.
«Era un musicista, ma sapeva costruire un sacco di cose,
credo che sarebbe stato in grado di costruire anche una
città se fosse stato necessario» rispose il
ragazzo, scuotendo la testa con un mezzo sorriso. Gli piaceva ricordare
le cose migliori di lui.
«Che uomo era? Gli somigliate?»
«Oh, è una buffa domanda, sapete. Era un uomo
complicato, come
tutti gli artisti immagino. Mia madre dice che gli somiglio solo nelle
cose migliori... e nella testardaggine»
«Un testardo, certo...».
Lo sguardo di Christine si fece cupo e lontano. Nelle sue parole c'era
qualcosa che pesava e di colpo Louis si sentì turbato.
«Avete dimestichezza con i testardi?» le chiese,
con aria ironica, cercando di alleggerire quella strana tensione che di
colpo era caduta su di loro.
«Ne ho conosciuto uno, diciamo così...»
mormorò lei, senza ricambiare il sorriso del suo giovane
interlocutore, ma poi si riscosse all'improvviso e il suo sguardo
tornò sereno. «Mi stavate dicendo di vostro padre.
Era felice?».
Louis aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra. Era una
domanda strana, insolita e di colpo anche lui si sentì cupo
«Mi piace pensare che io e mia madre gli bastassimo. Aveva
parecchi dispiaceri da dimenticare e voglio credere che ci sia riuscito
prima di morire».
Christine sorrise, non era un sorriso allegro, era più che
altro malinconico e tenero allo stesso tempo, e fece sentire a Louis un
colpo al cuore.
«Sono sicura che nessuno può avere un figlio come
voi ed essere infelice» concluse la donna.
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Da oggi sono più o meno in vacanza e non avendo altri
capitoli pronti non sono sicura che riuscirò ad aggiornare
entro una settimana (ma ciò on toglie che ci
proverò). Se non ci
leggiamo
mercoledì prossimo vi prometto comunque che non
vi farò aspettare secoli per l'aggiornamento ^^
La lista dei motivi per cui voglio concludere la stesura di questa
fanfiction si va infittendo, quindi non mancherò di
provvedere.
Your
obidient servant.