Titolo:
Drunk hopes
Autore:
Sion
Fandom:
Hunger Games
Rating:
Verde.
Personaggi/Pairing:
Haymitch Abernathy, Effie Trinket, Primrose Everdeen, Katniss
Everdeen, OC (Danae Werthart)
Lunghezza:
2126 parole.
Avvertimenti:
Original Character.
Genere:
Generale.
Disclaimer:
Hunger Games, tutti i personaggi nominati e l’universo in cui
vivono non mi appartengono (ad eccezione di Danae Werthart), ma sono
di proprietà di Suzanne Collins.
Note
dell'Autore:
Che dire, amo Haymitch. Quindi... ecco. La mietitura dei 74esimi
Hunger Games visti da un paio d’occhi un po’
ubriachi.
Drunk
hopes
Aveva
dodici anni. Se la ricordava perfettamente, perché aveva
un’aria
così innocente, fragile, che i suoi occhi grigi gli erano
rimasti
impressi sin dal primo momento in cui l’aveva vista. Ed era
abbastanza strano, visto che l’aveva vista da ubriaco, sul
palco
della Mietitura.
Si
chiamava Danae. Danae Werth-qualcosa, il cognome l’aveva
rimosso
nel momento in cui avevano estratto il suo nome dalla boccia
maledetta dove erano contenuti i nomi di tutti i maledetti ragazzini
del maledetto Distretto 12. Non ricordava mai i cognomi dei tributi
scelti: avrebbe ricordato il viso della madre, del padre, dei
parenti. Ma i nomi li ricordava tutti. Dai Cinquantunesimi Hunger
Games in poi.
Quando
Danae venne scelta erano stati indetti i Sessantasettesimi Hunger
Games. Diciassette nomi. Diciassette nomi scritti su lapidi scolpite
da scalpellini male in arnese. Diciassette cognomi rimossi.
Non
ricordava quasi più i volti di metà dei tributi
che aveva seguito.
Ma quello di Danae era impresso a fuoco nelle sue retine: lunghi
capelli neri, pelle olivastra e liscia, occhi grigi. Facce da
Giacimento, tutte simili, eppure nella sua c’era qualcosa di
diverso. Forse era il modo in cui gli occhi assunsero una sfumatura
rassegnata quando arrivarono a Capitol City a rendergliela
indimenticabile. Tutti i tributi avevano occhi spaventati,
terrorizzati, arrabbiati, delusi, determinati, a volte, ma mai
rassegnati.
Danae
si era arresa ancora prima di cominciare. Sapeva, dal momento in cui
aveva messo piede nel Palazzo di Giustizia, che non vi sarebbe mai
più ritornata, lì dentro. Era troppo magra,
troppo poco forte,
troppo lenta, troppo buona. Non aveva l’assassinio nel
sangue.
Haymitch
Abernathy ricordava nitidamente anche il viso indifferente del
Favorito del Distretto 1 che l’aveva impalata con una picca
nel
bagno di sangue. Quando era andato in bagno, aveva vomitato. Non
avrebbe dovuto stupirsi, impressionarsi tanto: da quando aveva
memoria aveva visto morire in modo simile talmente tanti giovani che
avrebbe potuto scriverci una monografia. Ma Danae era una bambina.
Era minuscola, indifesa. E arresa.
Effie
Trinket si era lamentata per ore di quella bambina. Di come avrebbe
dovuto allontanarsi in fretta, di come Haymitch fosse un pessimo
mentore, di come il suo compagno di Distretto avrebbe forse dovuto
aiutarla. Per tutta risposta, Haymitch le ruttò in faccia,
per poi
sedersi accanto all’operatore che teneva d’occhio i
tributi del
Distretto 12, pronto a veder morire anche il tributo maschio.
Forse
fu Danae a far scattare nella sua testa annebbiata dall’alcol
la
molla della rassegnazione. Non combatteva neanche più per
tenere in
vita i propri tributi: sarebbero morti comunque. Il Distretto 12 non
produceva armi, i suoi abitanti non sapevano come procurarsi del cibo
da soli, non sapevano costruire niente. Il Distretto 12 faceva il
carbone, e il carbone bruciava. E basta. Si consumava, a volte
lentamente, a volte con un’esplosione, ma era destinato a
morire.
Lui
aveva vinto, eppure da ventiquattro anni continuava a perdere.
La
mattina della Settantaquattresima Mietitura si svegliò con
un gran
mal di testa. E quella non era una novità. Stringeva in un
pugno il
coltello, nell’altro una bottiglia di liquore. E neanche
quella era
una novità. Guardò fuori dalla finestra della
cucina con gli occhi
cisposi di sonno e la bocca che sapeva di merda. Piantò il
coltello
nel tavolo, osservando per un momento il lucore tenue della lama
sporca al sole, e bevve dell’acqua dal rubinetto.
Per
buona misura, bevve anche una lunga sorsata di liquore.
Gli
bruciava i polmoni e gli incendiava lo stomaco, ma era la sensazione
più vicina alla vita che provava da anni.
Uscì
sul pianerottolo della sua fatiscente casa nel Villaggio dei
Vincitori, penosamente vuoto. Bevve un altro po’ di liquore,
giusto
perché quella visione lo deprimeva in modo tristissimo.
Non
voleva partecipare. Non voleva neanche vedere in faccia gli ennesimi
due ragazzini che sarebbero morti massacrati nell’arena. Che
morissero pure, ma che non lo mettessero in mezzo.
Attraverso
i fiumi dell’alcol si ricordò di essere
l’unico che potesse
essere messo in mezzo. Sbuffò e rientrò in casa,
indossando le
scarpe buone ormai ridotte a brandelli ed una vecchia giacca
sbrindellata.
Non
ricordò molto del tragitto da casa sua al palco. Solo
spezzoni: un
sasso in cui era inciampato, il vociare della piazza, lui che
spintonava una madre angosciata, il caracollare sulle scale, Effie
Trinket che lo guardava disgustata, il sindaco mortificato.
Per
un momento rimase immobile a fissare la folla di ragazzi. Poi
urlò.
«Condoglianze!»
Probabilmente
gli riuscì solo uno stridio incomprensibile, visto che la
lingua gli
si impastò mentre parlava e inciampò
nell’ultima sillaba, ma non
se ne curò. Li sentì applaudire e avrebbe voluto
urlare «Cosa
avete da applaudire, stupidi, due di voi moriranno e sarà
anche
colpa mia», ma si lasciò cadere su una sedia e
guardò le gambe di
Effie Trinket, magre e fasciate da un vestito verde. Per un momento
pensò che erano molto belle, e senza rifletterci due volte
si sporse
per abbracciarla.
Ma
Effie si allontanò, allarmata. Non si accorse neanche dei
riccioli
rosa che si spostavano, calando su un lato, ma la cosa lo
divertì
molto e perciò ridacchiò.
Il
sindaco la chiamò per presentarla al pubblico che ormai la
conosceva
da anni e da anni, probabilmente, la detestava, ma lui si
limitò ad
emettere un rutto sommesso e a fissarle il didietro, per evitare di
concentrarsi sulla sua voce eccessivamente allegra, artificiosa.
Blaterò
sugli Hunger Games, e dal tono con cui parlava sarebbero sembrati
quasi una cosa divertente. Quasi.
Haymitch
si grattò una guancia e spostò lo sguardo
annebbiato sulla folla.
Volti spaventati, angosciati. Gli facevano un po’ pena,
doveva
ammetterlo. Essere sottoposti ogni anno a quella tortura era una
crudeltà che solo Capitol avrebbe potuto ideare. A volte
ringraziava
Dio per essere stato scelto e per aver vinto. Poi pensava alle altre
quarantasette persone che erano morte in quell’Edizione della
Memoria e beveva fino a svenire.
Si
rese conto dopo qualche secondo che l’estrazione dei nomi era
cominciata, perché vide il didietro di Effie Trinket
allontanarsi
dal centro del palco per spostarsi verso la prima boccia, quella
delle donne.
Ah,
le femmine. Erano sempre le più difficili da sopportare, con
quella
loro aria innocente e ingenua. Come Danae. Ebbe l’impulso di
alzarsi e calciare via la boccia, ma un conato di vomito gli
impedì
di muoversi e rendersi ancora più ridicolo in diretta
nazionale.
Non
che gli importasse.
Per
un momento si chiese se non fosse diventato sordo, poi
intercettò la
mano di Effie che estraeva il nome e avvertì il silenzio
denso che
avvolgeva la piazza. Avevano tutti una paura marcia, lo sapeva.
Guardò il pubblico e vide che chiunque, in quel momento,
stava
pensando ‘Ti prego, non io’. Sarebbero stati capaci
anche di
mandare avanti un fratello, pur di non essere scelti. E lui non li
avrebbe biasimati.
Non
erano Favoriti, non avevano preparazione. Erano bambini mandati allo
sbaraglio con un’arma che non sapevano usare in
un’arena la cui
unica funzione era uccidere. La loro non era cattiveria, ma sincero
terrore.
«Primrose
Everdeen».
Cavolo,
questa aveva anche un nome delicato.
Dopo
un secondo di esitazione si fece avanti una bambina minuscola,
bionda, con la pelle pallida, e sembrava un fiore chiaro, di quelli
che crescevano nel Prato ad Aprile. La vide, e seppe che sarebbe
morta. Probabilmente al bagno di sangue. Non c’era neanche
bisogno
di darsi pena per salvarla.
Aspettò
di vederla salire sul palco per guardarla bene in faccia, ma la
bambina non salì.
«Prim!»
Haymitch
Abernathy alzò gli occhi verso la voce, aspettandosi di
vedere una
madre addolorata. E invece vide uno squarcio nel compatto squadrone
di ragazzi, ed una giovane, sui quindici anni, vestita
d’azzurro,
che camminava velocemente verso la tale Primrose, e proprio mentre
stava per salire, la spinse e usò il proprio corpo come
scudo,
fronteggiando Effie Trinket e il sindaco.
«Mi
offro volontaria! Mi offro volontaria per il tributo!»
Ah,
questa non se l’aspettava. Si sarebbe giocato tutto
l’alcol del
mondo che quella fatina vestita d’azzurro era la sorella del
tributo scelto. Avrebbe voluto farsi una risata, sopratutto
perché
poteva vedere i deboli ingranaggi nel cervello di Effie lavorare a
velocità atomica. Nel Distretto 12 non si vedeva un
volontario da...
sempre.
Insomma,
dovevi essere davvero stupido per voler andare a morire. O avere un
coraggio straordinario.
Mentre
il sindaco ed Effie brontolavano tra loro — era una cosa
talmente
nuova che non sapevano come comportarsi, Haymitch si sarebbe giocato
altro alcol in proposito — si prese la briga di guardare la
volontaria.
Non
sembrava la sorella di Primrose. Era più alta, lunghi
capelli neri
intrecciati sul capo, pelle olivastra, occhi grigi. Faccia da
Giacimento.
Faccia
da Giacimento.
Il
viso di Danae lo colpì come un pugno nello stomaco, e seppe
che il
viso della volontaria gli avrebbe fatto compagnia molto presto,
così
come il ricordo della sua prossima morte.
Sentì
Effie e il sindaco parlare ad alta voce, adesso, e il tono triste del
sindaco lo spinse a riportare la propria attenzione sulla scena che
si stava svolgendo sotto al palco. La bambina iniziò a
gridare,
scalciare, e un ragazzo — identico alla volontaria, tranne
che per
i capelli decisamente più corti e l’aria
decisamente più virile —
la sollevò da terra portandola via.
Effie
ci avrebbe marciato su come un panzer, su questa cosa. Era
esattamente quello che aveva sempre voluto: suspense, azione, il
pubblico col fiato sospeso. Si sorprese a pensare che era davvero
vuota come il guscio di una lumaca.
Dal
breve scambio di battute tra Effie e la volontaria, Haymitch ne colse
il nome. Katniss Everdeen. Appunto, la sorella della bambina.
Si
passò una mano tra i capelli lerci e pensò che
quella sarebbe stata
davvero una bella gatta da pelare. Katniss doveva essere un osso
duro, se aveva avuto il fegato di presentarsi come volontaria per
salvare la sorella, ed oltretutto si sarebbe aspettato da lei lacrime
e ripensamenti, e invece se ne stava lì, immobile, con Effie
che si
gingillava elogiandola.
Quel
pagliaccio imparruccato chiese un applauso. Haymitch sentì
una
risata impigliarsi nella gola quando alla sua richiesta, il Distretto
12 rispose col silenzio. Un silenzio denso, accusatorio, il silenzio
della protesta. Si chiese chi dovessero essere, per quel distretto,
Primrose e Katniss Everdeen. Aveva smesso di vivere tra la gente da
anni, e per lui quei nomi non erano niente più di due fili
d’erba
in un prato.
Però,
la cosa che successe dopo lo sorprese. Lentamente, il pubblico
portò
l’indice, il medio e l’anulare della mano destra
alle labbra,
baciò le dita e le alzò verso il palco.
Per
un secondo, un secondo solo, ad Haymitch venne da piangere. Forse fu
l’alcol, forse fu il viso di Danae che si sovrapponeva al
viso di
Katniss Everdeen, forse fu la forza, la determinazione, eppure
l’incertezza che colse negli occhi grigi — occhi da
Giacimento,
su un viso da Giacimento — della giovane, forse fu quel gesto
di
protesta, di affetto, forse fu solo la speranza che premeva per
uscire, ma Haymitch si alzò in piedi, barcollante,
caracollando
verso Katniss.
Le
passò un braccio attorno alle spalle, guardando verso il
pubblico, e
berciò: «Guardatela. Guardate questa
qui!». Incontrò per un altro
secondo gli occhi grigi del tributo, e non vide più Danae,
ma una
giovane donna tanto stolta quanto coraggiosa che aveva rischiato
tutto per sua sorella. E gli piacque. Gli piacque perché
sembrava
vera, tanto vera da spaventare, quando tutto ciò che vedeva
da anni
erano solo mostri, spettri e incubi.
«Mi
piace! Ha un gran...»
Avrebbe
voluto dire cuore. Ma seppe che non era la risposta giusta.
«Fegato!»,
riprese, trionfante. Si allontanò da lei e si
portò a passi incerti
davanti al palco. «Più di voi!»,
gridò, rivolgendosi al pubblico.
Si volse verso una telecamera, e in quel vetro pulito alla perfezione
vide gli occhi di tutta Capitol, di tutti i distretti, di tutta
Panem, nel bene e nel male puntati su di sé. Vide odio, vide
vuotezza, vide tutto ciò che più lo disgustava al
mondo, e fu
puntando un indice verso la telecamera che urlò, con tutto
il fiato
che aveva in gola, «Più di voi!»
Sentì
il capo girare, forse per l’atto di ribellione, o,
più
probabilmente, per l’alcol ingollato prima di arrivare alla
Mietitura.
Avrebbe
voluto gridare ancora, sfogare tutto l’odio e la rabbia che
provava
per quel Paese infame, per quel governo di cani rognosi, avrebbe
voluto urlare fino a perdere la voce, fino ad essere ucciso, fino ad
essere mandato via a calci nel culo, avrebbe voluto davvero tanto,
per se stesso, per Danae, per questa Katniss, per tutti quelli che
aveva perso e per ciò che non aveva mai trovato, ma il suo
corpo non
resse, e cadde.
L’ultima
cosa che pensò, prima di perdere i sensi, fu che forse
questi Hunger
Games valeva la pena giocarli. E giocarli per vincerli.
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