Lie
to me
Virginia Pepper Potts era terribilmente stanca.
Non ricordava più l’ultima volta che, guardandosi allo
specchio, si era vista senza occhiaie; ormai erano diventate compagne
inseparabili per lei e di tanto in tanto era talmente rassegnata alla
loro presenza che dimenticava di coprirle con il trucco.
Non si trattava soltanto della spossatezza fisica, altrimenti
avrebbe potuto reggerla senza un solo lamento.
Fin da bambina si era impegnata in qualsiasi cosa facesse, era
parte del suo carattere sforzarsi per ottenere i migliori risultati
possibili. Era una donna orgogliosa, Pepper. Ma da tempo quella
stanchezza che la ossessionava non aveva più nulla a che spartire
con il semplice stress da stakanovismo.
Quando aveva cominciato a lavorare con Tony Stark, si era sentita
realizzata. Il posto al fianco di quell’uomo sembrava esserle stato
cucito addosso, tanto era a proprio agio nell’occuparlo.
Sebbene comprendesse anche lo svolgimento di compiti ingrati, come
portare fuori la spazzatura quando lui non ne aveva voglia, per lei
aveva rappresentato il miglior traguardo in cui avrebbe potuto
sperare: fare parte di qualcosa di davvero importante, qualcosa che
garantiva la sicurezza degli Stati Uniti, e lavorare a stretto
contatto con uno degli uomini più intelligenti del pianeta.
Non si era resa conto che, accettando quel lavoro, aveva mosso il
primo passo verso la distruzione.
Con il senno di poi, era fin troppo semplice giudicare quella
decisione come un grave errore, mentre all’epoca era stata così
orgogliosa di essere stata scelta. Proprio lei, proprio la ragazzina
con le lentiggini e gli occhiali che veniva additata come “secchiona”
e non aveva mai avuto un ragazzo.
Aveva dato tutto a quel lavoro, tutto. Tempo, denaro, sentimenti.
Dall’alto della propria arroganza, era stata convinta di non
fare la fine di ogni altra donna che avesse incrociato Tony Stark, ma
naturalmente aveva sbagliato. Ancora. Si era innamorata di lui.
Con lentezza, ma senza che lei potesse opporsi in alcun modo, i
suoi obiettivi avevano cominciato a cambiare. “Fare bene il
mio
lavoro” era stato soppiantato da “Proteggere Tony a
tutti
i costi” e quel “a tutti i costi” aveva presto visto i
propri frutti, nel momento in cui Pepper aveva schiacciato il bottone
che avrebbe liberato l’energia del reattore Arc.
Aveva esitato soltanto perché Tony era sulla traiettoria
dell’esplosione. Non aveva esitato all’idea di uccidere una
persona, per quanto si trattasse di Obadiah Stane, che aveva tradito
tutti loro. L’aveva ucciso lei, anche se Tony se ne era preso la
responsabilità.
Ma non era stato lui a premere quel bottone.
Ciononostante, aveva voluto arrendersi a quella piccola menzogna e
seppellire la verità in fondo al proprio cuore, perché pensare che
Iron Man aveva combattuto per legittima difesa era meglio che pensare
che Pepper Potts aveva ucciso per vendetta, perché aveva visto Tony
legato e imbavagliato in mano a dei terroristi senza scrupoli in un
video salvato nel computer di Stane.
Aveva celato quei ricordi nella parte più angusta della sua
mente, ma non erano stati cancellati. Niente avrebbe mai potuto
cancellarli.
E, inesorabili, avevano cominciato a rosicchiare il suo cuore.
Successivamente, allontanarsi da Tony e recuperare il loro
vecchio, comodo rapporto tra segretaria e datore di lavoro era
diventato sempre più improbabile e ridicolo.
Quando l’uomo l’aveva promossa ad amministratore delegato, un
angolo della sua anima era stato contento, aveva sperato che, con il
carico di lavoro che le sarebbe pesato addosso, sarebbe riuscita a
distrarsi dal pensiero di Tony che le salvava la vita, Tony che le
sorrideva, Tony che era sul punto di baciarla e poi la lasciava sola
su un balcone, ad aspettare un drink che non sarebbe arrivato mai.
Era stato allora che la loro relazione aveva preso a sgretolarsi.
Pepper non era una sciocca: sapeva che Tony le nascondeva
qualcosa, sapeva che ogni volta che le sorrideva le stava mentendo
spudoratamente, sapeva che dietro ai suoi comportamenti infantili e
inopportuni doveva esserci qualcosa. Qualcosa di
orribile, se
preoccupava persino Anthony Stark al punto da spingerlo ad affogarne
la consapevolezza nell’alcol, così tanto alcol che la donna aveva
dovuto assistere, impotente, mentre combatteva furiosamente contro il
suo migliore amico.
Doveva essere stato in quel momento che si era resa conto di non
amarlo più.
Anche se lui poi l’aveva baciata e lei si era stretta a lui,
grata d’essere stata tratta in salvo e di essere ancora viva, non
lo amava più e lo aveva messo in chiaro quando nessuno dei due era
più stato ubriaco della gioia d’aver sconfitto Vanko, quando erano
stati entrambi abbastanza seri per ascoltarsi, per capirsi.
Aveva temuto che Tony avrebbe preferito allontanarla da sé ed era
stata pronta ad accettarne le conseguenze, ma stranamente l’uomo
aveva rispettato la sua decisione e non aveva fatto cenno di volersi
separare da lei, almeno sotto il profilo lavorativo. Era diventato
protettivo, preoccupato, premuroso, ma Pepper non vi aveva dato
troppo peso, aveva attribuito quel comportamento a una speranza
istintiva di Tony di poterla riavere e si era sforzata di
assecondarlo, in attesa che l’uomo si facesse una ragione della
loro storia finita, mai davvero iniziata.
Troppo presto si era accorta che, sebbene il loro rapporto si
fosse ridotto a un’amicizia molto profonda, era ancora estremamente
legata a lui, più di quanto sarebbe stato lecito.
Quando lo riaccompagnava a casa in macchina dalle Stark
Industries, di tanto in tanto scopriva tagli e lividi disseminati sul
suo corpo, specialmente lungo le braccia, e, se gli chiedeva
spiegazioni, intuiva immediatamente che Tony le stava nascondendo la
verità per placarla. E si sentiva ferita come allora, come quando lo
amava, e sprofondava un po’ di più nell’abisso.
Una nuova abrasione, una nuova menzogna, lei che andava giù di
qualche altro centimetro.
C’erano state delle sere in cui, da sola nel proprio
appartamento, si convinceva che la pressione l’avrebbe schiacciata,
che non poteva più reggere.
Pepper Potts stava affogando.
Affogava nella consapevolezza di essersi macchiata le mani di
sangue, nelle menzogne, nella disperazione, nella solitudine. Aveva
creduto di poter sopportare qualsiasi cosa, aveva creduto di poter
diventare davvero qualcuno.
E adesso era qualcuno – il suo nome era sulla bocca di chiunque
– ma affogava.
Poi era arrivata Natasha.
O meglio, c’era sempre stata, ma finalmente Pepper si era
accorta della sua presenza. Lei – Pepper lo sapeva – era stata la
mano che aveva afferrato nel tentativo di trarsi fuori dall’acqua e
respirare di nuovo aria pulita.
Al tempo del loro primo incontro, era ancora abbastanza gelosa di
Tony da non vederla di buon occhio per la sua bellezza ed efficienza;
nel momento in cui aveva capito che la donna non mirava affatto al
conteso letto di Iron Man, aveva cominciato ad apprezzarne
l’intelligenza, la sagacia e la professionalità.
Era bastato poco perché, dovunque si trovasse, Natasha fosse al
suo fianco.
Natalie Rushman, così si faceva chiamare, e quando Pepper aveva
scoperto che il suo vero nome era Natasha Romanoff e che nulla di
quanto le aveva raccontato era vero, un angolo del suo cuore le era
stato grato di quelle bugie. Perché, nella sofferenza che ne era
derivata, Pepper aveva riconosciuto gli stessi sentimenti che un
tempo la animavano verso Tony.
Era libera. Libera dell’influenza di Tony Stark. Libera di amare
qualcun altro.
Non era semplice stare con una donna che rischiava di morire per
lavoro, ma Pepper aveva fatto l’abitudine alla propria attitudine a
innamorarsi delle persone meno raccomandabili.
Era stato difficile, non poteva negarlo, ma era stata anche
felice.
Di colpo, però, tutto aveva cominciato ad andare a rotoli. Ancora
una volta.
Il peso di quella relazione, dei problemi che generava l’amore
tra due donne, in particolar modo se una delle due era
l’amministratore delegato delle Stark Industries, del timore che
Natasha potesse non rientrare a casa, un giorno, timore che era
cresciuto ogni momento di più dopo il pericolo che la donna aveva
corso nella battaglia contro Loki, le era crollato addosso
all’improvviso. Era stato semplicemente troppo.
Natasha aveva iniziato a dare più importanza a lei che allo
S.H.I.E.L.D. e ad assentarsi sempre meno spesso per lavoro. Pur di
rimanerle vicino e concederle l’attenzione di cui Pepper aveva
bisogno, aveva persino deciso di tornare al proprio posto come sua
segretaria.
Ma non era felice.
Natasha non era nata per condurre una vita sedentaria come quella
a cui si stava sottoponendo per amore di Pepper. Lei vedeva la
sofferenza nei suoi occhi e odiava, odiava perché sapeva che era
solo colpa sua.
Odiava Natasha, perché l’aveva fatta innamorare. Odiava il suo
lavoro presso lo S.H.I.E.L.D. Odiava lo S.H.I.E.L.D., perché se non
fosse esistito Natasha sarebbe stata normale. Odiava se stessa,
perché non aveva senso odiare tutto il resto e lei ne era
perfettamente, orribilmente consapevole. Lo sapeva, lo sapeva, lo
sapeva.
Le cose erano precipitate al punto che Tony l’aveva obbligata a
prendersi una vacanza – lei, che riceveva a malapena un giorno di
ferie quando era il suo compleanno e non se ne era mai lamentata –
e aveva chiesto a Natasha di prendere il suo posto.
Al punto che, anziché partire per un qualche villaggio esotico
come Tony le aveva consigliato, Pepper si era ammalata.
Al punto che anche Natasha, al ritorno nel loro appartamento,
aveva sempre nuovi lividi.
Con un colpo di reni che diffuse una sgradevole sensazione di
dolore nel suo corpo, ormai abituato a muoversi soltanto lo
stretto necessario, Pepper si allungò verso il comodino, prese il
bicchiere che si trovava sopra di esso e ingollò una lunga sorsata
d’acqua, in cerca di refrigerio. La febbre doveva essere salita
ancora, la testa le girava e non riusciva a trovare la forza di
alzarsi dal letto.
C’erano giornate in cui stava abbastanza bene da girovagare per
la casa, a volte persino di leggere qualcosa, e giornate in cui stava
così male che temeva di aver preso qualcosa di davvero grave e
litigava con Natasha nel tentativo di costringerla ad ammettere che
stava per morire.
E poi c’erano le giornate peggiori, quelle in cui era così
spossata che non aveva energie per fare nulla e giaceva immobile nel
letto, quelle in cui il ricordo di Obadiah Stane le occludeva i
polmoni e le dava la terribile, vivida impressione di stare per
morire affogata. Morire, così come era morto lui perché lei aveva
premuto un bottone.
Fu un sollievo quando udì lo scatto metallico della serratura, un
suono che riempì il vuoto e la disperazione che la circondavano e la
tirò fuori dai suoi incubi.
«Sono tornata» annunciò la voce familiare di Natasha, fredda ma
con un sottofondo di affetto che soltanto chi la conosceva bene
poteva cogliere. Quel retrogusto di dolcezza a malapena palpabile era
sufficiente, purché la donna continuasse a stringerle la mano, a
impedirle di finire con la testa sott’acqua. «Come stai oggi?»
Nel giro di pochi secondi Natasha apparve nel suo campo visivo,
sulla soglia della camera da letto, e la studiò con attenzione con i
suoi grandi, penetranti occhi grigi.
«Abbastanza bene» mentì Pepper, la voce un rantolo rauco.
Nessuna delle due ci credette.
«Sono contenta». Natasha sedette sul bordo del letto, le prese
di mano il bicchiere, vuotato per metà, e lo ripose sul comodino.
«Hai mangiato qualcosa, vero?»
Pepper non avrebbe mai creduto che un’assassina capace di
adattarsi a qualsiasi compito, per quanto arduo potesse essere,
potesse stancarsi lavorando in un ufficio, eppure Natasha aveva gli
occhi cerchiati, i riccioli rossi scomposti e la camicia bianca, che
quella mattina era stata perfetta, adesso era spiegazzata e la donna
non sembrava curarsene affatto.
«Non molto» ammise, si tirò a fatica a sedere e appoggiò la
schiena contro la testiera del letto. «Ma tu sei esausta, potrei
preparare io qualcosa».
In realtà non aveva molta fiducia nelle sue possibilità di
essere in grado di scendere dal letto e mettersi ai fornelli, così
come non ne aveva Natasha. La loro relazione era intessuta di
menzogne, ma ormai a Pepper non importava più. Voleva soltanto che
la sua ancora di salvezza non le permettesse di affondare, perché
sapeva che in quel caso non avrebbe più avuto alcuna speranza di
tornare a galla.
Senza rispondere, Natasha accennò un debole sorriso, venato di
stanchezza, Pepper appoggiò una mano sul suo braccio e si protese
verso di lei, in cerca del suo viso, delle sue labbra morbide.
Il suo bacio gentile fu come una carezza di guarigione per il suo
corpo indebolito, un alito di fresco per la sua bocca riarsa e secca.
Pepper fece scorrere le braccia intorno al suo collo e Natasha le
cinse la vita, la strinse a sé, le accarezzò i fianchi e la schiena
e, non fosse stata tanto affaticata, Pepper avrebbe provato una ben
familiare scossa di desiderio.
Ma non c’era nulla, ormai era come terra arida sulla quale
Natasha si ostinava a spargere acqua, testardamente convinta che
sarebbe nato un fiore.
Quando Pepper si ritrasse per riprendere fiato e la manica della
camicia di Natasha scivolò indietro nel movimento e le scoprì
l’avambraccio, quella bolla di falsa gioia esplose con uno schiocco
sonoro che per un istante provocò a Pepper un furioso giramento di
capo.
«Cos’è questo?» sibilò, ogni parola che stillava rabbia e
dolore, e afferrò il braccio della donna prima che lei potesse
ritrarlo, girandolo verso l’alto per vedere la macchia violacea che
ne copriva una buona parte. «Cos’è questo, Natasha?» Una nota di
disperazione incrinò la maschera d’ira che si stava sforzando di
indossare. Non voleva mostrarsi così debole. «Qual è la verità?
Perché ogni volta sei ferita? Hai ricominciato a lavorare per lo
S.H.I.E.L.D., non è così?»
Poiché la donna taceva, la sua voce si alzò di qualche ottava.
«È vero, Natasha?»
Natasha non distolse lo sguardo da lei. Malgrado la martellante
sensazione di tradimento, Pepper non poté che ricordarsi ancora una
volta perché la amava tanto. Natasha non distoglieva mai lo sguardo
da lei.
«No, Pepper. Non è la verità. Sai che non è la verità».
E tutto andò a rotoli di nuovo.
«Natasha, sono serio». L’uomo separò con i denti il lembo di
garza dal rotolo e lo legò con cura intorno al graffio che le
sfregiava il polso. «Non so per quanto tempo ancora Fury sia
disposto a chiudere un occhio».
Ed era serio davvero, perché non fece alcuna battuta sull’unico
occhio di Nicholas.
Si limitò a fissarla intensamente, come soltanto Tony Stark
sapeva fare. Quello sguardo che sembrava affondare nelle viscere di
una persona e carpirne ogni verità, come avrebbe potuto fare con un
elemento chimico. C’era un avvertimento, in quegli occhi scuri, ma
anche sincera preoccupazione.
«Non si preoccupi, signor Stark, posso ancora controllare la
situazione» lo rassicurò Natasha, sottraendo il braccio alle sue
cure.
Quel taglio sarebbe stato più difficile da nascondere, considerò
nello scrutare la fasciatura. Era troppo vicino alla mano e la manica
della camicia non sarebbe stata sufficiente a celarlo. Pensosa,
sfregò il pollice del braccio sano contro la garza e si morse il
labbro, un gesto istintivo che le capitava di fare quando rifletteva.
Fu costretta a mettere da parte le proprie preoccupazioni dalla
voce di Tony e dal suo sguardo, che non accennava a voler smettere di
dardeggiare su di lei. «Io non dubito delle tue capacità, ma credo
che non dovresti rinunciare così alla tua vita».
La donna sollevò la testa di scatto, gli occhi color metallo
screziati di collera e incredulità. «Come può dire questo, proprio
lei che le è così legato?»
L’uomo non reagì, consapevole che quello scatto d’ira non era
per lui. Anche Natasha lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene, perché
in un’altra occasione la durezza, l’apparente insensibilità di
Tony non l’avrebbe scalfita. Al contrario, sarebbe stato lui a
ricordarle, sgomento, che era umana e doveva pur avere un cuore, da
qualche parte.
Con un sospiro, la donna si ravviò i capelli scarlatti e non
aggiunse altro.
«Il motivo per cui ti sto dicendo questo è esattamente che le
sono così legato» ribatté l’uomo, quando ritenne che Natasha era
sufficientemente calma per dargli davvero ascolto. «Tu stai
soffrendo, lei sta soffrendo e questo non migliora affatto le cose.
Dovresti permettere a Fury di portarla nell’ospedale specializzato
dello S.H.I.E.L.D., dove riceverebbe le cure di cui ha disperatamente
bisogno. Credi che mi faccia piacere dare il consenso per segregarla
in un ospedale psichiatrico? Ma Pepper è distrutta. Lo sai
benissimo, Natasha. Non può durare».
Era vero. Era dannatamente, tristemente vero.
Per quanto lei potesse essere forte, tenace, innamorata, non
avrebbe potuto reggere ancora a lungo. Un mese, forse due. Non di
più. E c’era anche la possibilità che Pepper resistesse ancora
meno, che attraversasse una soglia oltre la quale Natasha non avrebbe
potuto fare più niente per proteggerla. E allora l’avrebbe persa,
l’avrebbe persa davvero, per sempre.
Non ebbe la forza di rispondere. Tony affrontava l’argomento con
lei periodicamente, ma fino a quel momento Natasha aveva ribattuto,
aveva rifiutato. Adesso non poteva.
Non per lei, ma per Pepper.
Indovinando il significato del suo silenzio rassegnato, l’uomo
allungò una mano e le diede un inaspettato buffetto su una spalla.
La donna non incoraggiò quella manifestazione d’amicizia, ma non
si ritrasse.
«Domani degli agenti verranno a prenderla». Tony si sforzò di
assumere un tono fiducioso, ma Natasha aveva l’impressione che ad
ascoltare le sue parole fosse un’altra persona. «Non perdere la
speranza. Non è un addio. Potremo andare a farle visita tutti i
giorni e i medici la aiuteranno a guarire».
Quella era una menzogna. Pepper era troppo consumata dentro per
tornare come prima.
Non si poteva cancellare tanto dolore neppure con la miglior cura
al mondo, lei lo sapeva meglio di chiunque altro. Nel corso degli
anni aveva visto agenti impazzire per molto meno.
Nonostante la morsa che le attanagliava le viscere, la donna
scelse di non assecondare quell’ennesima commedia, di non
rinchiudersi in un’altra bolla di falsità. Non avrebbe tollerato
di veder esplodere anche quella.
«Le voglio fare solo una domanda, signor Stark» disse, il tono
serio, controllato, l’espressione impenetrabile. «Perché ha avuto
il coraggio di avanzare questa proposta solo ora? Perché non quando
Pepper» doveva trovare il coraggio di ammettere quello che non
avevano mai affermato ad alta voce, doveva, per
tutti e due e
anche per Pepper «picchiava lei?»
Tony trasalì impercettibilmente a quelle parole, ma quando parlò
la sua voce era ferma. «Perché anche io l’ho amata, Natasha. E,
come te adesso, non volevo rinunciare alla speranza che si
riprendesse. Ma le cose non andavano mai meglio, e quel che era
peggio era che lei non si accorgeva affatto dei suoi scatti d’ira e
credeva che io le mentissi, che ogni giorno rischiassi la vita a sua
insaputa e questo non faceva che danneggiarla ancora di più. Se non
ne fossi uscito, se non fossi subentrata tu al mio posto, sarei
impazzito anche io. E ora non potrei perdonarmi se permettessi a te
di farlo».
Era la prima volta che raccoglievano la forza necessaria ad
ammettere l’entità di quell’inferno.
Natasha sentiva uno sgradevole tremore lungo la spina dorsale che
sapeva anche Tony stava provando, ma in un certo senso era anche
liberatorio.
Dire la verità, smettere di mentirsi nell’illusoria speranza
che un giorno qualcosa sarebbe cambiato. Accettare ognuno le proprie
colpe, prendersi la responsabilità del baratro in cui Pepper era
caduta, senza che nessuna mano fosse abbastanza robusta per
afferrarla e fermare la sua catabasi. Era doloroso, ma anche giusto.
Era come se si fossero finalmente liberati di un grosso peso.
«Grazie dell’onestà, signor Stark» commentò la donna, gelida
e formale com’era stata addestrata, ma c’era una punta di sincera
gratitudine nella sua voce, sepolta sotto qualche strato di
autocontrollo da soldato.
Fu sufficiente. Doveva esserlo.
Nella stanza che le avevano assegnato c’era una piccola
finestra, posta proprio sopra il suo letto, da cui poteva guardare
fuori. C’era un giardino, non molto grande ma ben curato e in
primavera si colorava di mille tinte quando le piante erano in fiore.
Era una vista rassicurante, che la manteneva ancorata alla realtà e
non le consentiva di sprofondare nei ricordi.
Era in quei momenti, le aveva spiegato il medico, che subiva gli
attacchi e faceva del male alle persone che le stavano vicino.
Di conseguenza, doveva cercare di tenere la mente occupata,
sebbene spesso fosse troppo debole per leggere o sostenere una
conversazione troppo a lungo. Allora si raddrizzava contro i cuscini
e osservava la vita oltre la finestra.
Non poteva dire che ne fosse felice, ma provava un tepore che non
avvertiva più da tanto, troppo tempo.
Adesso sapeva che né Tony né Natasha le avevano mentito
sull’origine di quelle ferite, ma che avevano sempre cercato di
proteggerla da se stessa. Adesso sapeva che soffriva di doppia
personalità, e ogni tassello era andato al suo posto.
Adesso, finalmente, aveva smesso di affogare e non aveva più
bisogno di una mano che la tenesse a galla. La verità era
abbastanza.
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