Game, Set And Match di nightswimming (/viewuser.php?uid=11000)
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Note
dell’autrice:
questa
fantastica versione di Holmes e Watson è di esclusiva
proprietà di Steven
Moffat e Mark Gatiss, siano benedetti, mentre le tenniste Steffi Graf e
Monica
Seles sono di esclusiva proprietà di loro stesse. Voi vi
starete chiedendo: “cosa
diavolo c’entra?” e avete pienamente ragione, ma vi
assicuro che più avanti
nella storia le cose si faranno più chiare. :D
Scrivo
per pura gioia da fan e Dio me ne scampi se da tutto questo ci guadagno
anche
solo un centesimo.
John
Watson inspirò profondamente e strinse le labbra in una
piega severa, quasi dura.
“No”.
Sherlock
Holmes continuò imperturbabile a prestare attenzione al suo
cellulare.
“No cosa, John?”
“No
che non è inutile, Sherlock” ribatté
lui, obbligandosi a mantenere un tono fermo
ma conciliante.
Non
c’erano due parole capaci di stare peggio in una stessa frase
come conciliante e Sherlock
Holmes.
Il
detective alzò lo sguardo dal suo Blackberry e sporse in
avanti il labbro
inferiore.
“Detersivo
per lavandini”. Atteggiò ancora di più
una smorfia di finta riflessione.
“Detersivo impiegato per togliere eventuale sporco da un
oggetto che si lava
già da solo a ogni singolo uso che ne viene
fatto”. Chinò nuovamente il capo
sul cellulare. “Inutile a livelli di guardia,
direi”.
John
lo guardò come se fosse sul punto di scagliargli addosso con
forza il suddetto
detersivo per lavandini.
“Come
il tuo parere sulle faccende domestiche,
d’altronde”.
Gli
voltò le spalle, ma non prima di aver internamente gioito
della sua espressione
indignata.
“Stai
diventando una noiosa casalinga, John” lo raggiunse la sua
voce infastidita dal
reparto dei surgelati.
Si
girò nuovamente per guardarlo: avanzava accanto a caciotte,
salami e yogurt con
passo maestoso e il cappotto che volteggiava attorno alle sue gambe ad
ogni
falcata, dribblando l’occasionale carrello con grazia.
Ridacchiò.
Era un’immagine esilarante, quasi parodica –
qualcosa di molto simile al
costringere un rugbista a un’esercizio di danza classica.
Piccoli
lord
sociopatici fanno la spesa, capitolo primo.
“Lo
sono sempre stato. Avresti dovuto vedere l’infermeria
militare: era sempre uno
specchio, grazie a me”.
Sherlock
alzò un sopracciglio.
“Avvincente”.
“Vero?
Ora aspettami qui in coda, che mi sono dimenticato il sale
grosso”.
Lui
sbuffò ma gli tolse con uno strattone melodrammatico il
cesto di mano e si mise
dietro a una famiglia piena di marmocchi esagitati che presero a fargli
le
boccacce.
John
rise apertamente.
“Ricordati
che l’infanticidio è un crimine,
Sherlock”.
“A
che cosa ti serve, il sale
grosso?”
“A
spararti meglio”.
Lo
vide lanciare un’occhiata che avrebbe ghiacciato
l’inferno alla deliziosa bimba
con le trecce che allungava le sue manine grasse verso di lui.
“A
cucinare, Sherlock, mi sembra ovvio. Hai bisogno d’altro,
già che faccio un
altro giro?”
“Un’endovena
di nicotina” sibilò seccamente. Poi sorrise, se
così si poteva chiamare
quell’esposizione forzata dei denti. “Per
favore”.
*
“Andiamo.
È un’occasione speciale”.
“Sherlock…”
“Me
lo merito, John!”
“E
cosa avresti fatto per meritartelo?”
“Esisto.
Vivo. Respiro. La mia presenza su questo mondo è un dono
continuo”.
“Pfff.
Scusa un attimo, chiamo Anderson e chiedo cosa ne pensa al riguardo. Ho
proprio
voglia di farmi due risate”.
“Ho
fatto la spesa con te. Io non faccio mai la
spesa con te”.
“Questo
semmai evidenzia ancora di più la tua disgustosa pigrizia -
di certo non ti
aiuta ad ottenere quello che vuoi”.
Una
sola”.
“…”
“…Per
favore”.
John
alzò gli occhi al cielo, allungò una mano verso
il tavolino e gli lanciò in
grembo il posacenere rubato a Buckingham Palace. Sherlock lo prese al
volo con
un versetto deliziato.
Aveva
detto le due paroline magiche, dopotutto. Conoscendo il soggetto in
questione
si poteva tranquillamente gridare al miracolo.
“Aaah,
sì. Sì sì sì”.
John
gli puntò addosso l’indice teso.
“Una
di numero, non di più”.
Sherlock
si mise una sigaretta fra le labbra e la accese con
un’espressione di gioia
profonda che rasentava l’oscenità. Tirò
due lunghe boccate e fece precipitare
la cenere nel prezioso oggetto di cristallo (il quale, se John aveva fatto bene i suoi
conti, doveva valere
come tutta la sua pensione di invalidità) con un gesto denso
di una ritualità
molto rimpianta.
“Non
dovrebbe essere difficile per una mente geniale come la tua concepire
il fatto
che fumare fa male” commentò con tono di
rimprovero. Sherlock rovesciò la testa
indietro sul divano ed espirò un lungo filo di fumo in
direzione del soffitto.
“Non
guastarmi questo raro piacere, John” mormorò, gli
occhi chiarissimi socchiusi
appena, le spalle rilassate.
John
rabbrividì. Un brivido caldo, di provenienza sconosciuta.
Cosa c’era di così
sconvolgente in quella voce baritonale che pronunciava la parola
“piacere”, d’altronde?
Non riusciva a capirlo.
Sventolò
una mano in aria con fare stizzito per scacciare il fumo e quei
pensieri
fastidiosi da davanti a sé.
“Certo
che potresti almeno scomodarti ad aprire la finestra!”
Nessuna
risposta. Aveva chiuso gli occhi in preda alla beatitudine, e sembrava
non
averlo nemmeno sentito.
Si
trattenne dal tirargli un cuscino soltanto grazie allo
scalpiccìo dei passi
della signora Hudson sulle scale.
“Sherlock?
John?”. Al lieve bussare, gli occhi di Sherlock si riaprirono
e rotearono verso
l’alto in preda all’esasperazione. “Siete
presentabili?”
John
avrebbe tanto voluto chiederle per quale motivo si ostinasse a fare
sempre
quella domanda stupida quanto superflua. Era mezzogiorno passato, loro
erano da
poco scesi a fare la spesa, quindi aveva la certezza di non
sorprenderli ancora
in pigiama – e allora perché diavolo chiedeva se
fossero presentabili? Cosa
accidenti avrebbero dovuto fare, per non essere
presentabili?
“Sesso”.
John
sobbalzò sulla poltrona. Sherlock stava spegnendo la
sigaretta nel posacenere
con piccole, eleganti torsioni del polso, un angolo delle labbra
piegato
beffardamente all’insù.
“Come?...”
chiese, maledicendosi per il tono scandalizzato che si era ritrovato ad
utilizzare e per il tè che si era appena versato su tutta la
camicia.
Sherlock
non nominava mai il sesso al di fuori della scena del crimine, quando
gli
serviva per spiegare il movente di un omicidio. A lui il sesso,
apparentemente,
non interessava; di sicuro non lo conosceva. La frecciatina di Mycroft
era
stata illuminante al proposito. Dato che non avrebbe mai tirato in
ballo di
propria spontanea volontà un argomento di cui sapeva poco o
niente, col rischio
di uscire sconfitto da un’eventuale discussione, John era
genuinamente sorpreso
di fronte a una menzione così plateale di quella parola.
Oltretutto,
la sigaretta gli aveva arrochito la voce (ormai, grazie a Dio, non era
più
abituato a fumare) e lui aveva pronunciato la parola
“sesso” con un tono
inferiore di un’ottava rispetto al suo abituale.
La
cosa non avrebbe dovuto turbare John – Dio, non se ne sarebbe
dovuto neanche accorgere
– eppure, sempre per quello
strano motivo che non riusciva a spiegarsi, la cosa lo turbava eccome.
“Come?”
ripetè, schiarendosi la voce per darsi un tono.
Sherlock
gli rivolse uno di quegli irritanti sguardi da “ma
è ovvio!” che facevano
andare in bestia chiunque, da Anderson (specialmente Anderson) a lui
stesso.
“La
risposta alla tua domanda” disse semplicemente.
“Io
non ho fatto alcuna domanda” ribatté in fretta
John.
“Ma
l’hai pensata”.
John
rimase a fissarlo senza neanche battere le ciglia, incredulo; Sherlock
si piegò
in avanti e unì le punte delle dita di fronte a
sé con fare professionale.
“Ogni
volta che la signora Hudson chiede il permesso di entrare con quella
frase, ti
irrigidisci istintivamente. Le spalle, i lineamenti del viso, tutto. E
non è perché
ti dà fastidio l’intrusione che potrebbe
posticipare il tuo pranzo - la
signora Hudson ha fatto irruzione in questa casa in ore molto
più improbabili di
questa, e tu non sei mai stato turbato come adesso - no, è
questo modo specifico della signora Hudson
di presentarti che ti urta e ti fa pensare: “che razza di
domande fa? Cosa
diavolo potrebbe impedirci di essere presentabili a mezzogiorno
inoltrato?...”
Si
alzò dal divano con un movimento fluido e si diresse ad
aprire la porta,
curandosi di mantenere il contatto visivo.
“La
risposta è: sesso. Teme di interromperci. Tutti,
temono di interromperci. Ah, a parte qualche patetico individuo che lo
spera
intensamente, in modo da essere in grado di rendere più
vivace la sua noiosa
esistenza lanciandosi su qualche gustoso gossip”.
Alzò anche l’altro angolo
delle labbra. “Dovresti lasciar perdere i pettegolezzi, John.
Sembra che non
facciano bene ai tuoi nervi”.
Aprì la porta, e in
un secondo il suo sorriso
trionfante era scomparso per lasciar posto a un’espressione
educatamente
interrogativa.
“Buongiorno, signora Hudson. Ha
bisogno?”
Note
dell’autrice:
ciao
a tutti, questa è la mia prima fic su Sherlock e voi non
avete idea del
nervosismo da debuttante che mi sta assalendo in questo momento XD
Mi
scuso per la cortezza del capitolo, che, come è scritto,
è soltanto un
prologhino introduttivo piccino picciò.
A
presto, mi auguro, e spero vi piaccia. :*
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