Prologo
Caro Diario,
A questo punto posso
serenamente affermare che sì, l’ho capito: io sono
stupida. Sono stupida e ne vado fiera, perché per quanto mi
riguarda non cercherò di cambiare per accalappiare qualcuno,
nossignore! Io continuerò imperterrita ad essere me stessa:
Annie che non ha mai baciato un ragazzo, Annie che si imbarazza a
parlare con la persona che gli piace al punto da fuggire, Annie... la
sfigata.
Rimarrò
zitella? Pure mia cugina di secondo grado lo è e non mi
sembra poi così triste, anzi si diverte un mondo con i suoi
tredici gatti!
Certo, andare a trovarla
non è la cosa più felice che possa capitare a
qualsiasi persona sana di mente, visto che spesso e volentieri trascura
gli ospiti per dedicarsi ad un interessante e costruttivo dialogo con i
suoi mici; però, lei è felice, sempre che si
rimanga nell’ambito della sua evidente infermità
mentale, ovvio.
Tuttavia, ho finalmente
smesso di farmi problemi, grazie alla lampante illuminazione che ho
avuto questa mattina: sono stupida. Sono stupida perché non
sfrutto mai le occasioni che mi si parano davanti, sono stupida
perché non riuscirei a capire che un ragazzo è
interessato a me nemmeno se questo mi si piazzasse davanti nudo
dedicandomi una serenata, sono stupida perché non sono in
grado di farmi notare.
Non sono brutta, non
sono grassa e non sono nemmeno antipatica. Il mio problema è
la stupidità a cui la mia eccessiva timidezza mi conduce
costantemente. Ma alla fine, che importa? Ho ancora le mie "Lezioni di
Cioccolato". Essere stupida non mi ha impedito di realizzare i miei
sogni.
Spero che Jessie e
Monica capiscano. Quando ho mandato loro quell’sms esaltato
in cui dicevo che avevo finalmente trovato la soluzione ai miei
problemi credo che abbiano pensato a tutt’altro che alla mia
brillante intuizione.
Monica avrà
sicuramente ipotizzato che mi sia fatta operare al cervello, mentre
Jessie si sarà fatto un viaggio mentale su di me e un figo
spaziale romanticamente abbracciati su una panchina di Hyde Park. Beh,
spero solo che non rimangano troppo delusi, in fondo…
Prima che riuscissi a concludere la frase il diario mi volò
di mano, mentre un qualcosa mi colpiva con violenza il polso. Con gli
occhi offuscati dalle lacrime, riuscii a scorgere a malapena il mio
amatissimo diario volare via, prima di ricevere un altro micidiale
colpo alla testa, a causa del quale finii lunga distesa
sull’erba. Ci fu qualche attimo di totale silenzio, nei quali
non riuscii a percepire altro se non la mia testa che girava
freneticamente e il dolore lancinante al polso.
<< Oddio… oddio, scusami, scusami!
>> Due mani forti mi afferrarono delicatamente per le
spalle e tentarono di rimettermi in posizione seduta. Peccato che il
mio cervello non avesse alcuna intenzione di collaborare.
In quel momento non sembravo essere in grado di fare altro se non
restarmene lì, lunga distesa, a gemere per il dolore.
<< Ok, ok… forse è il caso
che… oddio! Non sai quanto mi dispiace. Senti tanto male?
Più alla testa o alla mano? Riesci a sentirmi?
>> La voce profonda del ragazzo che mi aveva praticamente
travolta assunse un tono isterico. Così isterico e
fastidioso da farmi desiderare di afferrarlo per i capelli e sbattergli
la testa contro la corteccia di un albero. Mi sentivo tutto, tranne che
timida, in quel momento.
Spalancai gli occhi, che fino a quel momento avevo tenuto ostinatamente
chiusi, come se in quel modo il dolore potesse diminuire; cercando di
nascondere lo sforzo che quel gesto mi costava, lanciai
un’occhiata cattiva alla causa di tutto quel disastro...
forse troppo, in fondo non l’aveva fatto apposta, ma la
sofferenza fisica mi rendeva crudele.
Approfittando della mano che lui mi porse, non appena si rese conto che
ero cosciente e incazzata - aggiungerei -, riuscii a rimettermi seduta
, azione che mi provocò una fitta lancinante alla testa.
Superato quell'attimo di debolezza mi voltai di nuovo verso il mio
“aggressore”, fulminandolo con lo sguardo e
infischiandomene del fatto che fosse incredibilmente carino: insomma,
due occhi grigi come quelli non si incontravano mica tutti i giorni!
Diamine, se era bello! Carino era quasi un'offesa nei suoi confronti,
realizzai concedendomi di guardarlo meglio. La luce del sole, che il
cielo di Londra aveva deciso di donare alla città in quella
giornata invernale, incorniciava la sua figura, alta e slanciata,
dandogli l'aspetto di un angelo.
Sì, l'angelo della morte.
<< Ora ti prego, non metterti ad urlare! Giuro che faccio
tutto quello che vuoi: autografi per tutte le tue amiche, foto con il
tuo cane, magliette con la mia faccia sulle tue tette… ma ti
prego, ti supplico, non urlare. >> Che diamine stava
blaterando?
<< Sei ritardato? >> La domanda mi uscii
così, spontanea, senza che io potessi fare nulla per
fermarla. Di solito, era così che allontanavo ogni ragazzo
che mi si avvicinava: dopo aver passato un buon quarto d'ora in totale
silenzio, mi ritrovavo a dire qualcosa di stupido e irrazionale che
faceva fuggire via il malcapitato di turno. In ogni caso, non avevo
alcuna intenzione di ritirare ciò che mi era appena uscito
di bocca, proprio no! E poi, notai, in quel momento non mi sentivo
assolutamente in imbarazzo: meglio approfittarne e insultarlo ora.
Tuttavia, il mio non tanto velato insulto non sembrava averlo colpito
particolarmente, anzi, non l’aveva colpito per niente. Mentre
io me ne stavo lì, a tastarmi il polso che faceva sempre
più male e non sembrava avere alcuna intenzione di muoversi
e la testa che continuava a pulsare dolorosamente, lui esplose in una
risata sollevata e mi porse una mano per aiutarmi a rialzarmi.
<< Devo ammettere che non me lo sono mai chiesto!
Comunque, quel polso non mi piace molto, credo sia il caso di farlo
vedere al Pronto Soccorso. Per quanto riguarda la testa, invece, credo
di averti dato solo una bella botta! >> E
ridacchiò. Di nuovo.
Era senza dubbio alto, bello, prestante e con tutte le buone premesse
per essere anche superdotato, ma mi stava decisamente irritando.
Insomma, cos’aveva da ridere? Mi aveva quasi uccisa: lo
trovava così divertente?
<< Oh, sta zitto! Dov’è il mio
diario piuttosto? >> Il sorriso gli si congelò
sulla faccia e vidi, con mio enorme dispiacere, gli occhi che tanto mi
avevano colpita fissarsi su un punto dietro le mie spalle. Il "killer"
non accennava a parlare e questo non fece altro che aumentare il mio
senso di disagio: le notizie non dovevano essere buone.
Ora ero irrimediabilmente incavolata.
<< Senti, dimmi dove diavolo è
finito quel diario, o giuro su me stessa che ti appendo a
questo schifosissimo albero per le mutande! >> Sibilai,
la voce innaturalmente calma e gli occhi che minacciavano di uscirmi
fuori dalle orbite.
Avevo voglia di stringere le mie mani intorno a quel collo pallido e di
fargli male, molto male.
Se non fossi riuscita ad ottenere l’informazione che
desideravo entro cinque secondi lo avrei appeso davvero a quel dannato
albero, e non sarebbe stato piacevole; per lui, si intende.
Il solo pensiero di aver perso quell’oggetto con un valore
così importante per me, soprattutto affettivo, mi provocava
una stretta allo stomaco: quel diario a cui avevo confidato migliaia di
pensieri, quel diario così insostituibile…
l'unico vero ricordo di mia madre. Perderlo sarebbe stato paragonabile
a perdere nuovamente lei, e non ero sicura che sarei riuscita a
reggerlo. Forse era stupido rimanere così morbosamente
attaccata a quell'oggetto, ma scrivere tra quelle pagine era l'unica
cosa che mi consentiva di sentirla vicina, vicina più che
mai.
<< Ehm, credo che sia quello lì che galleggia
nel laghetto. >> Sentii il sangue ghiacciarmisi nelle
vene quando mi voltai e vidi un’inconfondibile copertina blu
fare da lettino gonfiabile per un’anatra decisamente grassa.
Rimasi immobile per qualche secondo, ignorando quel tizio a cui avrei
voluto spaccare la faccia che tentava invano di attirare la mia
attenzione, e cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Quel ragazzo mi aveva quasi uccisa: benissimo.
Quel ragazzo rideva del mio dolore: magnifico.
Quel ragazzo aveva appena distrutto il mio diario: pessima mossa.
<< Vai a recuperarlo. >> Proclamai con voce
ferma, continuando a dargli le spalle.
<< Cosa? Tu sei pazza. E’ solo uno stupido
quaderno! >> Questo non avrebbe dovuto dirlo. Mi voltai
verso di lui, lentamente, e gli arrivai abbastanza vicino da potergli
puntare un dito contro il petto muscoloso, coperto da un pullover
azzurro che Jessie avrebbe sicuramente adorato.
Oh, al diavolo il suo pullover!
Concentrazione, mi dico.
E’ un tipo da copertina, ribattono i miei ormoni.
<< Non è solo uno stupido quaderno, e se non
desideri morire sbattendo ripetutamente la testa contro una panchina,
ti conviene tirarti su fino alle ginocchia quei deliziosi jeans e
unirti a quelle dolci paperelle, altrimenti… >>
<< Altrimenti morirò sbattendo la testa contro
una panchina? >> Ribattè lui, nuovamente sul
punto di ridacchiare.
Probabilmente, in un altro momento, non sarei mai riuscita a sostenere
una conversazione di senso compiuto con un tizio del genere, tantomeno
a minacciarlo, ma in quello di momento la rabbia era superiore a
qualsiasi imbarazzo.
<< Errato. Altrimenti, dirò al Pronto Soccorso
che mi sono rotta il polso e ferita alla testa mentre cercavo di
sfuggire a te, un terribile delinquente deciso a stuprarmi brutalmente.
>> Un sorriso sadico si fece spazio tra le mie labbra,
mentre lo osservavo sgranare gli occhi.
<< Per prima cosa, ancora non sai se il tuo polso
è realmente rotto, e poi, non puoi dire una cosa del genere,
è una completa falsità! Non
c’è alcun fondamento nella tua storia!
>> Continuò a snocciolare motivi per cui non
avrei mai potuto dire qualcosa di così assurdo su di lui, e
la mia pazienza diminuì sempre di più. Ben presto
smisi di ascoltarlo, mentre il mio sguardo non riusciva a separarsi dal
mio diario che galleggiava tristemente tra le acque di quel laghetto
dall'aria sporca.
<< Ascolta, recupera quel diario e basta! Non mi
interessa quello che hai da dire: hai fatto tu il danno, ora devi
rimediare! >> Esclamai, al limite
dell’esasperazione, percependo una lacrima scivolarmi lungo
una guancia: non avevo alcuna intenzione di piangere, ma la vista del
mio diario ridotto in quello stato era stata decisamente troppo. Lui
sembrò notare il mio stato d'animo e, spaventato dalla
possibilità di dover assistere ad una crisi isterica in
piena regola, si avviò con passo deciso verso il lago.
<< Va bene, te lo riprendo, capito? Ti riprendo
questo… questo coso. Rimani lì, eh! Non piangere,
per favore. >> Sembrava davvero terrorizzato da quella
lacrima sfuggita al mio controllo. Lo guardai allontanarsi, perplessa,
non potendo fare a meno di notare – anche in un momento come
quello – il fondoschiena perfetto di cui era equipaggiato.
Certo che la natura era stata proprio generosa con lui, riflettei,
senza riuscire a smettere di squadrarlo da capo a piedi, mentre lui si
chinava per tirarsi su i pantaloni e marciava verso il laghetto come se
stesse per andare in battaglia.
Quando immerse il primo piede nell’acqua si bloccò
con uno scatto improvviso, voltandosi verso di me e lanciandomi uno
sguardo rancoroso.
<< Cazzo! >> Inveì. Per tutta
risposta gli mostrai il polso infortunato a causa sua, lui
sbuffò e tornò a concentrarsi sul suo compito.
Venti minuti e parecchie imprecazioni più tardi stringevo
nuovamente il mio diario tra le mani, ma non sembrava che ci fosse
niente da fare per limitare i danni: era completamente zuppo e
l’inchiostro bagnava il terreno con gocce nere che, tetre, si
portavano via le parole che avevo affidato a quell’oggetto,
diventato per me ben più di un semplice quaderno, ma un
amico sincero. Una fitta di tristezza rischiò quasi di farmi
perdere l'equilibrio, o forse non fu altro che una mia impressione,
perchè i miei piedi rimasero ben piantati per terra.
<< Comunque, spiacente di averti conosciuta, Damon
Cunningham. >> Il tizio si presentò,
probabilmente convinto di essere riuscito a fare dell’ironia.
Avrei voluto guardarlo negli occhi e urlargli in piena faccia che come
comico faceva schifo, ma mi trattenni dal farlo: in fondo si era appena
immerso in un laghetto ghiacciato per salvare il mio diario.
Tuttavia, notai qualcosa di strano nel modo in cui pronunciava il
proprio nome: era come se ritenesse che presentarsi fosse
un’azione inutile, superflua. Detestavo atteggiamenti di quel
genere, indicavano una personalità fortemente sicura di
sè, una personalità che non sarebbe mai andata
d'accordo con la mia.
Fissai lo sguardo su di lui che, nel frattempo, era rimasto
lì, fermo a guardarmi, come in attesa di qualcosa. I capelli
corvini gli contornavano il volto dai lineamenti decisi, trovando un
perfetto contrasto con la pelle chiara... non avevo mai visto una
bellezza del genere. Solitamente, però, diffidavo delle
persone troppo belle: rischiavo di scoprire che per quanto le
riguardava non esisteva altro che una bella confezione.
<< Dispiacere mio, Anne Brown, ma chiamami Annie, mi
chiamano tutti così. >> Replicai poi,
tendendogli la mano sana, che lui strinse prontamente e con
delicatezza, quasi avesse timore di mettermi fuori gioco anche il polso
sinistro.
<< Forse è davvero il caso di fare un salto al
Pronto Soccorso… >> Aggiunse lui, squadrando
il mio braccio con aria assorta. Nel frattempo il polso ferito aveva
assunto un colore violaceo e aveva iniziato anche a gonfiarsi: avrei
voluto dire che la sua osservazione non era stata poi così
acuta.
<< Sì, non sembra molto in forma!
>> Tentai un piccolo sorriso, infilando il diario
fradicio nella borsa, fregandomene del fatto che l’avrebbe
allagata. Non l'avrei buttato per nulla al mondo, anche se si fosse
rivelato inutilizzabile.
Lui osservava ogni mio gesto, sempre con lo stesso sguardo vuoto. Lo
scrutai leggermente preoccupata, mentre avvertivo le guance andare a
fuoco. L’imbarazzo stava tornando a farmi compagnia, due
occhi grigi e un fondoschiena da urlo a fargli da guida.
<< Ho la macchina parcheggiata appena fuori dal parco,
possiamo andare con quella. >> Disse lui,
all’improvviso, dopo un silenzio durato un paio di minuti:
silenzio che stava per diventare imbarazzante e rischioso... senza il
suo intervento, chissà cosa sarebbe uscito dalla mia bocca!
In momenti come quello perdevo il controllo di me stessa.
Non sapevo cosa rispondergli, anche perché non riuscivo a
decidermi se fosse il caso di accettare un passaggio da un
semisconosciuto, per quanto bello potesse essere il suo sorriso.
<< Non accetto passaggi dagli sconosciuti.
>> Ribattei, maledicendomi subito dopo per la mia
stupidità: perché non avevo inventato una scusa
qualunque, invece di fare una figuraccia del genere? Mi avrebbe presa
per una paranoica.
Damon accennò un piccolo sorriso che si trasformò
poi in una risata vera e propria. Beh, almeno lui si divertiva!
<< Credimi, sono quanto di più lontano possa
esistere da uno sconosciuto! >>
<< Hai delle manie di protagonismo davvero notevoli.
>>
<< No, sono solo realista. >>
<< Beh, Signor Realista: ti ho appena incontrato, o
meglio, scontrato, non mi risulta di conoscerti e, quindi, preferirei
evitare di salire in macchina con te. >>
<< Damon Cunningham? Non ti viene in mente nulla? Nulla
di conosciuto? >>
<< Eravamo compagni di asilo? >>
<< Dio, no! >>
<< Sei il tizio a cui ho tirato un uovo in piena faccia
due estati fa? >>
<< No. >>
<< Allora non ti conosco, mi spiace. >>
<< Senti, non sono un maniaco, giuro. >>
Dieci minuti dopo ero nella macchina di Damon, che mi aveva convinta a
salire mostrandomi il suo CD dei Beatles: percorrevamo tutte le strade
principali, ascoltavamo i Greenday e ci fermavamo ai semafori, mentre
lui, con tono alquanto irritante, se ne usciva fuori con un “vedi?”
ogni due o tre minuti.
Avrei voluto, con tutta me stessa, rispondergli “vedo che sei
un idiota”, ma avrei rischiato di perdere il mio
preziosissimo passaggio al Pronto Soccorso.
Mi sorpresi ancora una volta di quanto poco si facesse sentire la mia
timidezza, probabilmente ero troppo concentrata sul polso dolorante e
sul guidatore irritante che mi stava prestando soccorso…
dopo avermi steso, però.
<< Vedi? >>
<< Vedo che sei un idiota. >> L'avevo
detto, dannazione.
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