The
Last One Standing
Era immobile.
Non accennava un gesto da giorni ormai: rimaneva lì,
in piedi a pochi passi dalla parete di fondo della cella, le braccia
lungo i fianchi, polsi e caviglie stretti da ceppi tanto spessi che
era sorprendente fosse ancora in grado di sollevarli.
Le sue vesti erano stracciate in più punti e la
pelle che emergeva al di sotto, bianca come il marmo più puro, era
chiazzata di lividi nerastri, di rosso scuro, laddove alcune delle
innumerevoli ferite non si erano ancora rimarginate, e del giallastro
malsano del pus che colava dai tagli infetti.
Il suo viso pallido ricordava una tela perfetta che
un pittore maldestro avesse contaminato con delle pennellate del
tutto casuali: del sangue quasi nero si era rappreso sulla tempia
destra, solcata da un lungo taglio obliquo, e sulle guance, sul collo
e sullo zigomo sinistro spiccavano ematomi violacei.
Gli occhi, infossati e cinti da aloni d’occhiaie,
erano sfumati dal loro consueto verde smeraldo a un verde fosco,
torbido, e chiunque vi guardasse dentro avrebbe rischiato di non
trovare più la forza di riemergere.
Quegli occhi risucchiavano ogni cosa e al suo posto
lasciavano il nulla, il vuoto più terrificante.
Le sentinelle a guardia della sua cella non osavano
mai incrociare il suo sguardo e parlottavano tra loro circa la sua
recalcitranza a cedere alla stanchezza.
Dopo un mese di reclusione nelle carceri di Asgard,
la forza di volontà non bastava più e anche il prigioniero più
testardo finiva con il cadere in ginocchio e rannicchiarsi in un
angolo della cella, come un animale ferito che si lecchi le ferite.
Non lui.
Non si ribellava quando i suoi aguzzini lo portavano
nella stanza delle torture, ma non permetteva loro di toccarlo e,
nonostante a stento si reggesse in piedi, si costringeva a camminare
senza aiuto. Non si sedeva, non dormiva, non sfiorava il pavimento
della prigione se non con le suole degli stivali, nemmeno di ritorno
dall’ennesima sessione di tortura, quando era così malfermo sulle
gambe che le guardie scommettevano su quanto avrebbe impiegato a
crollare svenuto.
L’unica cosa che piegava il suo orgoglio al punto
da accettarla dalle mani dei suoi carcerieri era il cibo, ma persino
nel nutrirsi conservava il contegno austero e regale di principe.
Alla fine nessuno aveva più osato scommettere su di
lui e, nonostante il suo tradimento, le guardie avevano iniziato a
nutrire un certo rispetto per la sua forza di volontà, invulnerabile
ai tormenti della carne come a quelli della mente.
Non si avvicinavano né gli rivolgevano la parola,
fedeli agli ordini del padre degli dei, ma di sottecchi lo
osservavano con ammirazione. Talvolta lui intercettava le loro
occhiate e d’istinto si ritraevano, sfuggivano al suo sguardo –
persino i più anziani tra loro, veterani di molte battaglie, non
avevano il coraggio di fronteggiarlo.
Allora lui manifestava un unico, orribile accenno
d’espressione: per un attimo, un fuggevole attimo, increspava un
angolo della bocca in un sorriso compiaciuto.
Loki di Asgard, con il vuoto negli occhi e la morte
nel sorriso.
Talvolta, anziché condurlo nella sala delle
torture, lo portavano in una stanza scarsamente illuminata, il cui
mobilio consisteva in due sedie. Una era per lui, l’altra per un
membro della sua famiglia – Frigga o Thor, Odino non aveva mai
acconsentito a incontrarlo.
Quel giorno era Thor.
Mentre Frigga talora riusciva a penetrare la sua
corazza di freddezza, il fratellastro non faceva altro che irritarlo
o divertirlo con la sua ostinazione.
«Loki». Pronunciava il suo nome come fosse una
preghiera, la voce profonda ridotta a un sussurro a fior di labbra,
gli occhi azzurri grondanti disperazione e speranza che, finalmente,
Loki tornasse da lui come un cane obbediente. Patetico. «Te ne
prego, Loki, te ne prego, accetta di fare ammenda per i tuoi errori.
Padre sarà misericordioso».
Il bastone e la carota, si ripeteva Loki quando
sosteneva lo sguardo disperato del fratellastro, quando sua madre, in
lacrime, lo supplicava.
Quegli incontri erano la carota, la ricompensa
perché si era comportato bene, la promessa che, se avesse obbedito,
la serenità lo attendeva al varco. Le torture erano il bastone,
necessarie per ricordargli che aveva sbagliato e doveva essere
punito.
«Se non lo farai, sarai condannato a morte».
Alla parola morte gli si spezzò la voce,
risvegliando l’attenzione di Loki.
Era la prima volta che si faceva menzione di una sua
possibile condanna e si domandò da quanto tempo Thor lo sapesse, da
quanto tempo glielo tenessero nascosto, in attesa che il suo spirito
venisse meno e lui si arrendesse a parlare, a piegarsi al loro
volere.
Il fratellastro dovette cogliere nella sua
espressione l’indignazione che aveva scatenato in lui, perché si
morse un labbro e gli appoggiò ambo le mani sulle spalle.
Quel contatto inaspettato con i suoi lividi lo colpì
come una frustata incandescente. Contrasse i muscoli delle braccia,
in parte anche in reazione all’eccessiva, indesiderata prossimità
di Thor, ma il suo volto rimase impenetrabilmente orgoglioso, il
mento levato, la mascella tesa.
«Loki, per favore, torna. Torna da me, torna da
nostra madre, da nostro padre» implorò, scrollandolo con forza,
trascinato dall’impeto della sua supplica.
Ogni strattone gli provocava un tale dolore che un
altro uomo avrebbe mugolato, lui al contrario era grato di quella
sofferenza, che gli permetteva di distogliere l’attenzione dalla
recita ridicola con cui il fratellastro si stava umiliando dinanzi a
lui.
Poiché Loki appariva del tutto indifferente alle
sue preghiere, Thor lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e dal
suo petto si levò un sospiro così profondo da scuotergli il busto
possente come il tuono di cui era il dio. «Rifletti sulle mie
parole, fratello» mormorò, alzandosi dalla sedia con lentezza,
quasi che d’improvviso la sua mole fosse troppo pesante da
sostenere. «Nessuno di noi ti vuole morto. Siamo la tua famiglia».
Quando se ne fu andato, Loki rilassò i muscoli che
non si era reso conto di avere contratto e chiuse gli occhi nel
silenzio, sostituto della voce roboante del fratellastro.
Il bastone e la carota, mise a tacere il
pezzo di sé che vacillava.
Odino aveva un aspetto terribile e maestoso insieme
nella sua armatura scintillante. Il mantello scarlatto era
drappeggiato con eleganza sulle sue spalle larghe, la spada pendeva
dal suo fianco destro, protetta dal fodero di metallo intarsiato, e
la barba candida era acconciata con cura nella tipica treccia di
guerra degli asgardiani.
Non portava l’elmo, che era simbolo di
combattimento, ma un laccio nero al polso, simbolo di lutto, da cui
non si era mai separato dopo l’esilio del figlio più giovane.
Frigga aveva i capelli chiari acconciati in un
magnifico chignon e un semplice abito di seta ocra avvolgeva la sua
figura sottile. Affiancava il suo consorte e teneva una mano sul suo
braccio, una statua di regale compostezza e supporto per il padre
degli dei.
Poi Thor, l’erede al trono, si trovava alla destra
del padre, rivestito della sua corazza più elegante, Mjolnir appeso
alla vita e l’elmo sottobraccio. Di poco più alto di Odino, dava
l’impressione di essere una guardia invincibile a protezione del
signore di Asgard.
Infine Loki, il figlio bastardo, il figlio
traditore, il figlio tanto amato – o almeno così avevano predicato
nella stanza con due sedie, prima che le guardie lo riaccompagnassero
in prigione – era ai piedi della scalinata d’oro che conduceva
alla piattaforma dov’era riunita la famiglia reale, costretto di
conseguenza a guardarli dal basso.
Alle sue spalle, il popolo di Asgard assisteva al
processo in rispettoso silenzio.
«Loki di Asgard,» declamò Odino, la voce che
echeggiava in ogni angolo della sala del trono «figlio di Odino—»
Per la prima volta dacché era stato riportato ad
Asgard, Loki parlò. «Figlio di Laufey».
Un vociare concitato si diffuse tra gli spettatori a
quella correzione sfacciata, ma si spense immediatamente quando Odino
aggrottò la fronte in un’espressione cupa, incassando il colpo.
«Figlio di Laufey,» riprese dopo un istante di immobilità glaciale
«sei qui, oggi, al cospetto del re degli dei, per rispondere del
tradimento perpetrato ai danni di Asgard e Midgard: dopo essere stato
esiliato, hai marciato alla guida di un esercito con l’intento di
conquistare Midgard e non hai obbedito al comando dell’erede di
Asgard, che ti intimava di mettere da parte quel folle proposito.
Come ti dichiari a riguardo?»
Loki inclinò il capo da un lato e gli scoccò
un’occhiata di sfida, a testa alta e saldo sulle gambe, fiero dei
lividi che deturpavano la prima e delle catene che legavano le
seconde, emblemi della sua forza di volontà. «Colpevole».
Se Odino si era aspettato una risposta diversa, non
lo diede a vedere. Non una sola emozione segnava il volto rugoso del
padre degli dei, eppure appariva infinitamente vecchio, minuto e
debole, ripiegato su se stesso come una foglia morta.
Frigga si sforzava di ostentare imperturbabilità,
ma quando i suoi occhi si soffermavano sul figlio adottivo la sua
espressione si frantumava; Thor era un monolite di tristezza e
solennità.
«In virtù della mia autorità di sovrano di
Asgard, io, Odino Borrson, ti condanno a morte per decapitazione,
secondo le sacre leggi degli Æsir».
Le guardie che avevano il compito di scortarlo al
patibolo si tenevano a trenta centimetri di distanza, non abbastanza
per lasciargli spazio per fuggire, ma abbastanza per concedergli una
certa intimità, per quel che permettevano le circostanze. Era il
loro modo di dimostrargli il loro rispetto, non solo perché era un
principe di Asgard, ma anche perché l’autorevolezza che emanava
dalla sua figura – oltre alla storia della sua leggendaria
prigionia – li spingeva a nutrire una deferenza istintiva nei suoi
confronti, mista al timore per i suoi poteri magici e al disprezzo
per i suoi crimini.
Loki sorrise, e per una volta non era un sorriso
crudele, solo soddisfatto.
Non aveva ceduto e se ne sarebbe andato ossequiato.
Come il re che avrebbe dovuto essere.
Quando mise piede sulla piattaforma dove l’attendeva
il boia, egli gli fece un brusco cenno di inginocchiarsi, ma lui non
si mosse.
Non si era inginocchiato in prigione, non l’avrebbe
fatto ora. Non dinanzi all’intera popolazione asgardiana, non
dinanzi a Thor, Odino e Frigga, che assistevano ai piedi della
piattaforma, in prima fila.
Prima che una delle guardie o il carnefice stesso lo
costringessero a obbedire all’ingiunzione, Loki levò entrambe le
mani in segno di resa e osservò con fare diplomatico: «Tra le sacre
leggi degli Æsir non è forse contemplato l’ultimo desiderio del
condannato? Questo è il mio: consentitemi di morire in piedi».
Mentre l’attenzione si spostava su Odino, cui
spettava il responso, Thor fu il primo ad agire, con estrema sorpresa
di tutti, Loki compreso: affrontò in due sole falcate la breve
scalinata che dava sul patibolo e si frappose tra il fratellastro e
le guardie, Mjolnir minacciosamente sguainato, l’espressione di
ferro.
«Chiunque osi avvicinarsi a mio fratello e mancare
di rispetto al suo ultimo desiderio» scandì nel tono freddo e
deciso di chi non si faccia scrupoli a uccidere, un tono che mai, mai
prima Loki gli aveva sentito usare «dovrà assaggiare il mio
martello».
La sua reazione imprevista gli guadagnò
innumerevoli occhiate incredule e molte, anche, di sdegno e rabbia,
ma, dal momento che Odino non fece cenno di volersi opporre, il boia
si limitò ad annuire e a sollevare la spada, che disegnò un arco
armonioso nel tagliare l’aria al di sopra del collo del condannato.
Questi dedicò il proprio ultimo sguardo al
fratellastro. Uno sguardo gelido, ma screziato di qualcosa, qualcosa
che somigliava terribilmente all’antico affetto che li legava.
«Grazie» esalò a fior di labbra, un istante prima
che la lama calasse.
Thor non ebbe la forza di guardare mentre la testa
rotolava via e il corpo, derubato della vita, si accasciava inerte al
suolo. Cadde in ginocchio con un grido di dolore che riecheggiò
ovunque nella piazza con la forza devastante del ruggito di una
tempesta. O di un pianto.
Del tutto dimentico di trovarsi al cospetto
dell’intera popolazione asgardiana, si coprì il volto con le mani
e scoppiò a piangere, piegato in genuflessione ai piedi del cadavere
di Loki.
Alla fine era stato Thor a inginocchiarsi per lui.
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