Casa Stevens
Rea era una normalissima liceale
che doveva iniziare l’ultimo anno di superiori.
Non era tra le migliori della
classe, questo è certo, però riusciva a cavarsela grazie alla sua memoria, e, in
qualche modo, non aveva mai avuto problemi ad arrivare a fine
anno senza dover frequentare i corsi estivi. Il suo motto scolastico era
“se riesco a prendere la sufficienza andando a vela, chi me lo fa fare di
studiare?”. Così la si vedeva china sui libri quando proprio non era riuscita a
stare attenta in classe o non si ricordava nemmeno la materia di cui avrebbe
dovuto sapere il programma.
Non era molto alta, ed era anche
piuttosto in carne. Odiava completamente il suo corpo.
Le piacevano solo i capelli,
morbidi e di colore ramato, per il resto avrebbe volentieri fatto a cambio con
chiunque. Era piena di lentiggini ed era goffa e imbranata per colpa della sua
insicurezza.
Ogni volta che faceva qualcosa
finiva sempre per rendersi ridicola cadendo o dicendo cose senza senso, ed era
per questo che si vergognava di sé stessa.
Pensava di non essere brava in
niente, di non essere simpatica e di non essere bella, e questo le procurava un
grande dolore.
Aveva solo due grandi passioni, la
scrittura e il canto, ma in entrambe si sentiva sempre molto insicura. Teneva
nascoste le sue doti per paura di essere giudicata male o presa in giro, e si
premurava sempre di controllare di essere da sola quando provava una qualsiasi
canzone.
Avrebbe tanto
voluto uscire allo scoperto e farsi sentire da tutti, fare di quest’amore
per la musica il suo mestiere e vivere solo di quello, potersi scrivere i testi
e poi cantarli su un palco senza tremare come una foglia anche solo al
pensiero.
“Rea! Mi vieni ad aiutare un attimo?” la
chiamò sua sorella.
Spegnendo di mala voglia l’mp3, la
ragazza si alzò dal letto e uscì dalla sua camera.
“Che
succede?” domandò sbadigliando.
“Sono
sexy con questo vestito?” rispose l’altra. Lei alzò gli occhi al cielo e
scosse il capo.
“Sai che
sei un caso perso?” le fece presente. Con un sorriso smagliante, sua
sorella la fissò.
“Perché?” chiese ingenuamente.
“Lascia
perdere” disse.
Ecco, avere un fisico e
un’autostima come quella di sua sorella le avrebbe fatto comodo. Era alta e
slanciata, con lunghi capelli neri e lisci. Continuava a ripetere ad ogni ora
del giorno quanto fosse sexy e bellissima, facendo ridere tutti i suoi
familiari.
“Vuoi
un po’ di rossetto per uscire?” le propose, avvicinandosi minacciosa. Rea
spalancò gli occhi e arretrò spaventata.
“Ma
nemmeno per idea!” rispose. Odiava i trucchi. Per una nervosa come lei,
poi, che si strofinava gli occhi ogni poco, erano una tortura.
“Dai, solo un
pochino!” la implorò. Senza rendersene conto, indietreggiando si era
chiusa al muro, e non poteva più scappare.
“Ti
prego no!”
“Te ne
metto poco, promesso” sorrise l’altra. Rea strinse gli occhi e aspettò di
sentire il rossetto premerle sulle labbra, ma la porta fu spalancata e una
biondina piccolina entrò.
“Che
diavolo state facendo?” domandò incuriosita.
“Mi
vuole truccare!” piagnucolò la rossa, in direzione dell’altra sorella.
Questa si sedette sul letto.
“Se
non vuole, non insistere Emma” la sgridò bonariamente. Lei abbassò il
make up e la guardò tristemente.
“Perché?” chiese
depressa.
“Perché non la puoi costringere” rispose lei. Rea
approfittò del momento per sgusciare sotto al braccio della mora e nascondersi
dietro all’altra.
“Laura,
proteggimi” implorò.
“Comunque un po’ di trucco non ti farebbe male”
considerò.
“Ma come? Mi tradisci
anche tu? Sei crudele!” disse
la rossa. Emma rise.
“Te
l’avevo detto” gongolò.
“E poi
io non vengo con voi stasera!” fece presente. Le sue sorelle spalancarono
gli occhi.
“Che cosa? Perché?” chiesero insieme.
“Perché
non ho voglia” rispose lei con un’alzata di spalle.
“Ma non puoi non uscire! È sabato, dobbiamo divertirci!” s’infuriò Emma.
“Lo so,
e hai ragione, ma non sto molto bene e se uscissi sarei solo di peso”
spiegò.
“Certo che sei una palla” si lamentò Laura. Rea
sorrise e la guardò.
“Voi andate e divertitevi, ci vediamo quando
tornate. Vi aspetto
alzata e mi faccio raccontare tutto nei minimi dettagli per penitenza, va
bene?” propose. Le due si
fissarono e poi annuirono, un po’ deluse.
“Allora
a dopo” le salutò la ragazza, uscendo dalla stanza di sua sorella e
chiudendosi nella sua.
Quando fu rimasta sola, Rea uscì
da camera e sbirciò in giro. Fece il giro di tutte le stanze per essere sicura
che non ci fosse nessuno, poi tirò un sospiro di sollievo.
Amava quella famiglia allargata,
non avrebbe potuto considerarsi più fortunata di così.
Lei non era figlia genetica dei
coniugi Stevens: sua madre era la sorella della madre di Emma e Laura, ma fin da
piccole erano sempre state insieme.
Quando aveva più o meno quattro
anni, per colpa di un incidente d’auto i suoi genitori erano morti, e lei era
rimasta sola. Durante il funerale sua zia le era andata vicina e, con gli occhi
pieni di lacrime, le aveva spiegato gentilmente che sua
mamma aveva nominato suoi tutori lei e il marito. Alla sua fanciullesca
domanda “Che significa tuttori?”, la donna aveva riso e aveva risposto
dicendo che si sarebbero occupati di lei prendendola a vivere con sé.
Aveva continuato a chiamarli “zii”
per un po’, rimanendo sempre in disparte anche quando Emma e Laura la spronavano
a giocare con loro nonostante avessero passato insieme tutta la vita, poi si era
abituata a quel clima un po’ strano ed aveva iniziato a dire “mamma” e “papà”.
Dopo tredici anni, ormai, li considerava a tutti gli effetti suoi genitori,
anche perché non si ricordava quasi più quelli veri. Ne aveva sentito la
mancanza come tutti i bambini, ma era così piccola quando erano morti che il
dolore era passato senza lasciare traccia. Ogni tanto quasi si sentiva in colpa
nei confronti della loro memoria, poi, però, si ricordava di quanto sua madre
amasse la sorella e sorrideva pensando che, da qualche parte, lei la stesse osservando e fosse felice per lei.
Per quanto riguardava Emma e
Laura, invece, erano un caso molto particolare.
Avevano la stessa età, ma non
erano gemelle. Sua zia aveva avuto Laura a gennaio, felice di avere una bambina
in casa e convinta di volerne solo una. Nel giro di un paio di settimane, però,
aveva avuto una sorpresa un po’ improvvisa: era rimasta nuovamente incinta.
Non sapeva che potesse succedere,
per questo non si era protetta, e lì per lì lei e il marito erano stati un po’
titubanti: tenere o no il nuovo nascituro?
Solo quando aveva rischiato un
aborto spontaneo per colpa di una caduta dalle scale aveva deciso di volere con
tutta sé stessa il bambino, così si era fatta in quattro per stare dietro alla
neonata e alla gravidanza.
Con un mese di anticipo sulle
previsioni, Emma si era presentata in un soleggiato giorno di inizio
ottobre.
Tutte e tre, quindi, avevano ormai
diciotto anni (tranne la mora, che doveva compierli nel giro di due settimane),
e stavano per iniziare l’ultimo anno di liceo. Che cosa avrebbero fatto una
volta finito, era ignoto.
Persa in quei pensieri, Rea non si
era accorta di star sorridendo. Provava un profondo affetto per le sue sorelle,
così come lo provava per i suoi genitori, e si sentiva un po’ in colpa a tenere
loro nascosti i suoi manoscritti e le sue canzoni, ma non riusciva proprio a
cantare davanti ad altri.
Per evitare di pensarci, si mise a
preparare una crostata per le ragazze. Conoscendole, quando fossero tornate,
avrebbero sicuramente avuto fame.
“Non
mi diverto, Emma” si stava lamentando Laura, seduta su una panchina.
“Nemmeno io” ammise l’altra.
“Sapere che Rea non è uscita mi fa sentire in colpa, e per
questo non mi godo l’uscita. Forse
dovremmo rientrare” spiegò la bionda. Sua sorella sospirò.
“Hai
ragione, però non è giusto” si lamentò.
“Lei non vuole uscire e noi non ci godiamo la
serata. Che
palla!” continuò. L’altra
le dette un piccolo colpo su una spalla.
“Smettila, lo sai com’è fatta: è un tipo introverso e non
ama particolarmente uscire fino a tardi il sabato sera. Lei non è te” la sgridò.
“Lo
so, però…” provò a controbattere.
“Niente però, torniamo a casa” decise Laura.
Controvoglia, entrambe si alzarono
e cominciarono a camminare. Dopo pochi minuti, la bionda si ricordò di una
cosa.
“Ehi,
hai notato che Rea tiene una pila di quaderni nascosti in camera?” chiese
a Emma.
“Davvero?” si stupì lei.
“Hai
uno spirito di osservazione moooolto spiccato”
la prese in giro.
“Come potrei sapere una cosa simile? Sta chiusa in quella stanza per metà
della giornata e non dice mai cosa fa!”
ribatté.
“E’ vero, ma io sono entrata lì dentro l’altro giorno,
quando mi ha chiamata perché voleva che l’aiutassi a chiudere il vestito che la
mamma le ha comprato per il matrimonio di nostra cugina e che si stava
provando. Mentre si guardava allo
specchio ho notato che sopra la scrivania c’erano quattro quaderni aperti con
una penna in mezzo. Le parole erano scritte molto fitte. Conoscendola, non sono di sicuro i compiti per le vacanze” dedusse.
“Anche
perché quelli glie li ho fatti copiare io la settimana passata” ricordò
Emma.
“Esatto. Secondo te cosa nasconde?”
s’incuriosì Laura.
“Secondo me niente. Saranno stati appunti scolastici” minimizzò la mora, con un’alzata di
spalle.
“Mmmh…”
rifletté l’altra, poco convinta.
Quando giunsero in prossimità
della loro abitazione, entrambe si immobilizzarono.
“Cos’è questa musica?” domandò la bionda.
“Non
saprei, sembra che venga da casa nostra” rispose sua sorella. Videro
dalla finestra Rea che tirava fuori dal forno una crostata alla nutella e la
poggiava sul tavolo.
“Sta
cantando?” si stupirono.
“Io
non sapevo nemmeno che avesse il senso del ritmo!” aggiunse Emma.
Rimasero ferme a sentirla cantare
per un bel pezzo, rapite dalla sua voce, poi entrarono in casa.
Presa alla sprovvista e impaurita
dall’irruenza delle due, Rea rimase con la bocca spalancata e gli occhi
sgranati. Il cuore prese a batterle all’impazzata.
“C-che ci fate voi
qui?” domandò titubante.
“Stavamo tornando a casa e…”
“… ti
abbiamo sentita cantare!” dissero terminando l’una la frase dell’altra.
La rossa rimase un secondo
immobile, completamente pietrificata, poi corse a
nascondersi in camera sua, seguita dalle sorelle.
Si chiuse dentro a doppia mandata,
con la tachicardia, e le sentì battere i pugni alla porta.
“Aprici!” le urlarono.
“NO! Andate via!” rispose lei,
imbarazzata. Nessuno avrebbe dovuto sentirla, nessuno!
“Rea,
ti prego!”
“Perché ci hai tenuto nascosta una cosa come
questa?”
“Quanto tempo è che canti?”
“Vieni fuori!” iniziarono a torturarla con domande
e frasi, finendo per farla arrabbiare.
“Sparite di qui!
Non dovevate ascoltarmi, andatevene!” gridò, iniziando a
piangere.
“Noi
non ci muoviamo!” decisero le due ragazze, rimanendo ferme e continuando
a bussare. Rea si sentì come un animale in gabbia.