Tutta
colpa del caso Willeford
Autore:
ISI
Personaggi:
Sherlock Holmes & John Watson
Rating:
Verde
Genere:
Slice of Life, Pre-Slash.
Summary:
Un caso un po complicato ed uno Sherlock Holmes leggermente in crisi
di fronte all'evidenza...
Note:
Era partita con l'idea d'essere una cosa un po' sconcia, ma poiché
molto raramente i miei progetti seguono la linea originale che io
traccio per loro ecco quello che è venuto fuori...
Spero
vogliate farmi sapere che ne pensate.
Il
caso Willeford si era trascinato troppo a lungo ed aveva richiesto
troppe delle sue energie perché il grande detective privato
Sherlock Holmes, non di rado ultima, gloriosa, speranza di Scottland
Yard, potesse asserire di averlo risolto in quattro e quattr'otto,
così, come se niente fosse.
Accadeva
molto raramente, infatti, che gli capitasse per le mani un qualche
caso così complesso ed ingarbugliato, tanto illogico quanto
perverso da togliergli, anche se mai per più di una giornata,
la voglia di investigare, di capire, di dedurre, tanto da credere lui
stesso che la fatica della caccia ne superasse di gran lunga il
gusto, così da farlo -incredibile a dirsi, nonché a
credersi- demordere.
Tuttavia,
l'idea di piegarsi alla sconfitta, ammettendo così l'esistenza
di un assassino che non fosse riuscito a catturare e quindi, peggio
ancora, di una mente ancor più brillante ed astuta della sua
era qualcosa che Sherlock Holmes non avrebbe potuto fare con la
stessa facilità dell'ingoiare una manciata di chiodi, perciò
di lasciare la presa ed abbandonare il caso, nossignore, non se lo
era permesso e alla fine, invero, la sua costanza e la sua coerenza
erano state ripagate con il successo, ma adesso, arrestato il
maggiordomo di casa Willeford -perché è sempre
il maggiordomo l'assassino, nessuno lo ha mai spiegato a Lestrade e
ai suoi?- il grande detective si sentiva esausto e al contempo
saturo: esausto perché le intere settimane trascorse a
crucciarsi senza poter dormire la notte, torturandosi in ragionamenti
che finivano per non avere né capo né coda ed
inseguendo supposizioni al limite del folle, traballanti come sedie
con tre sole gambe lo avevano sfinito; saturo
perché non ne poteva veramente più di di morti e di
assassini e di vedove e di orfani e di maggiordomi e ancora di prove
e di indizi e di tutto il resto.
Si
sentiva come un cane da caccia, come un segugio, che un padrone
sconsiderato abbia tenuto per troppi giorni alla catena, aizzandolo
ed istigandolo di continuo e senza sosta per liberarlo poi nella
selva folta ed ombrosa a scannarsi in un rovo per una lepre o a
lanciarsi morituro contro le zanne ricurve di un grosso cinghiale
sbuffante; si sentiva come un ubriaco che, riemergendo dal lungo,
tormentato sonno di un Dioniso incollerito, non potesse più
neppure sostenere la vista di un acino d'uva.
Non
voleva più pensare.
Incredibile
a dirsi, ma davvero avrebbe voluto, se solo fosse stato possibile,
togliersi dalla testa quel prodigioso cervello, sempre in moto,
sempre all'opera, per metterlo in una polla d'acqua e starsene con lo
sguardo inebetito a fissare il soffitto come un lobotomizzato.
Dette
un'altra boccata alla sua pipa e disteso com'era sulla sua poltrona
preferita tirò indietro il capo, mettendosi davvero a
contemplare l'intonaco del solaio e seguendone con gli occhi attenti
le sbavature, si chiese se una ipodermica di cocaina avrebbe potuto
fare una qualche differenza.
Mugolò
indispettito, considerando che la sua soluzione al sette percento
rappresentava un altro argomento dolente, un tabù che da
qualche tempo a questa parte aveva causato non poco astio tra le mura
del 221/b di Beker Street e sollevato un polverone di polemiche
elucubrazioni mentali.
Lo
sguardo che il suo Boswell gli aveva scoccato l'ultima volta in cui
lo aveva veduto lasciarsi scivolare l'ago nel braccio stretto dal
laccio emostatico non gli era andato giù ed il suo viaggio
immobile negli allucinanti segreti dell'universo di colpo si era
trasformato in una infinita sala degli specchi in cui lo sguardo
chiaro del dottore, affilato e pungente come la stoccata di un
fioretto, aveva continuato a riproporsi a lui, fino quasi a fargli
montare addosso un turbamento sconosciuto all'animo, che una volta
recuperate le sue capacità cognitive, a mente fredda, aveva
potuto definire, con un ben minimo margine di errore, quale una sorta
di disgusto.
Disgusto
di se stesso.
Chiuse
gli occhi e si lasciò sfuggire un sospiro, domandandosi come
proprio il dottore, dopo l'inferno dell'Afganisthan potesse
sopravvivere ogni giorno senza quell'eden artificioso per il quale
era stato tanto a lungo e tanto aspramente criticato.
Una
sensazione di tenue dolore accompagnò la soddisfazione che
provò nel sentire i propri muscoli sciogliersi e la fronte
allentarsi, abbandonando il cruccio che la corrugava.
Tralasciando
quel particolare evento e quel suo sguardo carico di delusione e di
rabbia -contro chi dei due, poi, Holmes non avrebbe saputo dirlo con
certezza- il detective si meravigliò nello scoprire come il
pensiero del suo Watson fosse l'unico che, pur in quella strana ed
inusuale situazione, la sua mente ed il suo cuore potessero
continuare a sostenere.
Non
scaturiva da esso come da tutti gli altri quel senso di claustrofobia
e di costrizione che lo rendeva furioso e frustrato come un leone in
gabbia, ma piuttosto una serenità profonda e dilagante che si
spandeva dentro di lui a guisa dell'acqua chiarissima di una
sorgente.
Scosse
il capo e si disse che il caso Willeford doveva averlo coinvolto più
di quanto non avesse creduto, vista la gravità del suo intimo
farneticare.
Holems
ristette ancora un po' con quella riflessione che gli ballava per la
testa, quindi aprì un occhio solo – il destro per la
precisione- e lo fissò sul dottore che, seduto sul divano lì
accanto, anche lui con i piedi distesi verso il caldo crepitare delle
fiamme nel caminetto, era intento nella lettura di un saggio sulla
sintomatologia, diagnosi e cura delle nefriti, ma l'investigatore
dovette indugiare un po' troppo a lungo sul volto del coinquilino
perché questi, d'un tratto, s'avvide del suo mezzo
sguardo ed alzate dalle righe nere del libro le iride chiare, gli
allargò di rimando un sorriso dolce come una goccia di miele.
Il
grande detective privato Sherlock Holmes fremette allora come
sdegnato, volgendo di scatto il capo dall'altra parte, con lo stomaco
che già si allacciava in un nodo inestricabile, cercando di
convincersi con ogni mezzo della sua brillantissima mente che fosse
ancora tutta colpa del caso Willeford.
Fin.
Fatemi
sapere che ne pensate...
Alla
Prossima, gente!
ISI.
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