Livin’ in sin
Macchie.
Oscurità.
Stralci di ricordi.
Una nebbia più fitta ad ogni passo.
Non vede altro, Ed.
Non vede altro e cammina spaesato in mezzo a quel nulla
soffocante, stringendosi addosso i vestiti, perché quella nebbia oltre che
confondente è anche tremendamente fredda.
Non c’è Al, non
c’è la sensei, non c’è quel seccatore di Mustang, non c’è anima viva.
Solo lui.
Solo.
Che brutta parola.
Odia ammetterlo con chiunque, soprattutto con se stesso, ma
è la parola che odia di più.
La odia perché sa di angoscia, sa di una casa che brucia e
di bambini cresciuti troppo in fretta.
Sa di dolore troppo forte per essere anche solo ricordato.
E soprattutto, sa di meritato.
Sa di punizione che prima o poi arriverà, perché in fondo al
cuore lo senti, ogni volta che fai una trasmutazione.
Lo senti, quel qualcosa che ti dà dell’arrogante, del
moccioso convinto.
Quel qualcosa che ti dà del peccatore.
Quel sentimento, quella voce, quell’eco lontano che ti
ricorda come stai immischiandoti in affari troppo grandi per te.
Ovviamente lo ignori sempre, e non perché sentirsi così
vicini a Dio è una scarica di adrenalina pura, non per il gusto dolcissimo
della potenza assoluta che ti sferza l’anima quando unisci le mani e cambi e
ricomponi la materia che qualcun Altro
di più grande ha creato.
Lo ignori sempre, tanto che ormai quasi non lo senti più,
solo perché hai una promessa da mantenere, una missione da compiere, un errore
da correggere: dei corpi da ricomporre.
E questo è più importante di qualunque cosa, non ci sono
“se” e non ci sono “ma”.
Un’ipotetica dannazione, forse non così ipotetica, è un
prezzo adeguato per morire con l’animo pulito, senza sensi di colpa a
macchiarlo.
Eppure...eppure lo sai che ci sono macchie impossibili da
togliere.
Macchie che possono benissimo manifestarsi al mondo, tanto
sono grandi, anche se a un mondo ristretto a poche persone, un mondo rinchiuso
in una cantina buia.
Un mondo delimitato da uno stupido cerchio alchemico, empio
di un ammasso di membra, sangue, una bocca spalancata in un urlo e due occhi
vuoti e straziati.
Empio del peccato di
superbia più grande che possa esistere, un insulto alla vita e alla memoria di
una persona scomparsa.
Ed è stata questa macchia a creare le altre, quelle che ora
Edward tenta in ogni modo di ripulire.
Lo stesso Ed che a volte non riesce a dormire e se ne resta
sdraiato nel letto, gli occhi spalancati fissi sul soffitto e la mente persa in
una viavai di pensieri confusi e pesanti, che terminano la loro corsa quando le
pupille ambrate finiscono sugli automail, promemoria sempre presenti a
ricordargli ogni cosa, casomai decidesse di pensare ad altro…
La felicità, ad esempio.
Ma come durante la veglia non c’è tempo per crogiolarsi in
immagini di futura gioia, ed ogni respiro ha la sola funzione di far avvicinare
di un passo il ritrovamento del santo gral, alla pietra filosofale, nemmeno in
quel turbine di nebbia fredda e ricordi sfocati la felicità sembra compresa.
C’è tempo solo per coprirsi la bocca congelata con un lembo
del cappotto e fissare il cumulo di pietre che il diradamento della nebbia ha
improvvisamente reso visibile.
Non c’è altro che delle pietre ammonticchiate e qualche
ciuffo d’erba, poi la nebbia torna a celare alla vista qualsiasi altra cosa.
E sopra quel cumulo di grigio e verde sporco, lei.
Improvvisamente vera, coperta solo da uno straccio nei punti
cruciali, ricomposti in un ordine anatomico semi umano poco credibile.
Gli occhi enormi puntati in quelli sbarrati di Ed.
E un terrificante sorrisino posato sul volto, che poi nient’altro
è che una maschera di rughe profonde.
E mentre i piedi di Ed se ne stanno saldamente ancorati al
terreno e la bocca dimostra di aver perso la capacità di aprirsi e lasciar
uscire suoni, lei si alza in piedi.
Si alza in piedi e continua a guardarlo, in viso un’espressione
che Edward ha sempre e solo visto accennata nei peggiori incubi.
Poi la donna, il mostro, quel qualcosa che anni prima
apparve nella cantina di casa Elric, parla:
- Allora tesoro, come è stato vivere nel peccato fino
ad ora? -
Un’ipotetica
dannazione, forse non così ipotetica…
E dietro quella smorfia orribile, Edward cerca di
intravedere l’ombra di ciò che un tempo fu sua madre.
Intravedere un pallido bagliore di umanità, qualcosa che
dimostri come non proprio tutto fosse sbagliato, nel suo esperimento.
Qualcosa che renda quella domanda una dimostrazione di come
si sia preoccupata per lui, durante tutto quel tempo; qualcosa che non la renda
solo un’accusa piena di acido sarcasmo.
Non ci riesce.
E mentre la creatura ripete la domanda, la nebbia scompare
ed un buio che più scuro non potrebbe esistere avvolge ogni cosa.
***
Ed apre gli occhi, ed una mano fresca gli scosta i capelli
madidi di sudore dalla fronte appiccicaticcia.
- Stai tranquillo, era solo un sogno…-
Sbatte un paio di volte gli occhi, Ed, e per un secondo la
vista di Winry, preoccupata per lui, e il fresco della sua mano candida sulla
fronte, giusto per una frazione di secondo scarsa, tutte queste cose insieme
gli fanno venire voglia di piangere.
- Mugolavi qualcosa nel sonno…ma era così orribile quel
sogno? -
Ed si mette a sedere e si inumidisce le labbra.
- N…non ricordo bene cosa ho sognato .-
Mente.
Winry si limita ad annuire lentamente, poi comunica che Al è in cucina e si affretta ad aprire le persiane,
lasciando che il sole illumini la stanza.
- Che ore sono? -
- Le dieci, ti abbiamo lasciato dormire. Ieri sera sembravi
parecchio stanco…-
- Mm. Grazie. Bè, allora mi vesto e scendo. -
Winry gli sorride, tentando di non sembrare turbata, ed esce
chiudendosi dietro la porta della camera.
Una volta fuori, si appoggia al muro e sospira
silenziosamente.
Decide che ha fatto bene.
In fondo, se nemmeno Ed ricorda nulla di quel sogno, non c’è
proprio bisogno che lei gli chieda come mai continuava a ripetere incessantemente
quell’angoscioso:
- Da morirci, mamma. Da morirci, è stato. Da morirci. -
***
Ed scende, e trova suo fratello fermo davanti al
frigorifero.
Gli sorride.
- Winry è andata in giardino…però ha detto che hai avuto un
incubo. Adesso stai bene? -
Il ragazzo biondo alza gli occhi al cielo e si versa un po’
di latte in una tazza azzurra messa lì per quando fosse arrivato.
- Certo che da queste parti le voci girano in fretta, eh?
Piuttosto…-
Inghiotte un po’ di quella colazione improvvisata, tentando
di ignorare il sapore acidulo che il liquido gli lascia in bocca.
- …piuttosto, io dopo ho una commissione da sbrigare. Posso
fare da solo, tu resta pure qua. -
Al non dice nulla
e si limita a guardare suo fratello.
Al ha capito e sa
che, ovunque debba andare, Ed vuole andarci da solo.
Quindi annuisce e basta.
***
Si liscia il cappotto, poi dà un’occhiata svogliata alla
casa dietro di lui: il rumore di stoviglie e le grida allegre provenienti
dall’interno lo tranquillizzano, il sapere che al suo ritorno quel vivace
cicaleccio sarà sempre presente gli dà una goccia di sollievo.
Poi infila le mani in tasca, Ed, soffia via dal viso una
ciocca di capelli dispettosa e si incammina lentamente verso la propria
destinazione.
Non deve preoccuparsi di controllare l’ora, il luogo dove
deve andare è sempre aperto, in quei paesini di campagna.
Cammina ancora.
Vede la porta di ferro arrugginito.
La varca senza fiatare.
Cammina ancora.
E infine, eccola.
Non c’è nebbia, l’erba è di un bel verde brillante e non
color muschio marcito; tantomeno ci sono figure inquietanti e sbucate dal
passato appollaiate sulla singola pietra bianca.
La pulizia del loco fa intuire che qualcuno, presumibilmente
la zia Pinako o Winry, si occupa di non abbandonare quel luogo un po’ desolato
a se stesso.
Edward si china e legge il nome inciso sulla pietra.
E’ quello di sua madre.
Il diciassettenne si dondola un poco sui talloni, fissando
la pietra senza muovere un solo muscolo facciale.
Infine controlla di essere solo: gira la testa a destra, poi
a sinistra, si volta.
Lascia scivolare una mano, quella di carne, sopra il marmo.
Poi dice solo, tanto piano da risultare sentibile solo alle
foglie che volano pigramente lì intorno, mosse dal venticello fresco che
arieggia Rosenbool:
- Da morirci, mamma. Da morirci. Ma prima o poi finirà tutto,
e allora forse potrai perdonarmi. -
Si alza, fa un breve inchino e dà le spalle alla tomba,
senza più guardare indietro.
Non si sente meglio, ma neanche peggio.
Si sente solo un po’ più vuoto.
Cammina lentamente fino a casa, e sospira quando sente
provenire da dietro la porta il miagolio del gattino raccolto da Al il giorno prima.
Sospira, ascolta, e finalmente sorride.
Un sorriso rassegnato, di chi sa di essersi cercato quel
dolore che sente, tanto forte da volerci morire, ed è altrettanto conscio di
non avere diritto ad arrabbiarsi, non troppo spesso, almeno.
Bussa.
Al apre la porta,
il gattino si struscia ai piedi dell’armatura.
- Tutto fatto, niisan? -
“No, non è tutto fatto. Non sarà fatto granché, finché non
potrò dormire senza fare sogni orrendi e senza che a guardare quella dannata
tomba mi venga voglia di piangere come un bambino piccolo.”
Ma Al non ha bisogno di queste risposte, e tantomeno se le
merita.
Al, al massimo, può meritarsi un po’ di serenità.
- Si, tutto fatto. E saresti pregato di comunicare a
quell’essere ignobile di nome Roy Mustang che seguire di nascosto ragazzini con
trent’anni meno è da disgustosi pervertiti! -
- Non ti stavo seguendo di nascosto, visto che avevi
avvertito la mia presenza da subito! -
Risponde prontamente il colonnello Mustang, un’espressione
falsamente indignata in viso, emergendo da dietro la porta.
Qualche allegro insulto tirato sull’uscio, mentre Winry si
prodiga a far bollire il tè pregando che quei due impiastri non distruggano la
casa, magari mettendo in atto il secondo round alchemico di cui urlano.
***
Alla fine, dopo tanti schiamazzi, finalmente un po’ di
quiete scende sulla casa.
E quiete c’è anche in veranda, dove due alchimisti di Stato
se ne stanno stranamente silenziosi, in piedi a guardare il soffitto azzurro e arancio
creato dal cielo,
- Comunque, avresti anche potuto avvertire che arrivavi
prima. -
Dice all’improvviso Ed, senza abbassare testa e tantomeno
occhi dalla volta del cielo.
- Non ne ho avuto il tempo, gli ordini erano chiari e dovevo
sbrigarmi a venire a riprenderti, niente di più. -
Qualche grillo accompagna le poche battute con il proprio
canto stridente, addolcendo l’aria insieme al buon odore di erba umida.
- Non era mia intenzione arrivare mentre eri impegnato in… -
Cerca le parole, lascia la voce sospesa sotto le stelle per
qualche secondo.
Si arrangia alla meno peggio per venir fuori da uno di quei
discorsi che, come dice il tenente Hawkeye, non sono il suo forte.
- …altre cose. -
Ed si volta.
Fa un passo verso la porta, senza sapere di stare dando il
tempo a Winry di scappare in cucina, con gli occhi bagnati nemmeno lei sa se di
mal di cuore davanti a tutta quella storia, troppo pesante anche per un
semplice pensiero, o di un divertimento troppo forte per non lasciar segni,
davanti a quei due colleghi tanto orgogliosi da diventare incoscieamente teneri, se ascoltati.
Ed continua a dare le spalle alla schiena di Mustang, ma
resta fermo.
Sa di dover dire una cosa, e tenta di dirla senza che suoni
troppo ciò che è.
- Comunque…si insomma grazie. Che sei andato via, cioè. Che
non sei rimato lì quando hai visto dove entravo. -
Mustang fa un cenno con la mano, senza girarsi.
Poi sente qualcosa pungergli la lingua, tanta voglia ha di
uscire.
Maledice la ragazzina, non avrebbe dovuto dirgli di quei
rantoli e quelle parole smozzicate nel sonno, del sospetto che qualcosa stesse
tormentando Ed ancora più di quanto si poteva immaginare.
E non avrebbe dovuto chiedergli di dare un occhio a cosa
voleva fare il FullMetall, quando se ne era andato pochi minuti prima che
arrivasse.
Non avrebbe dovuto fargli venir voglia di dire ciò che sta
per dire, tradendo la sacra riservatezza con cui entrambi gli alchimisti tirano
avanti, guarnita da quella dose di testardo orgoglio che non fa mai male a dei
caratteri bollenti simili.
Ma non ce la fa a resistere, Mustang, e mentre la porta
sbatte le orecchie di Ed si riempiono di quelle poche parole che più forti non
potrebbero essere:
- Già. Lo è per tutti, FullMetal. -
***
Ed fa in tempo a mormorarsi nella mente qualcosa, prima di
addormentarsi per quella che, già lo sa, sarà una rara notte tranquilla.
Nulla di che, solo un pensiero.
Ma un pensiero che sa di buono, o di qualcosa di simile.
“Forse è vero, colonnello. E forse aiuta viverci meglio,
dopotutto.”
Fine
Nota
di Melchan:
Ovviamente
scritta per le True Colors (truecolors.iobloggo.com), questa storia ha una
frase, per la precisione quella in cima, come idea iniziale.
Prima
non avevo idea di cosa scrivere, e stavo già cadendo in un lieve (mica tanto
lieve, a dire il vero XD) panico, chiedendomi come potessi essere già a corto
di idee (AU che ho tutta
l’intenzione di scrivere a parte è_é) dopo una sola storia.
Poi ho
riletto i temi e, alla vista di quella domanda, una lampadina fumettistica mi
si è accesa nel cervello.
Una
lampadina a forma di obbrobrio nato dai casini alchemici di questo ragazzino
quale è Ed, che rendo terribilmente complessato, poverino °_°.
E
quell’obbrobrio stava chiedendo, proprio come il tema: - Well, how have
it been, baby, livin' in sin?- al povero
Ed.
Da lì
a questo lavoro quasi un niente XD (continue
correzioni a parte, ovvio XD).
Non ho
idea di come sia venuta perché è la prima volta che scrivo qualcosa con
ambientazioni sul dark lieve andante, ma sono perfettamente conscia che non è
uno dei miei migliori lavori (anzi è_é)…a dire la verità, si potrebbe dire che
non ne sono molto soddisfatta, ma dopotutto questa era una prova.
Intanto
continuo con queste storie, sperando di migliorare col tempo…anche perché ho
scoperto di avere una certa adorazione per le writing community (ne ho guardata
qualcuna straniera, anche se non ho capito granché a parte i temi), e desidero
continuare a parteciparvi *_*.
Sperando
di presentare qualcosa di meno sperimentale la prossima volta,
Mel