E non ho più ombre da
uccidere, e non ho
più forza per restare qui; sa di lucidità e di
insana fobia, come aria
invisibile confondo tutto…(*)
25
marzo 2010
«Come
sta?», domandi, fissando
distrattamente sul monitor le linee irregolari che segnano
l’unica prova che tuo
fratello ancora respira, che il suo cuore ancora pompa sangue.
«Niente
di nuovo», risponde tua
madre dalla poltrona sistemata accanto al letto. Si sfrega gli occhi e
tu noti,
una volta di più, quanto siano profonde le sue occhiaie.
Tutto in lei sembra inevitabilmente
un po’ più spento, un po’ più
morto; ti
domandi se, quando quella macchina si fermerà, qualcosa in
lei morirà del tutto.
«Ti
do il cambio», le dici, posando
la borsa sul ripiano davanti al letto, toccandole una spalla. Non
sembra neanche
accorgersi del tuo gesto, si limita ad annuire e ad alzarsi, prendendo
il suo cappotto
senza guardarti. Non è facile starle vicino. Non
è facile starti vicino,
quando ciò che senti è solo un muro impenetrabile
tra
lei e il tuo dolore.
«Torno
stasera, avvisami se succede
qualcosa».
Ti
siedi sulla stessa poltroncina,
trovando fastidioso che sia ancora tiepida del corpo di tua madre. La
fissi andarsene
via, pensando che quel ‘qualcosa’ che potrebbe
succedere sarebbe solo che tuo fratello
smettesse di respirare. Perché ha smesso di vivere
già da un bel po’.
Il
rumore dell’ospedale - i macchinari,
le chiacchiere delle infermiere, i passi degli inservienti, le
televisioni accese,
qualcuno che si lamenta in lontananza - ti dà la nausea, e
sai che entro mezz’ora
sarai già vittima del solito mal di testa che non ti
lascerà in pace finché non
andrai a dormire.
Fissi
la sagoma di tuo fratello,
la mano lasciata inutilmente fuori dal lenzuolo - anche a
stringergliela, lui non
sentirà la differenza -, il petto che lentamente si alza e
si abbassa. Senti il
solito senso di oppressione gravarti sul petto e sullo stomaco,
l’odore di sudore
che si mescola a quello dei medicinali, del disinfettante, e quasi ti
sembra di
percepire quello del sangue, delle garze sporche che ricoprono il punto
in cui l’ago
della flebo non funzionava più, dove gli ematomi segnano le
zone in cui quello stesso
ago ha violato la sua pelle.
È
di carnagione scura, tuo fratello
- così diverso da te, che sei sempre stata così
chiara, così simile a tuo padre
-, ma ora quella stessa pelle ha un colore pallido, malsano; nei mesi
ha pian piano
perso la muscolatura, la forza, si è al contempo gonfiato e
sgonfiato, come un palloncino
riempito d’aria a metà.
Non
è quello l’uomo che ricordi.
Non è quello il ragazzino che ti portava sulle spalle
quand’eri solamente una bambina,
che si vantava della sua principessa, che ha picchiato il primo bambino
che ti ha
fatto piangere. “Cos’è rimasto, di
lui?”, ti domandi, mentre sfiori con una mano
la sua guancia e decidi che è meglio fargli la barba ora,
prima che si indurisca
troppo.
Ti
alzi e cominci a trafficare
tra le salviette, il rasoio e l’asciugamano, tra il letto, il
comodino e il bagno.
Mentre cominci a radere il suo viso, delicatamente, il profumo della
schiuma da
barba e quello della salvietta imbevuta ti fanno girare la testa, tanto
che rischi
di tagliarlo per sbaglio. Continui, cercando di recuperare la fermezza
della tua
mano, passando sopra il mento che non ha più traccia del suo
amato pizzetto da molto
tempo. Ti piace occuparti di lui: è una delle poche cose che
non ti fanno sentire
completamente inutile, inadatta. Sono piccoli gesti da nulla, ma il
contatto con
quel corpo ti ricorda perché tu sia bloccata lì,
vicino a lui, perché non possa
scappare.
“Sto
soffocando, Lele, come faccio?”
gli chiedi con il pensiero, mentre gli giri piano il capo.
“Non riesco più a stare
qui con te. Non riesco più a stare a casa senza
te.”
Neppure
tu sai come definirlo.
Morto? In procinto di? Vivo? Ormai ti viene naturale raccontare vecchi
aneddoti
parlando di lui al passato, e ti sei detta che questo significa tutto.
Eppure tuo
fratello è lì, rimane lì, davanti ai
tuoi occhi, stupidamente: troppo fragile per
vivere, troppo forte per morire, in un limbo che vi ha imprigionati tra
le sue sbarre
d’alluminio, vetro e vecchi pavimenti.
“Ti
sei addormentato, e noi ci
siamo addormentati con te.”
A volte hai l’impressione che da un momento
all’altro lui possa aprire gli occhi,
risponderti. A volte hai l’impressione che quelle saranno le
ultime ore passate
insieme. Altre ancora, pensi che rimarrete bloccati in questo limbo per
sempre.
“Se
non c’è più speranza, che
senso ha aspettare? Aspettare cosa?”
Ripulisci
e asciughi il suo viso,
ti lavi le mani e torni a sederti accanto a lui, fissando quella mano
senza il coraggio
di stringergliela.
Pensi
che a ruoli invertiti lui
farebbe di tutto perché tu stia meglio. Che rimarrebbe
accanto a te tutto il tempo,
che ti farebbe ascoltare le vostre canzoni preferite, che ti leggerebbe
i libri
di Tolstoj che hanno segnato la vostra adolescenza. A lui non peserebbe
starti vicino.
A
te, invece, pesa. Vorresti solo
essere lontano, lontano da lì, lontano da tutti. Ogni giorno
si fa più difficile
combattere contro il senso di monotonia, di routine, che provi quando
varchi la
soglia dell’ospedale.
“Sono
una sorella orribile. Non
ti ho mai meritato” pensi con tristezza, chinando il capo
verso di lui. “Ho paura,
e sono stanca di vivere così.”
A volte hai l’impressione che lui sopravvivrà a
tutti voi, che sia diventato immortale,
bloccato in quel corpo ormai sfatto, la sua crisalide di carne.
Devi
solo arrenderti all’evidenza:
non tornerà più indietro. Cosa aspetta a morire?
La
sua mano rimane lì, e tu piano,
con delicatezza, gliela sfiori. È tiepida, e questo ti
rincuora. Potresti prendergliela,
ma una paura irrazionale si impadronisce di te e ti blocca. Siete soli,
in quella
stanza, ed hai come la sensazione che, se tu lo facessi, lui ti
stringerebbe il
polso fino a torcerlo, fino a spezzarlo. Ti guarderebbe con i suoi
occhi scuri e
non ti chiederebbe nulla, neanche il perché tu sia una
persona così orribile. Ti
ha dato tutto l’amore di cui era capace, tu te ne sei nutrita
fino a svuotarlo,
fino a che, di lui, non sono restati che pallore e gonfiore,
un’opaca ombra di bellezza
perduta sul volto.
Ti
sistemi più comodamente sulla
poltrona, e fissi la goccia della flebo scivolare dentro il tubicino.
E
ti sembra che, ugualmente goccia
dopo goccia, se ne siano andate anche la tua felicità, il
tuo futuro. Il suo amore.
Chiudi
gli occhi e fai finta di
essere all’aperto, sotto un grande pruno fiorito. Ti
concentri sull’odore dolciastro,
fai passare le dita tra i corti ciuffi d’erba, accarezzi una
radice sporgente. Li
riapri e soffochi alla visione delle solite quattro mura che ti
circondano.
Sei
imprigionata da te stessa,
e non potrai più uscirne.
Lui
non te lo permetterà.
Hai sensi che confondono, solo
rabbia da
estinguere; senti che rompi tutto ciò che hai intorno, ma
senza urto.
21
gennaio 2010
«Com’è
andata oggi?», ti chiede
il tuo migliore amico, quando ti butti sul suo divano e chiudi gli
occhi con un
gemito frustrato.
«Come
vuoi che sia andata? Non
cambia nulla, non cambia mai
nulla», rispondi,
guardandolo andare in cucina a prendersi una birra. La lattina si apre
con un suono
secco, improvviso, che sembra rimbombare contro le pareti.
«Tua
madre?»
«Sempre
uguale. Si addossa il
peso del mondo, ti impedisce di aiutarla e poi ti accusa di non star
facendo niente».
Fissi
ipnotizzata i raggi delle
ruote della sua carrozzina a rotelle, sentendo il peso che hai sullo
stomaco e sul
petto stringerti ritmicamente gli organi, tentando di strozzarti il
respiro come
un cane rabbioso.
«Avrei
solo voglia di spaccare
qualcosa, a volte. Ma poi la rabbia è talmente grande che mi
soffoca e mi paralizza,
e io fisso ciò che ho intorno desiderando di romperlo, ma
senza mai agire».
Non
annuisce, non replica, continua
a bere con calma finché non ha finito. Sai bene quanto la
sua vita gravi intorno
ai concetti di odio e rabbia, di quanto siano stati difficili, per lui,
i primi
anni. Ricordi i suoi scatti, hai visto insieme a lui i suoi amici
andarsene pian
piano, uno dopo l’altro, svanire come fantasmi di una vita
precedente.
«Tu
come hai fatto a superarlo?
A non farti divorare?»
Ti
guarda, e ti rivolge un sorriso
stranissimo, con quel misto di odio e dolore che ti ha sempre
affascinato. Schiaccia
con un unico gesto la lattina che ha in mano, incurante delle ultime
gocce che gli
bagnano le dita e cadono sul pavimento.
«Non
ne sono mai uscito, Anna».
La
lattina cade a terra, e lui
se ne va, lasciandoti da sola a riflettere.
È solo rabbia che non ha
più via di
fuga, e all’improvviso poi mi accorgo che non ha
più senso rifugiarsi dentro
un’ombra che dà noia… E non ci provi
più, tu non esisti più.
30
aprile 1986
«È
tuo padre, Silvia», mormora
tua madre, con voce triste. Ti guarda e sai che non riesce a
riconoscerti dietro
quella patina di sgradevole indifferenza che ti avvolge completamente.
«Poteva
dimostrarmelo prima»,
rispondi, sentendo la rabbia serpeggiare dentro di te, riversarsi
rovente e liquida
nel tuo stomaco. La tua espressione non muta.
«Non
sapeva come dimostrartelo,
non ci è mai riuscito… Ti prego, dagli
un’ultima possibilità…»
«No».
Ti
accarezzi distrattamente la
pancia, già inavvertitamente più tonda e piena. I
bambini si nutrono delle emozioni
delle madri, finché sono al sicuro in quella bolla di
liquido amniotico e placenta,
tu lo sai. Tuo figlio, o tua figlia, sta già scontando il
tuo odio.
«Silvia,
sta morendo».
Gli
occhi azzurri di tua madre
cercano di scavare in te, di capire quali sono i tuoi punti deboli per
abbatterli.
Ma tu non sei vulnerabile, non più, non per loro.
«Non
mi importa».
Tua
madre non ti riconosce più.
Ma forse, semplicemente, non ti ha mai conosciuta davvero. Forse non ti
sei mai
conosciuta davvero neppure tu.
«Come
fai a essere tanto fredda?
Non eri così…»
La
guardi e decidi di andartene,
di uscire da quel bar dove ti ha invitata per parlarti faccia a faccia.
Cammini
lentamente sul marciapiede di quella grande città di
provincia, i passi pesanti
quanto il tuo cuore.
Non sei felice, ma nessuno ha mai capito quanto tu fossi triste. Dal di
fuori, sembri
solamente normale. Hai un lavoro
stabile,
un marito, un bambino da crescere e un altro in arrivo.
Normale.
Stringi
la mano intorno alla tracolla
della borsetta fino a perdere la sensibilità delle dita. Te
ne sei andata da quella
casa appena hai potuto, ma il suo spettro ha continuato a perseguitarti
senza sosta,
inseguendoti e avvelenando ogni cosa buona che hai provato a piantare,
restituendoti
indietro un raccolto marcio.
Quello
di cui non ti rendi conto
è che le cose ti feriscono finché permetti loro
di colpirti, che non parlandone
con tuo padre non riuscirai mai a chiudere del tutto la faccenda. Che
finché tua
madre non lo saprà, continuerai ad odiare anche lei.
Sei
talmente piena di odio - di
odio, e di rabbia - che provi l’istinto irrazionale di farti
del male, a livello
fisico, per tentare di farlo uscire in qualche modo. Il tuo respiro
accelera, anche
il solo deglutire ti costa fatica, la testa gira e ti fermi, immobile
nel flusso
della gente che ti passa accanto e non ti vede - sei sempre stata
così invisibile,
così insignificante, così normale…
Vorresti
urlare, scappare, vomitare.
Prendi fiato e ricominci a camminare, invisibile, insignificante,
normale.
Tuo
padre morirà fra una settimana,
e tu non andrai al suo funerale.
Nessuno
noterà davvero la tua
assenza, forse perché non sei mai stata presente.
Senza aspettare più di
subire il tempo
tra le mani (sogni risplendono); e non importa se tutto quanto
è fermo intorno
a te (sogni risplendono)… Io sono il tempo, sono lo spazio e
i desideri sono i
miei tentacoli;
e non aspetto più di
bruciare il tempo
tra le mani, sogni risplendono.
12
maggio 2010
Quando
te ne sei andata a dormire,
ieri sera, hai guardato il display del cellulare con una specie di
presentimento.
Sei sempre stata convinta che bisogna essere rintracciabili in ogni
momento, anche
e soprattutto di notte, perché “non si sa
mai”. Non si sa mai cosa possa accadere,
chi potrebbe avere la necessità di parlare con
te… Però quella sera hai guardato
il tuo ragazzo, steso a letto e mezzo addormentato, distrutto dalla
fatica. Doveva
alzarsi presto, e tu hai deciso di spegnere il telefonino per evitare
di disturbarlo.
Ti sei coricata al suo fianco, non osando toccarlo per non dargli
fastidio, chiedendoti
da quand’è che non fate l’amore assieme.
Hai deciso che almeno questa muta cortesia
potevi lasciargliela.
La
mattina dopo ti svegli, sola
nel vostro letto, e accendi il cellulare per controllare
l’ora. Cinque chiamate
perse.
Tuo
fratello è morto.
Sali
gli scalini per arrivare
al quarto piano, evitando l’ascensore, e arrivi nella camera
dove tua madre sta
raccogliendo le ultime cose. Vi fissate senza dirvi nulla, e tu
l’aiuti piegando
la sdraio e incamminandoti accanto a lei.
«Devi
accompagnarmi alle pompe
funebri, me ne hanno consigliata una in corso Mazzini, non ce la faccio
da sola».
«Va
bene, mamma».
Senti
che vuole dirti altro, che
è arrabbiata con te per qualche motivo. Ma lei è
fatta così: deve imbottigliare,
imbottigliare fino ad esplodere, fino a quando non è sicura
di fare a chi l’ha ferita
altrettanto male.
«Dovevi
rispondere, stanotte.
Avevo bisogno di te, e non c’eri».
«Mi
dispiace, è stata solo una
coincidenza… Sono sempre rintracciabile, volevo lasciar
tranquillo Francesco».
«E
tua madre? Lei non volevi lasciarla
tranquilla? Sai benissimo in che condizioni fossimo, dovevi lasciarlo
acceso».
Quello
che sai benissimo, invece,
è che è impossibile frenare la sua ondata di
rabbia. Lasci che ti investa in pieno,
senza reagire; non ci sei mai riuscita, e non hai mai trovato la
spiegazione del
perché. Come se tu fossi imprigionata nel suo odio, nei suoi
sentimenti…
«Sei
sempre la solita irresponsabile».
Senti
le lacrime salirti agli
occhi, e pensi che non è colpa tua. Non è colpa
tua se lui ha avuto l’incidente,
non sono colpa tua i mesi di coma, la stanchezza, le notti insonni e le
ore infinite
in ospedale. L’apatia. La rabbia, l’odio.
Non
è colpa tua se tua madre si
è sempre odiata e non si è mai perdonata.
«Ti
ho già chiesto scusa, mi sembra
stupido litigare ora per questo. Non posso far tornare indietro il
tempo, e ieri
non potevo prevederlo. Ho sbagliato, scusa».
Lei
continua a camminare rabbiosamente,
a passo sostenuto, e ti rendi conto, una volta di più, che
non ti ha minimamente
ascoltata.
«Ho
dovuto far tutto da sola.
L’ho visto morire, e una madre non dovrebbe mai vedere morire
un figlio».
Decidi
di non rispondere più,
perché sarebbe inutile.
Inghiotti
l’odio di tua madre
e lo fai tuo, ma non sei come lei, non sai come farlo uscire. Non sai
usare gli
altri come sfogo, quindi lo riversi su te stessa in un meccanismo di
logica
perversa da cui non credi di poter riuscire a scappare.
Dopo
le pompe funebri tornate
in ospedale, all’obitorio, dove hanno allestito una camera
ardente, e tua madre
decide di non entrare. Non sopporta di vederlo, non può
sopportare altro dolore,
dice. Entri da sola, e onestamente gliene sei grata, perché
non saresti in grado
di condividere quel momento con nessuno, men che meno con lei.
L’odore
dei fiori è nauseabondo
e ti avvicini cautamente alla figura di tuo fratello, steso su quello
che dovrebbe
essere una specie di altare. È di un pallore strano, la
piega della bocca è dritta
e non sofferente come l’hai vista negli ultimi tempi, sembra
sereno. Non sai quello
che provi finché non noti che intorno al collo
c’è un supporto, un tubo di plastica
trasparente, forse per evitare che la testa si pieghi da una parte.
È solo in quel
momento che realizzi quanto simile ad un oggetto
sia, come di lui non sia rimasto più nulla. Non potrai
più parlargli, non potrai
più chiedergli se ti voleva bene. Più nulla, ti
è rimasto solo un corpo composto
in una posa innaturale e dei fiori.
Scoppi
a piangere, per la prima
volta dopo tanto tempo, accarezzandogli la fronte e sentendola fredda,
ma non così
ghiacciata come l’avevi immaginata.
Rimani
lì dentro per un po’, investita
dal senso di colpa, mentre tua madre siede fuori a labbra strette,
fingendo di non
sentire.
Sa di lucidità e di
insana fobia, come aria invisibile
confondo tutto…
13
maggio 2010
Guardi
tua figlia salire verso
l’ambone per eseguire le letture, ed è quasi con
un moto di stizza che senti la
sua voce tremare. L’hanno colta di sorpresa quando le hanno
chiesto se volesse farle,
e con sguardo smarrito ha detto di sì, preferendo
occuparsene lei piuttosto che
lasciarle ad altri. Magari a te.
Non
è mai stata capace di dire
di no, è una persona priva di qualsivoglia forza di
volontà. Si è sempre lasciata
scivolare la vita addosso, assorbendone i colpi senza un lamento, e
questo atteggiamento
ti fa impazzire. È un’inetta, e tale
resterà per tutta la vita.
Spesso
tu e tuo figlio avete litigato
per lei - lui non sopportava vederla piangere, e tu non sopportavi che
lui ti si
mettesse contro -, ti ha ripetuto fino alla nausea che era colpa tua se
stava così.
Ma ormai che importanza ha? Gabriele è morto, e al suo posto
ha lasciato una ragazza
sola, incapace di badare a sé stessa, e una donna che non ha
mai avuto nulla dalla
vita, e che non l’avrà più.
Ti
sei vista privata della felicità
fin da giovane, e per quanto tu abbia lottato, combattuto, non sei mai
riuscita
a conquistarla. Tua figlia potrebbe averla, ma non ne è
interessata. Tuo figlio
l’aveva, ed è morto.
Dov’è
la giustizia, in tutto questo?
Rigida
sulla panca di legno, aspetti
che la funzione abbia termine per ricevere le condoglianze di parenti
che non ci
sono stati nel momento del bisogno, di amici scomparsi nel nulla che
ora piangono
e di sconosciuti che fingono di essere addolorati per non stonare nel
contesto.
La
loro ipocrisia ti dà ai nervi,
e vedere tua figlia singhiozzare sulla spalla del suo migliore amico,
quel ragazzo
con la sclerosi tanto pieno di astio, ti dà il voltastomaco.
Esci
sulla piazza assolata, aspettando
che il feretro passi e si diriga verso il cimitero.
Respiri
l’aria calda di maggio,
e ti chiedi da quant’è che non piangi
più.
Vorrei sentire la tua voce gridare,
tentare, sbagliare… Non sopporto più di vederti
morire ogni giorno, innocuo e
banale.
24
aprile 2010
Passi
una mano nei capelli di
tuo fratello, sentendo più forte che mai il bisogno che lui
apra gli occhi, che
ti guardi, che ti dica qualcosa.
Ma
sai già che questo non accadrà
più, che manca poco ormai. Un’amica che ha visto
suo padre morire in due anni, colpito
da leucemia, ti ha detto che poi sentirai un senso di sollievo, di
liberazione.
Ti
rendi improvvisamente conto
che per te non sarà così, che tu preferisci
questa apatia al nulla.
Anche
tu guardi un uomo morire,
e non capisci perché debba essere così.
Così lento, così asettico, così
monotono.
Tua
madre arriva a darti il cambio,
e te ne vai senza salutarla.
Manca
poco, e ancora non sai come
ti senti.
Manca
poco alla sua morte, e tu
non sai più dove sei, né come fare a trovarti.
Probabilmente sei già morta quel
giorno di ottobre, stesa sull’asfalto accanto a lui.
(*) Sogni risplendono - Linea77
feat. Tiziano Ferro
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