Vendetta:
Il
Debito
Il Debito 0.1
Nul impiegò diversi secondi a rendersi conto che la battaglia era
davvero finita e che era stato lui a porle termine. Quando la
realizzazione lo colse, portando con sé sollievo, compiacimento ed
eccitazione, si rese conto che i suoi compagni si erano già ritirati
e che avrebbe dovuto fare in fretta, se avesse voluto passare
inosservato.
Rinfoderate le pistole, si nascose dietro un’auto semidistrutta
e si sporse con cautela, alla ricerca di Doom e degli altri supereroi
che li avevano aiutati e si sarebbero presi il merito del loro
lavoro.
«Qual è il tuo nome?»
Colto alla sprovvista, si volse di scatto, mano alla fondina.
Dietro di lui, Doom lo osservava curioso. Nul imprecò mentalmente.
«Ne ho tanti» ribatté con un sorriso tirato. «Puoi chiamarmi
figo, che personalmente è il mio preferito».
Con quell’armatura, il giovane uomo sembrava la copia esatta di
suo padre, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che in quelli di Victor
era sempre mancata. Nul pensava che non sarebbe mai riuscito a
fidarsi della progenie di un uomo del genere, ma ora che se lo
trovava davanti aveva l’impressione che fosse la persona adatta a
governare Latveria.
«Ti ho visto, prima» disse Doom. «Sei stato tu a fermare
l’avanzata di quelle creature e a difendere la mia terra – a
difendere me – da quegli individui che hanno attentato alla mia
vita».
«Ah».
Nul era a corto di repliche pungenti: sarebbe stato inutile
mentire e d’altra parte quella di Doom era un’affermazione, non
una domanda.
Quando il giovane uomo gli tese una mano inguantata, inarcò un
sopracciglio.
«Sono in debito. L’intera Latveria è in debito con il tuo
coraggio». Da una semplice alzata di sopracciglio, il suo volto si
contorse in un’espressione di teatrale incredulità. «Ti
ringrazio».
Nul non gli strinse subito la mano, poi si accorse che stava
facendo aspettare l’erede di Doctor Doom e si
affrettò ad
allungargli il braccio, incespicando nelle parole forse per la prima
volta nella sua vita. «Uh, beh, non è stato niente di che.
Figurati, amico».
Doom aggrottò la fronte nel sentirsi apostrofare amico,
ma
la sua stretta era decisa e sincera, due aggettivi che Nul non
credeva avrebbe mai associato al figlio di Victor. Io non
sono mio
padre, aveva detto Vernard – ora persino lui, che aveva
smesso
di credere a qualsiasi cosa, gli dava fiducia.
Okay, pensò, forse prendersi la gloria,
ogni tanto, non
è poi così male.
Angel e Chavez gli avrebbero strappato gli intestini e li
avrebbero usati come cappio per impiccarlo, se avessero scoperto che
era rimasto indietro con Doom, ma tanto era già in
pace con
l’idea che, prima o dopo, quelle due l’avrebbero condannato a una
fine atroce.
Il Debito 0.2
Ormai la osservava da un po’.
Nonostante le luci stroboscopiche, non era stato difficile
riconoscerla: indossava un top nero e un paio di shorts rossi al
posto del completo di Miss America, ma spiccava tra gli altri ragazzi
per la sua statura e il fisico sodo e muscoloso. Tra ragazze bionde e
sottili, lei era davvero bella, mora e possente.
Era sorprendente che alla sua età – non poteva avere più di
sedici anni – indossasse già un costume.
Era la testimonianza più evidente che il mondo non avesse mai
smesso di andare in rovina, consumato dalla guerra. L’unica cosa
che era cambiata era il nome dell’atrocità: una volta bambini
soldato, ora Brigata Giovanile.
Non potevano essere certi che Miss America e i suoi compagni
avessero dato vita a una nuova Brigata, finanziati da Jack, ma
Richmond la riteneva la spiegazione più plausibile per il loro
coinvolgimento nella battaglia e la fuga repentina.
Alla fine la ragazza si accorse di lei; dapprima continuò a
ballare, fingendo di non notarla, ma poi le si avvicinò a grandi
passi e scivolò sullo sgabello accanto al suo, squadrandola da capo
a piedi con un misto di curiosità e fastidio.
«Non sei troppo vecchia per questo posto?» Ammiccò alla
discoteca con un sorriso ironico.
She-Hulk provò l’impulso di colpirla. Quella ragazza le
piaceva. «Sei tu a essere troppo giovane, ragazzina. Quanti anni
hai? Quindici?»
Miss America aggrottò la fronte, ma ingollò la replica pungente.
Ordinò una birra dal barman, che a malapena la degnò di un’occhiata
e non fece cenno alla sua età, e le si rivolse di nuovo, più
guardinga: «Perché sei qui? Non risponderò a nessuna domanda,
chica, se è per questo che sei venuta, quindi puoi
anche
andartene al infierno».
She-Hulk scosse la testa con un leggero sorriso. «Nessuna
domanda. Però mi hai salvato il culo, una volta, mi sembrava giusto
offrirti qualcosa, come minimo».
La ragazza le scoccò uno sguardo indagatore, nel tentativo di
stabilire se stesse mentendo o meno, poi un sorriso compiaciuto
affiorò alle sue labbra scarlatte e la sua espressione si aprì in
una più socievole, meno cauta. «Piacere di conoscerti, comunque,
chica verde. She-Hulk, se non sbaglio».
Il barman spinse la birra verso di lei attraverso il bancone, lei
la prese e sfiorò il collo del suo bicchiere da cocktail con il
proprio. She-Hulk ricambiò il brindisi e bevvero una sorsata. «Il
piacere è mio, ragazza in calzamaglia».
Miss America sorrise di un sorriso ammiccante che le scoprì i
denti bianchi, in netto contrasto con la pelle bronzea. She-Hulk alzò
il proprio bicchiere in risposta.
Quella ragazza le piaceva proprio.
Il Debito 0.3
«Dove… mi trovo?» Il ragazzino si guardò intorno battendo
ripetutamente le palpebre, smarrito. «Questo è… inaspettato».
«Dovresti essermi grato, ragazzo» commentò Loki. «Se non fosse
stato per me, adesso saresti morto». Lo esaminò con la cura quasi
maniacale dello studioso che abbia finalmente per le mani un
esperimento cui si interessava da tempo. «Sei fortunato. Hai
attirato la mia attenzione».
All’inizio parve che il ragazzino non l’avesse udito, il suo
sguardo si spostava assente per la stanza e solo una volta si posò
sul semidio, soltanto per un momento, prima di riprendere il proprio
vagabondaggio.
Loki attese con pazienza finché non rispose in tono piatto: «Hai
corso un grande… rischio. Io ero destinato a morire, per risanare…
l’equilibrio».
Loki scacciò il pensiero con una secca sventagliata della mano,
il naso arricciato per la stizza, la fronte aggrottata. «Io sono
Loki, ragazzo, Dio dell’Inganno e delle Menzogne. Io piego
l’equilibrio a mio piacimento».
«Imprudente» gracchiò Ikol, sulla sua spalla, ma lui finse di
non sentirlo.
«Perché l’hai fatto?» Il ragazzino lo guardava con quei suoi
grandi occhi eterocromatici, uno nero, uno bianco, cercando
disperatamente in lui una risposta alla domanda che stava mandando
nel caos l’Universo di cui poteva vedere le innumerevoli
diramazioni. «Qual è il tuo… scopo?»
Loki sorrise, e il ragazzo abbassò lo sguardo. Non aveva trovato
la sua risposta.
Gli si avvicinò a passo lento, le mani intrecciate dietro la
schiena, l’affilato viso di bambino atteggiato a un’espressione
innocente, gli occhi verdi intrisi di compiacimento. «Volevo che tu
fossi in debito con me, ragazzo».
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