Nightmare
Non appena aprì la porta, si rese
conto che c’era qualcosa che non andava.
Era tutto troppo silenzioso – non
c’erano i suoni familiari di una casa abitata, viva.
Era tutto troppo immobile – sembrava
che l’aria stessa trattenesse il respiro, come in attesa di
una sciagura incombente.
Le luci erano spente – la penombra
fumosa dava alle stanze l’aspetto patinoso e dimenticato di
vecchie fotografie in bianco e nero.
Con un tocco di bacchetta accese le candele
nell’ingresso.
Marciò diritto verso il salone,
facendo gemere piano le assi di legno sotto le sue scarpe.
Un altro gesto e una lingua rosso vivo
guizzò crepitando nel caminetto.
Si tolse il mantello ghiacciato, gettandolo su
una poltrona. Accostò le mani intirizzite alla fiamma. Le
sue dita sembravano innaturalmente lunghe e diafane, attraversate dal
chiarore del fuoco come se fossero fatte d’acqua –
come morte.
Lungo la schiena un brivido che nulla aveva a che
fare col freddo.
Si allontanò dal camino, dirigendosi
verso il piano superiore.
I suoi passi non fecero rumore sulle scale.
Ancora silenzio –
pelle d’oca sulle sue braccia.
La casa sembrava vuota.
Poi, all’improvviso, il tonfo secco di una porta che sbatte.
Viene dalla stanza di suo figlio –
è lì che si dirige, a passi misurati.
Gli sembra di camminare attraverso melassa densa
– l’aria è diventata dieci volte
più vischiosa, ogni passo è una fatica immane. Il
suo corpo pesa all’improvviso tonnellate, gli sembra di
muoversi al rallentatore: la porta della stanza, invece di avvicinarsi,
si allontana, rendendo la sua un’impresa disperata.
Ma alla fine la raggiunge –
è socchiusa.
Ruota con un cigolio lamentoso sui cardini mentre
la spalanca.
Tutto sembra normale – la culla bianca
è al suo posto al centro della stanza, lì dove
dovrebbe essere. Il sole morente vi fa piovere una lama di luce
purpurea che incendia i veli bianchi di riflessi di sangue.
Si avvicina lento, trattenendo il respiro.
Gli sembra ancora tutto così
straordinariamente irreale – quei riflessi sul bianco hanno
esattamente la stessa sfumatura del sangue.
Si muove silenzioso – non vuole
svegliarlo, starà dormendo, e l’ultima cosa che
desidera è interrompere i sogni sereni del suo bambino.
Si china sulla culla – lui è
lì, le manine strette a pugno ai lati della testolina
rugosa. Il cuscino è spostato di lato. Sotto il ciuffo di
capelli neri, ha gli occhi aperti, neri anch’essi, e lo
guarda.
È tranquillo. Non lo accoglie con i
versetti o le smorfie che fa di solito.
Sa che è ancora troppo presto, che
è ancora troppo piccolo, ma ha sempre avuto la nettissima
sensazione che lui lo riconosca quando gli si avvicina, che sappia che
è suo padre quello che si sporge su di lui ad accarezzargli
il nasino appena accennato, che è suo quel dito che gli
solletica dispettoso il palmo, prima che lo stringa forte nella sua
presa minuscola – sembra dire “ti ho preso, ora non
mi sfuggi più” – ed ogni volta gli
strappa un sorriso. Compiaciuto, orgoglioso: è suo
figlio.
Ma ora, forse, non ha voglia di giocare. Non
sembra nemmeno guardare direttamente lui, ma un punto fisso del
soffitto.
I suoi occhietti neri non sono lucidi come
sempre: sembrano piccole biglie appannate da uno strato di polvere.
Prende delicatamente in braccio suo figlio,
stando attento a non fargli male con la bacchetta che ancora stringe in
mano.
Lui non si agita, non piange. È come
tenere tra le mani una bambola, solo più morbida.
Appoggia la guancia contro la testolina ancora
calda e inspira quel profumo di pulito e di innocenza che da oggi in
poi assocerà sempre al suo piccolo Rigel.
Lo tiene stretto per tanto, tantissimo tempo.
Lo culla come ha sempre fatto ogni sera, per
farlo addormentare, e ogni notte, quando si risveglia piangendo
– capita spesso, è un neonato inquieto. Ma,
miracolosamente, ogni volta che lo prende in braccio e gli canta una
ninnananna in francese, sembra quietarsi di colpo, quasi fosse una
specie di formula magica. Forse si accorge che è una lingua
diversa da quella con cui gli parla di solito, più dolce,
più musicale – una carezza di velluto su una
ferita aperta. Lenisce ogni dolore, placa ogni sofferenza, induce a
chiudere gli occhi e sciogliere le membra in un languido sonno senza
ombre.
Lo fa anche adesso: gli canticchia in francese
all’orecchio, cullandolo avanti e indietro, come a farlo
addormentare.
Ma lui già dorme. Non avrà
più bisogno, da oggi in poi, della sua ninnananna.
Lo stringe con dolcezza, come se fosse fatto del
cristallo più puro. Ed è davvero la cosa
più pura che gli sia mai capitato di sfiorare con le dita.
Lo tiene al caldo col proprio corpo,
perché il suo si sta raffreddando rapidamente.
Anche la luce fuori dalla finestra muore
velocemente, spegnendosi in un crepuscolo azzurro violetto.
All’improvviso lo guarda, nei suoi
occhietti vuoti come una lampadina fulminata, e sente la gola chiudersi
all’improvviso. Non sopporta di vedere i suoi occhi
così spenti: gli tolgono anche l’ultima illusione
che sia ancora vivo – e lui vuole credere disperatamente che
lo sia.
Non è pronto, forse non lo
sarà mai, per quell’orrore.
Perciò gli abbassa lentamente le
palpebre, sottili e levigate come petali di rosa, sulle pupille cieche
– nasconde l’abisso perché,
se continuasse a guardarvi dentro, vi sprofonderebbe anche lui.
Ecco, ora che i suoi occhi sono chiusi sembra
proprio che stia dormendo.
Si aggrappa a quell’illusione come
all’ultima scintilla di ragione. Sa che, se lasciasse
penetrare dentro di sé la verità di
ciò che è successo, diverrebbe immediatamente
pazzo. Perché è folle quello che i suoi occhi
vedono e la sua mente tiene lontano – e disumano,
irragionevole, atroce. Inconcepibile.
Vorrebbe restare per sempre così, con
il suo bambino tra le braccia – cullarlo per sempre, non
abbandonarlo mai.
Non vuole che resti solo – eppure
è già lontano.
È lì dove lui non
può andare, lì dove non ha più bisogno
della sua vicinanza.
E c’è un’altra
cosa da fare, purtroppo – sente l’urgenza nascergli
da dentro e pungolarlo come una spina in qualche parte del suo cuore
spezzato.
Non può rimandare. Deve farlo.
A malincuore depone Rigel nella culla. Gli tiene
sollevata la nuca mentre gli sistema il cuscino sotto –
meglio che stia comodo se deve dormire per sempre.
Gli getta un ultimo sguardo – nei suoi
occhi lacerante tenerezza che non ha bisogno di parole; annichilita
adorazione che non conosce parole per congedarsi dalla cosa che ha
più cara al mondo. Semplicemente, deve lasciarlo andare, adesso, prima che
non sia più in grado di farlo.
Esce dalla stanza, chiudendosi la porta alle
spalle senza far rumore, come se ancora stesse dormendo e non volesse
disturbare la sua nanna – una di quelle abitudini che lo
accompagnerannoper sempre.
Ridiscende le scale – barcolla, deve
appoggiarsi al corrimano per non cadere.
Non riesce a reggersi in piedi; il mondo gli gira
improvvisamente intorno, stemperandosi in una tavolozza di colori
annacquati e forme sfocate.
Si passa una mano malferma sugli occhi
– sulle ciglia bagnate, sulle guance bagnate, sulle palpebre
che tremano come le ali di un uccellino ferito.
Non può cedere. Non ora.
Deve ancora fare una cosa, prima della fine.
Riprende a scendere le scale. Le mascelle
contratte, le labbra stirate sigillano dentro di sé
l’urlo di agonia che gli sale ad ondate dal petto.
Nessuno deve
sentirlo. Quel dolore è solo suo, appartiene a lui
– è il gemito di quella parte di sé che
è morta e che continua a morire ad ogni passo incerto, ad
ogni ansito strozzato, a ogni battito che gli rimbomba sordo contro le
tempie, come una campana a lutto.
Si passa una mano tra i capelli, automaticamente.
L’altra, se ne ricorda solo adesso, stringe la bacchetta con
tanta forza da far sbiancare le nocche.
Riattraversa il salone. Passa davanti alla lingua
di fuoco che si contorce sottovoce nel camino, apre la porta.
Non sente il freddo mentre discende il pendio
erboso che degrada dolcemente verso la scogliera sottostante, a picco
sull’oceano – in primavera, è uno
spettacolo meraviglioso di sole e acqua, e profumo di rose che emana
fragrante dalla terra calda.
Ora che è inverno inoltrato, una
pennellata di grigio ferro ricopre le onde increspate. Le creste di
schiuma interrompono l’uniformità mutevole del
mare che brontola piano, sotto la carezza ruvida del vento.
Granelli di sabbia si sollevano in una danza
torbida nell’aria – qualcuno gli entra negli occhi.
Non sa precisamente dove stia andando, i suoi
piedi si muovono per lui.
Il corpo ha temporaneamente preso il controllo,
mentre il suo cervello sembra staccato, tramortito, sedato.
Scende la scala intagliata nella roccia bianca
della scogliera.
In fondo si distende una lingua di fredda sabbia
grigia. Quando c’è alta marea sparisce,
inghiottita dall’oceano.
Affonda nella sabbia – il vento gli
spazza la faccia, spingendogli i capelli negli occhi e in bocca.
La vede: una figura nera – lei veste sempre di nero –
che si staglia immobile contro il grigio metallico del crepuscolo
invernale, ieratica e solenne come una statua di marmo dimenticata
sulla spiaggia da secoli.
Gli dà le spalle – i capelli
le ondeggiano intorno come un manto luttuoso.
Vede i suoi piedi, nudi e bianchi, quando si
avvicina.
Le si ferma di fianco – non la guarda.
Come lei, fissa lo sguardo
all’orizzonte, dove cielo e mare si uniscono in una linea
sottile, che sfuma tra il liquido e l’aria. Impalpabile,
inconsistente, inafferrabile – come le loro vite.
«Fa freddo», dice a voce
bassa lei, un sussurro sfuggito quasi per caso alle sue labbra
disidratate dal vento. «Fa sempre più
freddo.»
Le prendi la mano.
Lei te lo lascia fare: la abbandona inerte e
fiduciosa nella tua, come non ti ha mai permesso prima.
La stringi tra i tuoi palmi per darle calore, ma
anche le tue mani sono fredde.
All’improvviso su di esse cadono gocce
bollenti; alzi il capo per scrutare il cielo, ma non
c’è traccia di pioggia. Sono le lacrime che cadono
dai tuoi occhi, sulle vostre mani intrecciate come allora, quando vi
eravate appena sposati.
Quanto tempo è passato?
La sposeresti ancora, pur sapendo quello che
farà?
Rifaresti tutto di nuovo, pur sapendo come
andrà a finire?
Le daresti ancora tutto, pur sapendo che ti
toglierà tutto?
Non dici niente. Non la guardi in faccia. Tieni
gli occhi fissi sulle vostre dita pallide, affilate, congiunte.
La pelle del tuo viso ha perso
sensibilità. Avverti solo un lieve pizzico, lì
dove ti sferza il vento freddo, e un immenso dolore
lì dove il vento non arriva, al centro del petto, dove
c’è quella cosa maciullata e pulsante –
tutto ciò che rimane del tuo cuore.
Lasci vagare lo sguardo sul mare.
Le onde si gonfiano sempre più
infuriate intorno a voi. Dovreste andarvene da lì, prima che
l’impeto della marea vi travolga.
Cavalloni impazziti si frangono con frastuono
assordante sulla battigia.
Abbassi lo sguardo: ormai sono a livello delle
tue scarpe – lambiscono i piedi nudi di tua moglie, le dita
illividite dal freddo.
Torni a guardare l’orizzonte, niente
più che un filo tremolante teso tra il mondo al di sopra e
quello al di sotto del mare.
Torri di schiuma schizzano alte nel cielo. La
superficie cristallina ribolle come un calderone sul fuoco.
Senti le goccioline salate spruzzarti la faccia,
mescolarsi alle lacrime.
Basterebbe così poco, pensi, per
farla finita.
Basterebbe lasciarsi sommergere
dall’onda e aspettare che l’oceano faccia il suo
dovere.
Immagini l’acqua entrare nei tuoi
polmoni, spegnere l’incendio che ti arde da dentro.
Troveresti la pace, nel ventre
dell’oceano che tutto accoglie e mai giudica.
E poi immagini lei, librarsi senza peso tra le
onde – sirena terrificante e bellissima, i capelli neri che
si allargano come alghe spettrali intorno al viso liscio, bianco, senza
espressione.
Anche lei, come te, troverebbe pace? Riuscirebbe
il mare ad avere la meglio sul fuoco famelico che la consuma?
Basterebbe una piccola spinta,
pensi.
Sai che, in questo momento, lei non si opporrebbe
se volessi trascinarla in acqua.
Immagini di tenerle la testa sotto fino a non
sentirla più dibattersi; immagini il suo corpo sprofondare
lentamente negli abissi liquidi, trascinato in basso dal peso delle
vesti fradice che, come un bozzolo, saranno la sua bara e la sua tomba
per l’eternità.
La guarderesti sparire lentamente sotto la
superficie sfaccettata – e saresti libero.
Renderesti giustizia a tuo figlio.
(Che
ne hai fatto del nostro bambino? Cosa ti aveva fatto di male?)
Niente. E’ lei il Male.
Vorresti gridarle contro; vorresti prenderla per
le spalle e scuoterla fino a sentire l’anima sbatacchiare
dentro di lei.
Sai per certo che una volta ne possedeva una, di
anima, ma poi è andata rompendosi, un pezzo per volta, a
ogni omicidio, a ogni tortura, a ogni crimine commesso.
Ma in questo momento hai disperatamente bisogno
di credere che sia rimasta una scheggia, una sola, dentro di lei.
Solo questa consapevolezza potrebbe trattenerti
dall’ucciderla con le tue stessi mani, lei che ti ha portato
via la cosa a cui eri più legato al mondo.
Ma in fondo tu... tu l’hai sempre
saputo.
La verità è che
è molto più colpa tua che sua: non avresti dovuto
costringerla ad avere un figlio quando sapevi perfettamente che non lo
voleva, che non era portata per fare la madre, che era priva del
benché minimo istinto materno.
Avresti dovuto saperlo, avresti dovuto
prevederlo, avresti dovuto impedirlo.
Non dovevi lasciarlo solo con lei. Dovevi
proteggere tuo figlio. Così piccolo, così
indifeso... aveva bisogno di te – ma tu non c’eri.
Non c’eri mentre il cuscino premeva
contro la sua minuscola bocca, spalancata in un grido silenzioso.
Non c’eri a difenderlo dal mostro.
E’ un mostro, la donna
che ora si volta silenziosamente verso di te e ti guarda con occhi neri
privi di qualsiasi espressione.
La guardi anche tu — cerchi di
indovinare l’ombra della bestia agitarsi in fondo alle sue
pupille, ma non vedi niente, solo vuoto.
Il silenzio definitivo e terribile del nulla.
Come può il suo viso essere
così intatto? Come può non recare alcun segno
dell’orribile colpa commessa?
Solo tu, con gli occhi del padre cui è
stata strappata la propria carne, vedi il sangue sulle sue mani, sui
palmi lisci che premono contro i tuoi, sulle sue dita eteree come
quelle di un fantasma.
Forse siete entrambi dei fantasmi. Forse siete
morti anche voi, insieme al piccolo Rigel, e non ve ne siete accorti.
Se c’è veramente qualcuno
che merita di morire, siete voi. Non lui, che non aveva nessuna colpa.
Voi, che avete trasformato la vostra vita in un sentiero costellato di
infamie e nefandezze.
Voi sì che avreste dovuto morire.
Non eravate fatti per essere genitori. Non
meritavate la gioia di un figlio.
Avevate ricevuto un dono e l’avete
lasciato appassire come una rosa senz’acqua.
Siete dei mostri, degli animali. E ora pagate per
i vostri peccati.
Pensi che sarebbe così facile annegarti,
annegarla — ma questo non cancellerà le vostre
colpe.
Non purificherà il mondo dalla macchia
indelebile che vi avete lasciato. Non metterà a posto la tua
coscienza, corrotta per sempre.
Vorresti ucciderla. La vorresti morta.
Non hai mai desiderato niente prima con uguale
intensità – con tanta forza che ti sembra disoffocare.
Vorresti prenderla a schiaffi e ridurre il suo
viso – il suo bellissimo viso, che ti ha stregato dal primo
momento in cui l’hai intravisto – in un ammasso
sanguinolento, come è ora il tuo cuore.
Vorresti farle male – tu che ti sei
sempre affannato a prodigarle solo piacere.
Vuoi che senta dolore, perché
è solo dolore che
tu hai provato, vivendo con lei.
Vuoi che muoia, sì.
Lo desideri disperatamente – ferocemente.
Sai già che non la ucciderai.
No, perché tu sei colpevole quanto
lei, se non di più.
Tu eri quello sano, lucido fra voi due; spettava
a te fermare la catastrofe prima che accadesse.
Ma tu hai fatto finta di non vedere; ti sei
illuso che lei finalmente fosse cambiata, fosse diventata la donna che
tu volevi.
La madre che speravi per tuo figlio.
Non la ucciderai anche perché tu sei
già morto, dentro.
Una parte di te è volata via da tuo
figlio e ora lo tiene in braccio nell’aldilà
quando ha freddo, e continua a sussurrargli ninnananne
all’orecchio quando ha paura.
Quando è nato gli hai fatto una
promessa: gli hai giurato di prenderti cura di lui, sempre e comunque,
e di non abbandonarlo mai.
Stai solo mantenendo la tua promessa.
Sai che un giorno lo raggiungerai e starete per
sempre insieme.
Ma quando verrà il suo momento, lei, invece, non ci
sarà.
Non ci sarà posto per lei tra voi.
Almeno lì, dopo la morte, non dovrai
temere che ti porti via anche l’ultima cosa che ti
è rimasta. Almeno lì, sarete al sicuro dalla sua
pazzia.
Perciò le stringi più forte
la mano, le passi l’altra intorno alla vita e volti le spalle
al mare, trascinandola dolcemente via dalla risacca sempre
più impetuosa.
Lei te lo lascia fare – si abbandona
contro di te con quella fiducia assoluta che non ti ha mai mostrato
prima. Come se sapesse per certo che tu
non potresti mai farle del male.
E, vergognandoti maledicendoti odiandoti
disperandoti, sai dentro di te che ha ragione:nonostante tutto,
non le farai mai del male.
«Vieni tesoro, torniamo
dentro.»
***
All’improvviso spalanchi gli occhi e ti ritrovi seduto sul
tuo letto, scosso da brividi talmente intensi che ti assale la nausea.
Ti guardi intorno con occhi sbarrati, incredulo
che si sia trattato solo di un sogno.
Sembrava così reale, vero,
Rodolphus?
Ti volti immediatamente verso il suo lato del
letto: le lenzuola sono intatte - lei non c’è.
Ancora una volta, ha preferito stare con il suo
Signore piuttosto che dividere il letto con te.
Ma stanotte non riesci a dispiacertene.
Non riesce ad addolorarti la consapevolezza che
lei non ti ami.
Non riesci a desiderare di essere una vera
famiglia, con lei.
Stanotte sei contento che tu e Bella non abbiate
avuto figli.
Fine
|