Rimembranze
- Il volto di un angelo perduto -
Questo racconto nasce da una costola di
“Carlisle. L’anima di un vampiro.”
Si colloca nel periodo successivo in cui il
nostro dottore lascia i Volturi, in un anno non precisato d’inizio ‘800. Credo
che possiate leggerlo anche senza aver seguito il racconto originario da cui
parte.
Buona lettura.
*******
Un altro giorno di questa eternità che passa uguale agli
altri.
Guardo oltre il vetro della finestra che si apre sulla
parete di questa stanza vuota e colgo un brandello di cielo azzurro.
Penso che poteva essere così, il colore freddo dei suoi
occhi, prima…
Prima che diventassero caldi come ambra dorata.
I suoi occhi… sono ancora qui, in questa stanza.
Sono ancora qui, posati su di me. Non sono mai andati
via.
Detesto stare qui dentro, dove il mio sguardo si arresta
esausto contro le pareti, indugia sui tendaggi scuri a fissarne le pieghe
scomposte; sto qui, sdraiata ad aspettare che se ne vada il sole, mentre vengo
assalita da ricordi troppo dolci, che per me, hanno un gusto vago e sconosciuto
di felicità. In giorni come questi, mi sento più vulnerabile, benché io sia
fatta di una sostanza refrattaria a qualsiasi incrinatura; sono diamante che
non si scheggia.
Vorrei che piovesse, o che il cielo fosse grigio e
plumbeo come quel giorno ormai lontano, che ci incontrammo per le vie antiche e
sonnolente di Volterra, questo borgo all’apparenza così accogliente, che nelle
viscere della terra, sotto i tombini di scolo nasconde demoni immortali e una
serie infinita di orrori.
L’orrore mi sorprese nei suoi occhi quel primo giorno…
C’è troppo sole qui; non ho mai amato l’astro arancione
che scalda questa terra feconda di vita, mistero, sangue e anime, generosa di
storia e di nobile arte.
Scopro per l’ennesima volta, quanto può essere triste in
una giornata di sole, restare al chiuso di questo palazzo, nelle sue stanze
segrete, eleganti, fredde e piene di tesori, quadri e arazzi preziosi che Aro
ha accumulato attraverso i secoli. Il signore e padrone oscuro di questo luogo,
si circonda della luce della bellezza perché forse i vampiri non possono
aspirare né raggiungere la luce più sublime.
Non mi era mai pesato in passato, non avevo mai sentito
la mancanza della luce come ora.
Forse, perché essa non aveva mai lambito i margini della
mia anima dannata.
Ero avvolta dalle tenebre, lo sapevo. Vivevo in esse.
Ero come un uccello, che nato e cresciuto in gabbia, non
desidera la libertà, finché non la assapora per davvero, almeno una volta;
allora, scopre che il gusto è troppo dolce, il profumo troppo buono perché
possa scordarlo, e ne vorrebbe di nuovo.
Sono ancora immersa nelle tenebre, ne faccio parte perché
sono fatta della stessa materia; affondo nel buio dell’abisso, ma prima non lo
sentivo scivolarmi addosso come pesante liquido nero.
Prima c’era solo profonda oscurità in cui galleggiavo
sospesa. Prima c’era solo il silenzio di chi non ha anima, né conosce o prova
sentimento. Prima c’era solo la notte senza mai il giorno con la sua luce che
feriva lo sguardo.
Prima uccidevo senza sforzo, senza il peso del rimorso.
Sappiamo che esistono le stelle, ma non arriviamo mai a
toccarle, non percepiamo il loro calore.
Restano distanti e irraggiungibili; sono puntini luminosi
nel cosmo, simili a divinità astratte troppo lontane, di cui non possiamo
sapere nulla. Poi, per un capriccio del fato, come una cometa, una di queste
stelle silenti si stacca dal nero della notte, cade sulla terra e la sua scia
gelida, ti sfiora e brucia la tua vita, passa attraverso strati di pelle dura che
tutto assorbe, arrivando al centro del tuo essere, lasciandoti un’ impronta sul
cuore che pensavi morto. E lì, resta per sempre.
Ho sempre odiato il sole; ora, se possibile, lo odio
ancora di più.
Ma c’è stato un momento, un luogo e un tempo in cui ho
amato il calore che emana questa stella fonte di vita.
È stato quando lui mi fece scoprire quanto poteva essere
bello vivere sotto la sua luce, goderne come facevano gli esseri umani,
sentirne i raggi caldi sulla nostra pelle troppo fredda. Lo amavo se ero con
lui, lo amavo quando faceva brillare la nostra pelle nuda in un campo
punteggiato di rossi papaveri, dove noi andavamo a fare l’amore.
Perché quello era amore… almeno per me… e forse, anche
per lui…
Come un seme non può germogliare in una terra arida,
l’amore è un sentimento che non potrebbe attecchire in esseri come noi;
creature bellissime quanto dannate, siamo corpi freddi e vuoti, dominati quasi
unicamente dalla sete e dalla lussuria. Eppure, quello era amore.
E lo sapevo, perché era qualcosa che non avevo mai
avvertito prima, come una scossa che faceva tremare il cuore, che si propagava
nel corpo con forza inaudita, fino a invadere i più remoti pensieri.
Lo ricordo ancora quel giorno incredibile; lontano da
palazzo, mi portò nella vasta campagna toscana, tra le spighe di un campo di
grano dorato quanto i suoi occhi. Fu strano sentirsi leggeri, con l’illusione
di essere innocenti, rincorrersi in quel campo felici come ragazzi che
scoprono la gioia della vita.
Dare spettacolo di noi stessi, così…
Sembrava troppo eccitante e pericoloso, perché eravamo
totalmente esposti allo sguardo indiscreto di chiunque si fosse trovato a
passare di lì, umani o vampiri.
Spogliati Heidi, mi disse. E io avevo timore di
farlo.
- Sei un vampiro pazzo.
- No. Spogliati e fai l’amore con me, qui, in mezzo a
questo mare di papaveri, sotto questo cielo senza nuvole, in questa luce pura e
cristallina, che fa brillare come diamante le nostre pelli.
- Se Aro lo venisse a sapere…
- Non aver paura Heidi, non aver paura di sentire la
vita. Anche noi possiamo sentirla scorrere… non solo attraverso il sangue… non
solo dando la morte…
Forse lo era davvero, forse era solo pazzo d’amore e di
desiderio, lo stesso che sentivo io.
Forse il suo era solo desiderio di vita.
Mai avevo osato tanto. Mai mi ero sentita così: investita
dalla luce.
Trasformata dall’amore.
Era come ritrovare la propria anima senza sapere di
averla smarrita.
Lui credeva che anch’io ne avessi una; non lo credevo e
pensarlo mi sembrava blasfemo.
Non mi spiegavo come fosse possibile. Eppure era vero.
Com’è vero che adesso soffoco tra queste mura consumate
dal tempo e dalle mie lacrime invisibili, in questa stanza che ha visto i
nostri amplessi appassionati, custodito i nostri sospiri, che ora accoglie solo
il silenzio di un cuore che non batte più e la tristezza di una vita rimasta
senza luce.
E io sono ripiombata nel buio; ora lo sento tutto, il
peso.
Adesso non è più come prima.
Mi ha abbandonata anche l’indifferenza.
Adesso guardo le mie ignare prede, le osservo subire il
mio fascino letale e vedo che sono uomini. Spio la luce dei loro occhi, una
fiammella che danza eccitata e mi accorgo del momento preciso in cui si spegne,
rapita dal morso della morte. Presto ci saranno altre vite da andare a
prendere, ma non oggi; questa giornata è troppo limpida e tersa.
Tornerà un altro giorno grigio come metallo, a sporcare
il cielo di Volterra, e io dovrò uscire da questa stanza, fredda quanto lo sono
io, per cercare nuove vittime da sacrificare sull’altare della sete dei
Volturi.
Io, sacerdotessa di un rito terrificante di morte, che
celebravo tranquillamente senza nessuna esitazione o senso di colpa, finché non
ho assistito alla tragedia che compivo attraverso i suoi occhi pieni di
compassione, che mi guardavano allontanarmi dalla nostra alcova, mi
supplicavano smarriti di restare, mentre la sua mano tesa sul lenzuolo cercava
di trattenermi. Cercava di salvarmi e io ero già persa, senza rimedio.
- Non andare Heidi, ti prego.
Non potevo ascoltarlo. Non potevo essere altro da ciò che
ero e che sono. Pensavo che avesse torto.
E tornare ogni volta, dopo il compimento della mia opera
nefasta, era una ferita in più per lui, e una nuova amarezza per me. Mi sentivo
come non mi ero mai sentita, come chi tradisce l’amato, lo umilia e lo sfianca;
sa che sta sbagliando, ma, se pure afflitto dal rimorso, persevera nel suo
errore, troppo debole per resistere o rinunciare.
Lui voleva cambiarmi e forse, ci sarebbe riuscito. Lui
voleva cambiare tutti noi.
Ma non si può trasformare i demoni in angeli.
Il mio angelo buono è passato una volta, e una volta
soltanto, io ho amato davvero.
Non potevo trattenerlo senza distruggerlo e l’ho lasciato
volare via per salvarlo.
******
Vago lenta attraverso le strade di Volterra; non ho
ancora scelto le prede che fatalmente, mi seguiranno docili e inconsapevoli,
nel loro ultimo viaggio. La caccia non è altro che un gioco sottile, in cui
sono maestra: sono il predatore che nessuno vede, che si camuffa abilmente
nell’ambiente circostante. E quando mi vedono è troppo tardi.
Il vento sfiora appena il mio volto celato da una veletta
nera che nasconde il mio sguardo rosso vermiglio.
Sono una cortigiana dal fascino ambiguo; pelle candida di
velluto, nascosta in preziosa seta ricamata, guanti neri nascondono le mie
braccia bianche e lisce, e i miei capelli color mogano sono acconciati con
grazia in una crocchia. Un parasole mi protegge da un raggio impertinente che
potrebbe oltrepassare la coltre delle nubi.
Le mie scarpine sul selciato non fanno rumore mentre mi
muovo con la grazia di un cigno che scivola sull’acqua. Passo accanto alla
gente che quasi non avverte la mia presenza, se io non voglio farmi notare. Mi
muovo come un’ ombra silenziosa.
Osservo la vita umana che mi passa accanto. Ne afferro i
rumori, i profumi; il vociare di bambini che corrono, carri e carrozze che
passano, in lontananza il suono degli zoccoli di cavalli portati al trotto,
uomini e donne che camminano per strada, che parlano, ridono. Lui mi diceva che
era il rumore della vita.
Percorro a passo leggero le stradine strette.
Accanto alle case, dalle finestre lasciate aperte
arrivano profumi d’ogni genere; di latte e formaggio, di pietanze cucinate che
feriscono i miei sensi troppo acuti, e dalle botteghe degli artigiani arriva
l’odore di pelli conciate, di inchiostri, di tinture per tessuti, odore di
fatica e di sudore.
Odore di sangue, di animali macellati. Eccitazione. Odore
di pericolo.
Non ho ancora posato gli occhi su nessuno.
Non ho ancora scelto chi tra le mie vittime mi farà
sentire in colpa.
Incontro un curato con la Bibbia in mano, e il mio
sguardo si sofferma su di lui per un istante, sufficiente a farlo vacillare; il
santo bigotto in abito talare, suo malgrado, resta affascinato, irretito, sento
il suo sconcerto di fronte alla mia inquietante bellezza. Probabilmente
dall’abbigliamento, mi giudica una donna di malaffare e non sospetta quanto sia
peggiore la mia natura; sono ciò che lui combatte, male reale che pure non può
conoscere.
Sorrido.
Penso a come mi piacerebbe svelarmi davvero, mostrargli
il demonio che sono, ma non posso.
Una legge assoluta stabilisce che nessun abitante di
Volterra debba essere portato dentro il palazzo.
Arrivo davanti alla facciata di una chiesa di epoca
romanica, severa ed essenziale nelle linee architettoniche.
Un gruppo sparuto di uomini e donne in abiti eleganti vi
sostano davanti; stranieri in visita, gente che vuole ammirare l’interno di
Santa Cecilia. * Gentiluomini in cappello a cilindro e bastone, avvolti nelle
loro marsine scure, accompagnati da raffinate signore alla moda. Mi avvicino a
loro; silenziosamente, col passo felpato di un felino, arrivo alle loro spalle.
La mia voce è fatta per sedurre: con essa attiro le mie vittime.
“Signori, dopo la chiesa, vi piacerebbe visitare la collezione
privata di arazzi di una nobile e antica famiglia di Volterra? Sono di fattura
squisita, di altissimo pregio. Non ve ne pentirete.” Incanto per le loro
orecchie.
Si voltano tutti, uomini e donne, per vedere a chi
appartenga una voce tanto soave e musicale.
Il gruppo di vittime designate si apre come un sipario a
rivelare un volto, e lo sconcerto non è più solo il loro.
Non credevo che un’ anima morta potesse sussultare,
catturata da un’ immagine, un fantasma prepotente che torna a galla dal
passato. Un ragazzo di forse vent’anni, troppo avvenente anche per essere un
semplice umano, mi sconvolge per le fattezze angeliche di un viso in cui
spiccano due occhi celesti, trasparenti come acqua di sorgente e capelli biondi
che paiono morbidi come miele. Sento il suo profumo così particolare.
I suoi occhi… dovevano essere così.
Dimentico che sono io il predatore.
E divento preda. Del vento impetuoso del ricordo che
spalanca le porte della mente, di un dolore struggente e sconosciuto che fa
tremare l’oscurità che ho dentro; di una nostalgia tenera che soffia sul cuore
e pare rianimarlo; di due occhi troppo limpidi che mi fissano curiosi e timidi,
mentre la gelosia per la giovane donna al suo fianco, scatena la rabbia più
sorda e istantanea nel mio petto.
La ucciderei… solo perché è vicina a lui.
“Non possiamo che accogliere l’invito di una signora così
bella e affascinante.”
Non è la sua voce, ma quella di uno dei gentiluomini;
quasi non presto attenzione alle sue parole, perché il mio sguardo non riesce a
staccarsi dall’angelo che ho di fronte. Li accompagno dentro la chiesa, dove
vorrei separare il mio angelo perduto dagli altri. Ma soprattutto da lei, che
resta attaccata al suo braccio, che sorride mesta alle sue lodi e risponde col
rossore sulle gote, mentre una strana luce complice, scende dalle vetrate a
illuminare la navata della chiesa e scalda l’atmosfera che li circonda. Io li
osservo mentre camminano immersi nella luce, ma è lui che mi affascina più di
tutto; rubo ogni dettaglio del suo volto, ammiro i lineamenti perfetti, le
labbra, il naso diritto, guardo la luce giocare con le onde dei suoi capelli
che si accendono di riflessi dorati.
Il gruppo si è sparpagliato e la giovane coppia è davanti
a una piccola cappella, ferma nella contemplazione di una pala d’altare che
raffigura il martirio di una santa cui tagliano la lingua, ed è in quel momento
che l’angelo si volta nella mia direzione.
Una breve distanza mi separa dall’oggetto delle mie
brame.
Fisso il mio sguardo come un magnete su di lui e i nostri
occhi si allacciano; ho lanciato l’esca che lo catturerà senza scampo. Mi basta
guardarlo con sufficiente insistenza, per esercitare la mia malia. Il ferro non
può resistere ad una calamita. So che è solo questione di pochi minuti: il mio
angelo perduto lascerà il braccio di quella insignificante mortale, così
scialba ai miei occhi, così indegna di tanta avvenenza. Infatti, sorrido
compiaciuta, quando lo vedo abbandonare la fanciulla per raggiungermi. I miei
occhi l’hanno catturato e gli lancio un ultimo sguardo per invitarlo a
seguirmi: non mi servono parole per rapirlo, mentre mi spingo in direzione
della navata opposta.
Mi nascondo dietro un grosso pilastro prima di puntare
decisamente verso l’uscita. Sento i suoi passi che quasi mi rincorrono. Lascio
che mi raggiungano solo all’esterno, fuori dalla chiesa.
Mi si avvicina, non potrebbe fare altro. È già mio.
“Posso sapere il vostro nome, bella signora?”
Sento la sua voce così vicina al mio orecchio e sono
sorpresa: non è come mi sarei aspettata. In un aspetto tanto fine e delicato,
pensavo potesse accordarsi una voce dal timbro acuto, quasi fastidioso, ma la
sua è profonda, calda, molto maschile.
“Haidi… Mi chiamo Haidi. Il tuo nome, straniero?” chiedo,
e so che la mia voce può ammaliarlo solo di più.
“Carlos.” E non aggiunge altro, deglutisce quasi incapace
di parlare.
Carlos…
Carlisle…
Basta il suono di un nome a evocare un altro volto,
legato ad altrettanti ricordi.
Continuo a guardare Carlos, a contemplare il suo
magnifico aspetto e ugualmente avverto il profumo esaltante del suo sangue
giovane e fresco, nettare troppo invitante che fa bruciare di tentazione
malsana la mia gola bagnata di veleno. La passione che domina il demonio che
sono è uguale da secoli, mai sopita e soddisfatta, mai sazia di vita; immagino
di dargli il mio bacio mortale mentre lo stringo furiosamente tra le mie
braccia, come un’amante gelosa e avida; non lo concederei ad altri, neppure ad
Aro in persona. E per fortuna, giunge di nuovo la sua voce a distrarmi dai miei
propositi.
“Dove sono custoditi questi arazzi di cui avete parlato?
Vi sembrerò ardito e sfacciato, ma vorrei vederli, solo in vostra compagnia.”
Per stare con me, ha dimenticato la sua compagna
abbandonata nella quiete in penombra di una navata. Non mi sorprende: conosco
il mio potere, irretisce le menti umane, che plagiate, fanno ciò che voglio. Ma
per una strana perversione, in questo caso, non mi accontento. Non risponderò
alla sua domanda, ma voglio sapere se ha soffocato altri sentimenti per seguire
il mio richiamo.
“Chi è la giovane donna cui vi accompagnavate poc’anzi, e
che avete lasciato dentro una chiesa, per seguire una sconosciuta?”
“È la mia promessa sposa, signora. Mi sento indegno di
lei, ma sono qui a supplicarvi, calpestando il mio orgoglio come mai avrei
pensato di fare: mi concedete un’ ora sola con voi? Non so come sia che avete
stregato il mio cuore. E vi giuro: non sono solito a simili comportamenti.”
È una supplica accorata e impetuosa come il turbamento
che la suggerisce.
Turbamento che dovrebbe essermi indifferente, se non
fosse per i suoi occhi freddi, troppo accesi di emozione dolorosa. Si sente in
colpa il mio angelo, e questa è forse la cosa che mi sorprende di più. Avverto
qualcosa dentro di me che non pensavo di sentire di nuovo, una sensazione
forte, un moto convulso, un tremito che corre sulla mia pelle fredda, il
fremito di un’ala ferita che sbatte senza poter volare. Lo riconosco
immediatamente: era quello che mi faceva sentire lui.
Carlos non può vedere l’orrore che dilata le mie iridi,
lo spasimo che mi prende violento, attraversarmi come un fulmine che
incenerisce un albero.
Un secondo lungo come la mia eternità.
Forse è la follia che mi fa parlare.
“No, sbagliate: è lei a essere indegna di voi. – Proseguo
con decisione, e forse, un pizzico di malizia. - A pochi isolati da qui, c’è una piccola piazza, poco frequentata.
Aspettatemi lì; vi raggiungerò tra poco meno di un’ ora. Non preoccupatevi per
i vostri amici, né per la vostra fidanzata. Mi occuperò di loro e giustificherò
in maniera adeguata la vostra improvvisa assenza.”
Carlos mi scruta per un istante, forse vorrebbe dire
qualcosa, ma si accorge che non può; si allontana velocemente nella direzione
da me suggerita, e io mi appresto a tornare dentro Santa Cecilia. Il gruppo
elegante di uomini e donne si attarda ancora tra le navate, ignari di cosa li
aspetta; mi chiedono del giovane che era con loro, la fanciulla sembra
preoccupata, ma bastano poche parole dette con voce suadente a rassicurarla. La
osservo; è fragile e delicata, la pelle trasparente venata d’azzurro, il sangue
le colora debolmente le guance.
Una vergine, di quelle che Aro preferisce. Non solo per
il sangue.
Un’ora è il tempo che ci vuole ad accompagnare le mie
ignare vittime al Palazzo dei Priori, fare ciò che va fatto e tornare dal mio
angelo. E fremerò nell’attesa.
E gioirò se potrò dissanguare la sua mortale e fragile
promessa sposa.
Continua…
* Il nome della chiesa è di pura invenzione.