GLI STRACCI NEL BOSCO
Nel bosco qualcuno aveva visto
qualcosa: stracci bianchi e
neri alla rinfusa. Stefanino Betti era stato ritrovato prima che, dalla
città,
mandassero le unità cinofile e quel mucchietto di stracci
era lui, maledizione,
si disse il maresciallo Rinaldi. Ci dormiva perfino, con la mitica maglia numero
dieci del suo idolo,
Del Piero, povera creatura, e il giorno che era sparito portava proprio
quella,
gli aveva sussurrato tra le lacrime la madre. Chissà che
cosa gli avevano
fatto. Stefanino era sparito la mattina, andando a scuola. La mamma si
fidava a
mandarlo da solo, malgrado tutto,la scuola stava a due passi, non
c’era neppure
bisogno di attraversare la strada…E qualcuno se
l’era portato via.. Era certo
che non lo avevano rapito per estorcere denaro alla famiglia. Giovanni
Betti,
il padre, tutte le mattine si scoppiava trenta chilometri con la sua
Panda
scassata per raggiungere la fabbrica di laterizi dove lavorava da
operaio
semplice, la moglie arrotondava i guadagni con qualche lavoretto di
cucito, i
figli grandi studiavano ancora. Una famiglia come tante, gente
semplice. E
neppure era plausibile quello che una vecchietta aveva detto per
consolare i
genitori e se stessa: lo avranno portato via per venderlo a gente ricca
senza
figli. Sul giornale ho letto che lo fanno. Ma i ricchi senza figli
sognano
bambini biondi, che rassomigliano a quelli delle Principesse di Monaco
e
Stefanino era un ragazzo down,una volta li chiamavano mongoloidi, si
disse il maresciallo
da sé solo salendo sulla camionetta. Aveva otto anni. Come
suo figlio. Ma
Roberto era bravo e sveglio, ringraziando Iddio, invece Stefanino aveva
bisogno
di una maestra tutta per sé, una docente di sostegno, che
l’aiutasse a
cavarsela. Era grasso, affettuoso e articolava male le parole. La
domenica
serviva Messa e aveva due grandi passioni: la Juventus
e i cani. Gli
piacevano tutti. “Quand’è che glielo
prende un cagnetto a Stefanino?” Ma il
padre non voleva sentirne. “Sono sporchi e portano
malattie” diceva. Avrà tempo
di pentirsi di non averlo reso felice, povero piccino che sorrideva
sempre e si
fidava di tutti.
“C’è
un mucchio di stracci bianchi e neri, nel bosco”:
L’anonimo interlocutore telefonico non aveva detto di
più, ma Rinaldi lo
sapeva: quegli straccetti erano un bimbo violentato e ammazzato,
l’ennesima
vittima innocente dell’ennesima belva a due zampe,
impossibile che si fosse
perso, impossibile che lo avessero rapito per estorsione o per venderlo
ad una
coppia di ricchi senza figli. Impossibile che il fattaccio potesse
essere capitato
in quel paesetto tranquillo dove al massimo dovevi dirimere qualche
lite tra
vicini o ridurre a miti consigli il solito avventore che, la sera del
sabato,
alzava troppo il gomito al Bar dello Sport, invece…
“Chiama il dottor
d’Andrea e digli di raggiungerci”, fece
allungando il suo cellulare al carabiniere Calò. Stefanino
Betti era adagiato
su un letto di aghi di pino e dormiva. I calzoncini del completo da
calciatore
gli erano stati strappati di dosso e il medico gli aveva riscontrato
segni di
lividi intorno al collo, come se avessero tentato di strozzarlo. Ma era
vivo.
In discrete condizioni. Neppure troppo spaventato.
“Madonnina santa, ti
ringrazio…” biascicò sottovoce
Calò con
il suo marcato accento calabrese.
“E’ capitato
qualcosa. L’imprevisto che lo ha fatto
desistere, scappare…Ma potrebbe colpire ancora.”
Stefanino si stropicciò
gli occhi, si mise a sedere. Era
tranquillo, malgrado la brutta avventura, come se ci fosse stato
qualcuno su
cui contare a proteggerlo, anche prima dell’arrivo dei
carabinieri: un angelo
custode che non avrebbe permesso al mostro di fargli del male, di
avvicinarsi
ancora, ne avesse avuto il
coraggio.”Là”. Con la manina paffuta
indicava
l’intrico dei tronchi. “Potremmo non trovarlo. O
trovarlo quando sarà tardi. Stefanino
ha avuto fortuna, ma un altro, chissà…”
“Là”.
Un ammasso di muscoli
piantato su solide zampe. Pelo nero, corto, imbrattato qua
e là di
fango. Sessanta chili, a occhio e croce, un vitello.Una facciona
curiosamente
umana, illuminata da piccoli occhi nocciola. Un cane
perso, un cane di nessuno, un cane dei tanti
che la gente abbandona quando è tempo di villeggiatura. O
che certi mascalzoni
rubano per metterli
a combattere. Un bel
cane di razza, pensò il dottor d’Andrea. Un
rottweiller. Come nome, gli sarebbe
stato bene Argo. Hanno un brutto carattere, disse Calò
mettendo mano alla
pistola d’ordinanza.
“No. Ha salvato il bambino.
E ci darà una mano a trovare il
suo rapitore. Non per farmi gli affari suoi e rubarle il mestiere,
maresciallo,
ma mi si presentasse in ambulatorio qualcuno
che si porta addosso i segni freschi di un morso,
beh…In quanto a te,
giovanotto…Da bravo, vieni
qui…Argo…”
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