Figlio

di Mendori
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«Sciocco» disse Loki, senza gioia.
Con le dita atteggiate ai denti di un pettine, tracciava linee lungo il fianco scuro della bestia.
Sotto il manto più esterno, ispido e lercio di terra, il pelo formava uno strato lanuginoso, soffice.
Affondandovi una mano e guardandola scomparire fino al polso, gli tornò in mente il moncherino di Tyr, e Loki raccontò:
«Molte infamie seminai poco fa, e come s'infuriò Tyr quando gli rinfacciai la sua mutilazione. Invero, si fece più rosso in viso della gola d'un cuculo».
Il corpo dell'animale brontolò di piacere, la coda battè pesantemente nella polvere con soddisfazione. Anche Loki sorrise maligno, appiattendo la mano contro la pelle del lupo.
Il respiro regolare sotto il suo palmo gli ricordò i polmoni piccoli e testardi d'un cucciolo che poteva essere sollevato con una sola mano.
Disse: «Quando la tua impronta fu grande come la mia ti ordinai di non crescere più, ma come si può negare il cibo a un figlio affamato? Mi posavi una zampa sul petto e spingevi fino a imprimere il segno delle tue unghie sulla mia pelle: cercavi di schiacciarmi il cuore e ci riuscivi».
L'animale non diede cenno d'aver sentito, e il dio lo chiamò per nome: «Fenrir».
Allora ebbe un moto d'impazienza, scalciò come i cani vecchi che non riescono più ad alzarsi, e tuttavia cercano di rispondere alla voce del padrone.
Un nastro sottile, il vezzo d'una ragazzina, lo imbrigliava saldamente a terra, disegnando solchi lungo il suo corpo come fa un capello stretto intorno a un dito.
Loki provò pena.
«Sei un ingenuo e un presuntuoso,» lo rimproverò «eppure anch'io che parlo sono una spina di pesce che insedia la gola, e mai vorrei essere qualcos'altro. So che la mia lingua un giorno sarà la mia condanna, ciononostante continuo ad affilarla e a lanciar fendenti: questa è la mia sorte e non m'importa».
«Ma per i miei figli,» ammise a mezza voce, riprendendo ad accarezzarlo «ne avrei voluta una diversa».












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