Questa
psicosi mi è venuta fuori così. Non vuol dire
nulla, un ipotetico momento
post-Avengers senza grandi pretese.
Il
titolo sta a significare letteralmente “non nel sangue, ma
nel legame”. Davanti,
originariamente, ci sarebbe la parola “fratelli”
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Una
culla, una culla di legno, cento anni e una culla di legno, era
piccolo, lui,
non arrivava a vederci dentro e sua madre lo doveva sollevare, a
malapena si
reggeva sulle gambe da solo e traballava ma doveva guardare, doveva
vederlo,
era incredibile, era proprio una cosa che non c’era niente da
pensare, era un
bambino e quindi non se lo ricorda bene, come si sentiva, soltanto
ricorda che
lo doveva guardare con tutta la meraviglia che ci può essere
negli occhi e nel
cuore di un bimbo, tutta lì, e quelle due parole sulle
labbra e nella gola, due
paroline piccole, “mio fratello”, soltanto due, e
un corpo così piccino e
manine strette a pugno e pochi capelli scuri e occhi che si aprivano
con
curiosità, quasi stupiti – verdi, verdissimi
– e non si poteva quasi respirare,
a guardarlo, “mio fratello”, nemmeno si poteva
capire bene cosa volesse dire ma
era una cosa enorme, una cosa come nessun’altra, avere un
fratello, lo sapeva
anche se era così piccolo, e sua madre sorrideva sempre e
sorrideva tanto e il
Re era felice, questo se lo ricorda, e sorrideva anche il fratellino
–
sorrideva moltissimo, quand’era proprio piccolo, quando
ancora non parlava e
non camminava e non leggeva, sorrideva quasi senza smettere mai e Thor
vorrebbe
sapere, veramente, vorrebbe sapere se anche quella fosse una magia e se
ci sia
un modo, uno in tutto l’universo per farla rivivere e
rivedere quel sorriso che
non sa perché se lo ricordi così bene, un sorriso
totale, assoluto, e se quel
modo ci fosse lui lo vorrebbe sapere per trovarlo, anche a costo di
metterci
mille anni e altri mille, lo troverebbe per riavere indietro quel
sorriso che
gli manca col dolore di cento pugnalate.
Una
culla di legno, e dentro la culla, un universo
intero.
Not
in blood but in bond
“Fammi
entrare.”
La
guardia non parla, ma lo osserva con incertezza per qualche secondo
prima di
farsi da parte all’incresparsi rabbioso della sua fronte. Ci
sono chiavistelli
e serrature che scattano e prima che si spalanchi la porta massiccia e
pesante
ci vanno almeno due minuti, due minuti e tutta quella magia per tenere
rinchiuso il prigioniero che Odin non ha ancora voluto vedere.
Risponderà
alla giustizia di Asgard, è stato deciso, una giustizia che
non è mai di mano
leggera. C’è una parte di Thor che si appella alla
clemenza del Re, e l’altra
che vorrebbe appigliarsi ad un cuore di padre ma non osa –
c’è un solo peso e
una sola misura per giudicare un traditore e un assassino, anche
quand’è un
principe, un figlio, un fratello.
Un
fratello seduto contro il muro, in un angolo, nella penombra. Ha la
schiena
dritta e la testa alta anche mentre è immobile e incatenato,
anche con la bocca
sigillata, e Thor sa senza bisogno di averlo visto che non si
è raddrizzato nel
sentire l’uscio che si spalancava, ma che è
rimasto lì seduto così per tutto il
tempo, a spalle larghe di fronte all’universo. Lo sa.
È sempre stato così,
Loki, una volta ne era molto fiero: il suo fratello minore, che non si
piegava
di fronte a niente e nessuno – e ne rideva, e lo faceva
apposta a provocarlo e
umiliarlo per gioco, per sghignazzare del modo in cui le sue labbra si
assottigliavano e la testa scattava verso l’alto, una
scintilla di rabbia negli
occhi prima che la compostezza ne facesse due specchi piani e immobili,
ogni
ferita nascosta, e ne rideva, ma era un gioco, era solo un gioco,
scherzi
stupidi, i bambini sono crudeli e i ragazzi incoscienti e Thor sa
perfettamente
che non significavano nulla, quei dispetti, perché lo amava,
lo amava nel modo
infinito non solo di chi è nato dallo stesso sangue ma di
chi si sente fatto della stessa
carne e
dello stesso spirito, e di tutte le volte in cui ha approfittato della
sua
condizione di fratello maggiore e della sua superiorità
fisica per avere la
meglio e mettere da parte suo fratello, Thor non ne ricorda una, una
soltanto
in cui stesse realmente pensando che Loki gli fosse inferiore,
perché era
strano ed era troppo rigido e incerto ma era il suo fratellino e lui
avrebbe
cavato gli occhi e la lingua con le unghie a chiunque gli avesse torto
un solo
capello, a chiunque avesse osato l’ardire di pronunciare una
sola parola contro
di lui.
È
pallido, ora, e sottile. Scavato in viso, gli occhi infossati, mani che
sembrano sole ossa, è consunto e sfinito ma ha ancora la
testa alta. Thor lo
sa, che l’abbasserebbe solo davanti a un boia, e solo se lo
costringessero a
forza.
“Dovresti
dormire.”
La
prima cosa che gli viene da dire è la più
sciocca, ma la più sentita. Forse dovrebbe
continuare la frase, una frase che suonerebbe come “dovresti
dormire, fratello,
perché sei troppo debole, cadaverico, e mi si ghiaccia il
cuore a guardarti,
tanto che nemmeno nella tua vera forma potresti congelarlo
altrettanto”; ma non
lo dice, si ferma a quelle due parole che rimbombano tra i muri spessi
e scuri.
Vorrebbe aggiungere qualcosa, qualcosa di importante e significativo
che possa
scalfire la barriera del rancore, ma non è bravo con le
parole e comunque non
gli viene in mente nulla.
Gli
occhi di Loki non si spostano su di lui, né il suo capo si
volta. Rimane immobile,
come se non avesse nemmeno percepito la sua presenza.
Thor
non lo sa, da dove gli venga di fare un sorriso. Forse dal ricordo di
una
notte, secoli fa, durante la veglia funebre della Regina Madre, quando
lui
piangeva e piangeva e piangeva per la nonna, e anche sua madre
piangeva, e
forse persino suo padre, ma non Loki. Qualcuno poi avrebbe mormorato
che quel
bambino era crudele e non aveva un cuore ma Thor si ricorda che, in una
pausa
tra i singhiozzi dovuta allo sfinimento, si è soffermato a
guardare suo
fratello – la testa alta, lo sguardo fisso sul muro, uno
sguardo limpido,
immoto, ghiaccio sulla pietra - e ha provato un’angoscia
ancor più devastante
soltanto a vederlo, Loki, che conservava accuratamente le emozioni in
pieghe
remote di se stesso fino ad esserne invisibilmente sommerso. Forse
sorride
perché gli sembra la stessa cosa, adesso, vederlo fissare il
muro, come quella
notte, e forse sorride perché quel pensiero gli fa sentire
forte sulla pelle
tutto il peso dei secoli, fianco a fianco, giorni, notti, mattine,
battaglie,
gioie, sconfitte, urla, risate, tutti lì, uno sopra
l’altro. Una torre infinita
di attimi, emozioni, segreti, tutta la vita.
“Sei
molto stanco,” aggiunge allora, senza badare a come gli
s’inceppa la voce. Anche
adesso vorrebbe dire qualcosa di migliore, qualcosa di straordinario,
ma non ha
parole.
Vorrebbe
che gli occhi si voltassero verso di lui. Almeno loro, solo quelli,
poterli
guardare dritti, dentro, e cercarlo. Lo ha cercato davanti al Bifrost
appena
prima che crollasse nel vuoto, lo ha cercato su Midgard quando
l’ha portato via
durante la prima cattura, l’ha cercato quando l’ha
incarcerato definitivamente,
e non importa quanto tutto sembri negarlo: Thor lo sa,
che suo fratello è lì, da qualche parte, lo sente
nel sangue e
no, non importa che quel sangue non sia lo stesso che scorre nelle vene
del
principe ramingo di Jötunheim: Loki è suo fratello
in infiniti modi che
significano molto di più.
Loki
è suo fratello perché Thor era lì, la
volta che quel bambino bruno e pallido ha
letto ad alta voce la sua prima parola, e lo sguardo gli brillava di un
entusiasmo infantile e feroce che Thor non condivideva, ma che lo ha
riempito
di riflesso. E quando lui ha sollevato Mjölnir, il giorno in
cui quell’arma è
diventata sua, quando lui l’ha alzata da terra con il cuore
in gola, per prima
cosa, prima ancora di guardare suo padre, si è voltato
istintivamente a cercare
gli occhi e il sorriso di Loki. È suo fratello per le
lacrime versate, per il
sangue lavato dalle ferite dell’uno e dell’altro,
per gli infiniti bisbigli
notturni condivisi negli immensi corridoi del palazzo di Válaskjálf,
quando
invece di dormire nei loro letti vagavano ridacchiando da una sala
all’altra
finché il sonno li sorprendeva, sotto un tavolo trasformato
in roccaforte dalla
loro fantasia. È suo fratello perché Loki e Loki
soltanto l’ha visto piangere
da che è entrato nell’età adulta e
Thor, e Thor soltanto, ha avuto nella vita
il privilegio di assistere all’istante misterioso e
spaventoso in cui Loki si è
svegliato alla magia e per la prima volta è riuscito ad
usarla – un attimo, una
fiammella infuocata sulla punta delle dita e una risata,
un’infinita risata di
gioia e trionfo.
È
suo fratello perché è a Loki che va la sua mente
quando vorrebbe confidare
a qualcuno le cose che prova quando pensa a Jane, e allora immagina che
forse,
un giorno, se in fortunato futuro troppo improbabile suo fratello
concederà a
se stesso di tornare a essere Loki, se
s’innamorerà davvero, forse quel giorno
penserà a Thor, in qualche reame lontano, e anche lui si
sentirà incompleto a
non poter condividere nemmeno un soffio di quelle emozioni.
Perché non osa più
sperare di riportarlo a casa – ed è un pensiero
che sanguina. Perché Loki ora è
ad Asgard, ma non è casa. Non lo sarà mai
più.
Loki
è suo fratello perché lì, in quella
stanza in cui sono soli, e nessuno li sta
guardando, in cui non c’è niente tranne loro due e
Thor avrebbe così tante cose
da dire, così tante cose, dentro, soltanto a guardare Loki,
così tanto da
spiegare, da chiedere, da chiarire, gli viene in mente che
l’unica cosa che
conta è il silenzio. Perché lui e Loki hanno
condiviso tante imprese e tanti
mormorii, ma hanno trascorso anche infinito tempo senza
l’esigenza di doversi
dire nulla.
Allora
fa l’unica cosa che per lui abbia un senso, adesso, al di
là di tutto il
risentimento reciproco, ed è avanzare di qualche passo nella
cella e fermarsi
per qualche secondo proprio accanto a dov’è seduto
Loki, il ginocchio contro il
bordo del suo giaciglio, pietra tutt’intorno, e poi senza dir
nulla, senza
neanche guardarlo, si siede proprio lì di fianco, il braccio
che quasi sfiora
quello di Loki al punto che neanche si capisce se quel contatto infimo
sia
reale o immaginario, e rimane lì. Guarda anche lui il muro e
l’idea lo coglie
che se suo fratello da tanto tempo fissa le pareti forse è
arrivato il momento
che le osservi anche lui, per cercare di capire cosa ci vede. Per
condividere
anche quelle.
Loki
non si muove, ovviamente. Non si allontana, non si volta, non fa nulla.
Ma a
Thor non importa e rimane immobile ad ascoltare il silenzio, e ci sono
dentro
tutti i secoli della loro esistenza comune, è splendido e
terribile, e dopo
molti lunghi minuti azzarda il gesto di allungare il braccio, tendendo
la mano
con un’incertezza insolita per poggiarla a metà
tra il suo stesso ginocchio e
quello di Loki – il pollice appoggiato sul proprio, il
mignolo su quello del
fratello – e Loki continua a non muoversi, ma anche a non
ritrarsi. Però forse
Thor lo sente respirare più forte, forse, per un istante.
Pensa
che va bene così, e se lo farà bastare,
perché dentro quella carcassa
silenziosa c’è suo fratello e lui se lo
riprenderà, anche se fosse un mignolo
alla volta.
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