One
week in Prague
Prologo: Airplanes
-Eccoci
qui, finalmente. Appena in tempo.- constatò Ludwig, appena
ebbero
superato l'ingresso dell'aeroporto, al di sopra del quale brillava
l'imponente dicitura “FLUGHAFEN
BERLIN-SCHÖNEFELD”.
-Appena
in tempo?! Manca un quarto d'ora all'apertura del gate! Sei sempre
così di fretta, West...- sospirò suo fratello,
rifilandogli una
sonora pacca sulle spalle.
-Comunque,
sarà meglio andare: prima arriveremo al gate, e meglio
riusciremo ad
evitare la fila.- suggerì Arthur, facendo capolino da dietro
un'ampia sciarpa quadrettata che gli copriva metà del viso.
Gli
altri si scambiarono sguardi di assenso, e Gilbert annuì.
-Sono
certo che vi divertirete!- trillò Feliciano, con il volto
illuminato
da un gran sorriso, lasciando la mano di Ludwig e gettandosi a
braccia aperte sul fratello: l'esperienza gli diceva che avrebbe
sofferto molto la sua assenza, come sempre; in fondo, però,
una
settimana passa in fretta.
-E
tu, invece? Sei sicuro che starai bene?- domandò Lovino, di
rimando.
L'altro annuì.
-Starò
con Lud. E ti telefonerò, ma non troppo spesso.- sorrise,
sciogliendo quell'ultimo, caldo abbraccio e muovendo un passo
indietro, quasi a voler rendere più graduale
quell'arrivederci.
Lovino
lanciò un'eloquente occhiata al tedesco, che
ricambiò con un cenno
del capo.
Non
gli era mai stato particolarmente a genio, però sapeva di
potersi
fidare di lui: era sempre stato coerente e affidabile e, soprattutto,
aveva sempre amato e accudito suo fratello.
“Posso
affidarlo a te anche questa volta?”, chiesero i suoi occhi. E
la
risposta fu indubbiamente affermativa.
Arthur
tossicchiò rumorosamente, cercando di attirare l'attenzione
degli
altri.
-Sì,
giusto. Ora dobbiamo andare.- intervenne Antonio, con un allegro e
impaziente sorriso.
-Certo,
certo. Mi raccomando, divertitevi ma non fate sciocchezze.- li
ammonì
Ludwig, facendo correre lo sguardo sull'allegra comitiva per
un'ultima volta, appuntandolo a turno su ognuno dei viaggiatori: suo
fratello Gilbert, Elizaveta, Francis, Arthur, Antonio e Lovino.
L'idea
di quella vacanza improvvisata era venuta proprio a Gil, il quale
l'aveva prontamente suggerita ai suoi migliori amici: e
così, nel
pieno del mese di febbraio, le tre coppie avevano organizzato una
vacanza di sette giorni a Praga, alla larga da impegni e affari di
Stato.
Anche
lui e Feliciano erano stati invitati, ma con l'Unione scossa da una
così disastrosa crisi economica non se l'era sentita di
lasciare il
suo Paese. Tuttavia, aveva generosamente sovvenzionato
quell'incorreggibile gruppo di irresponsabili prenotando a loro nome
in uno dei migliori hotel della città.
-Io
non ci conterei troppo, al tuo posto!- sghignazzò suo
fratello,
strizzando furbamente un occhio al tedesco e precedendo gli altri in
direzione del gate numero 8, stringendo la mano di Elizaveta, o, come
la chiamava Gilbert, Elsbeth, alla tedesca.
-¡Adios!-
rise Antonio, agitando le braccia verso la sua direzione.
Seguì
il gruppo fino a dove la vista glielo consentiva, ma trascorsero
pochi istanti prima che la folla li inghiottisse completamente.
Quando si voltò verso Feliciano, trovò una
lacrima impigliata tra
le sue ciglia scure e una smorfia indecifrabile, simile a un
tremolante e incerto sorriso.
Circondò
le sue spalle con un braccio, guidandolo nuovamente verso l'ingresso.
Sapeva
che qualsiasi tentativo di consolazione sarebbe stato sciocco e
inutile: anche lui aveva un fratello la cui mancanza avrebbe reso la
sua casa e la sua linea telefonica orribilmente silenziosi. Gli
sarebbero mancati tutti loro, a dire il vero.
-Forza,
stasera andiamo a cena fuori, ti va? Cercheremo un buon ristorante
italiano, sei d'accordo?
Feliciano
scosse la testa, ricacciò indietro le lacrime e
alzò lo sguardo su
di lui.
-No.
Voglio andare a casa tua. Ho voglia di mangiare le schifezze che mi
prepari tu.- dichiarò, circondando con un braccio la vita
dell'altro.
-Ve
l'avevo detto, io, che dovevamo sbrigarci, invece di cincischiare!-
brontolò Arthur, quando ebbero consegnato le loro valigie e
furono
finalmente di fronte al gate.
A
dividerli dal metal detector c'era un lungo nastro di viaggiatori,
schiacciati l'uno contro l'altro come un esercito di sardine.
-Vorrà
dire che aspetteremo.- mormorò Francis, schioccandogli un
inaspettato bacio su una guancia.
Ma
ciò non contribuì a far tornare il buonumore
all'inglese, che
continuò a sbuffare di tanto in tanto fino a che non giunse
il loro
turno.
Lasciarono
sul nastro trasportatore giacche, borse e cellulari e, uno alla
volta, si sottoposero all'esame del metal detector.
Una
volta a bordo dell'aereo, si scatenò l'immancabile,
sanguinosa
battaglia per accaparrarsi i posti accanto al finestrino, che vide
Francis, Gilbert e Antonio penosamente sconfitti.
-Decolliamo!
Decolliamo!- esultò il prussiano, non appena presero quota.
-Due
birre!- aggiunse poi, al passaggio di una hostess.
-Per
me tre!- fece eco Elizaveta, a gran voce.
Dieci
minuti dopo, le bottiglie vuote di cinque Paulaner giacevano riverse
sul tavolino che divideva Elizaveta e Gilbert da Francis e Arthur,
che trascorsero l'intero viaggio con le cuffie alle orecchie (il
primo) e con gli occhi fissi sulle pagine de “Il cimitero di
Praga”
(il secondo). Lovino e Antonio sedevano dall'altro lato del
corridoio, l'uno addormentato tra le braccia dell'altro.
Quando
giunsero in vista della capitale ceca, intorno alle ventuno e venti,
Francis fu il primo ad accorgersene.
-Ragazzi,
siamo arrivati!- esclamò, additando il paesaggio
sottostante,
illuminato dalle migliaia di luci della sera, farsi sempre
più
vicino mentre il velivolo perdeva lentamente quota. Un attimo dopo,
la metallica voce del pilota annunciò in tedesco, in ceco e
in
inglese che di lì a pochi minuti sarebbero atterrati
all'aeroporto
di Praga-Ruzyne, raccomandando di restare seduti e con le cinture
allacciate.
-Praga,
preparati ad accogliermi!- saltò su Gilbert.
-Che
cazzo ti urli?!- ringhiò Lovino, svegliandosi di colpo.
-Siamo
arrivati, Lovi.- sussurrò Antonio, cercando di rasserenarlo.
L'italiano sbuffò, incrociando le braccia e affondando nel
suo
sedile.
Come
annunciato, dopo meno di dieci minuti misero nuovamente i piedi sulla
terraferma. Ritrovarono i propri bagagli e uscirono dall'aeroporto.
Presero posto su una navetta per turisti che li condusse fino a Ponte
Carlo, non lontano dal loro albergo: nonostante il buio e la
stanchezza, i loro occhi riuscirono a delineare l'elegante e insolito
profilo della città, spezzato qua e là da guglie,
cupole ed edifici
nei quali gli architetti di ogni epoca avevano voluto riversare tutto
il loro estro.
Il
tragitto parve loro tanto lungo che, quando terminò, quasi
non
credettero di essere finalmente a un passo dal loro misterioso
alloggio.
-E
ora? Dov'è che dobbiamo andare?- domandò
Elizaveta.
-Un
attimo, un attimo.- farfugliò Gilbert, frugando nelle tasche
della
giacca, alla ricerca dell'indirizzo scrittogli da Ludwig. -Alchymist
Grand Hotel. Trziste 19, quartiere Lesser.- proclamò infine.
-Grand
Hotel un corno. Scommetto che è una topaia.-
sbottò Lovino.
Ma
si sbagliava.
Ad
attenderli al suddetto indirizzo, trovarono un grande, lussuoso
palazzo color crema circondato da curatissime aiuole fiorite,
opulento ma raffinato; ai lati dell'entrata, due insegne color
porpora recitavano a chiare lettere “Alchymist”.
-Porca
merda.- fu tutto ciò che Lovino riuscì a
spiccicare.
In
effetti, la piacevole scoperta lasciò tutti di stucco:
nessuno si
sarebbe mai aspettato nulla di simile, da parte di Ludwig.
-Allora,
che cosa stiamo aspettando?!- cinguettò Elizaveta,
lanciandosi oltre
il cancello aperto. Di fronte a quella vista, neppure i suoi due
trolley che qualche forza sconosciuta teneva chiusi parevano poi
così
pesanti.
Si
precipitarono nella hall guardandosi intorno, come in un museo.
Soltanto Arthur cercò di mascherare lo stupore, mantenendo
il suo
solito contegno.
-Però,
che roba!- mormorò Antonio, accompagnando il commento con un
lungo
fischio.
Alla
reception, trovarono un ometto pingue in giacca e cravatta, con i
capelli neri pettinati all'indietro e baffi accuratamente impomatati
che sovrastavano un composto sorriso.
Tutto,
nella sua singolare figura, lo rendeva inconfutabilmente somigliante
ad Hercule Poirot.
-È
sicuramente belga.- sussurrò Francis all'orecchio di Arthur,
che si
lasciò sfuggire una risata sommessa.
-Buonasera,
signori. Posso esservi utile?- domandò l'ometto, in lingua
inglese
ma con un vago accento francese.
-Ci
sono tre stanze prenotate ai nomi di Weillschmidt, Fernandez Carriedo
e Bonnefoy.- proruppe Gilbert, facendosi coraggiosamente avanti.
L'ometto
inforcò un paio di occhialetti dalla montatura sottile e
cominciò a
spulciare nel voluminoso albo aperto sul bancone di legno chiaro.
-Sì,
ecco qua! C'è la Tower Suite a nome del signor Fernandez
Carriedo,
La Garden Suite a nome del signor Weillschmidt e la Junior Suite per
il signor Bonnefoy. Inoltre, nella suite del signor Weillschmidt
troverete le chiavi per il salotto e la sala da pranzo privati.
È
ciò che avete richiesto?- chiese, sollevando lo sguardo e
guardandoli uno ad uno da sopra gli occhialetti.
Gilbert
annuì, incapace di aggiungere altro.
-Perfetto.
Allora, eccovi le vostre chiavi.- sorrise l'ometto, voltandosi verso
la grande teca alle sue spalle, dentro la quale penzolavano centinaia
di chiavi, e prendendone tre un po' diverse dalle altre, con il il
nome della stanza inciso nel portachiavi d'argento.
-Vi
auguro buona permanenza, signori e signora. Se doveste avere bisogno
di qualsiasi cosa, non esitate a farmene richiesta.- li
congedò
infine.
-Qualcosa
mi dice che sarà un'ottima permanenza.- commentò
Gilbert,
agguantando le tre chiavi.
Attesero
di essere abbastanza lontani da non essere uditi da nessuno, prima di
lanciarsi in un fiume di osservazioni.
-Ci
dev'essere un errore.- fece Arthur.
-E
chi se ne frega? Io la voglio, la suite!- ribattè Lovino.
-Sono
d'accordo!- proferì Antonio, sfilando dalle dita di Gilbert
la
chiave con su scritto “Tower Suite”.
-Ci
mancherebbe altro.- concordò Francis, impossessandosi della
propria.
-Certe cose sono più divertenti, se fatte in una suite.-
osservò,
lanciando ad Arthur un'occhiata nient'affatto ambigua, anzi oltremodo
chiara ed eloquente, al quale l'inglese rispose con un beffardo: -Le
tue capacità non miglioreranno solo
perchè sei in una
suite.- che fece scoppiare tutti in una scrosciante risata,
sicchè
nessuno udì il francese sussurrargli: -Se ne sei
così sicuro, non
ti dispiacerà mettermi alla prova.
-Nient'affatto.-
sibilò l'inglese, con un mezzo sorriso.
-L'ascensore
è qui da un pezzo!- li interruppe Elizaveta, accennando al
povero
addetto che attendeva pazientemente il gruppo di nuovi arrivati.
Così,
in un tacito accordo, tutti quanti accettarono di non indagare oltre
sull'inaspettato regalo di Ludwig e di limitarsi a goderne al massimo
durante tutta la permanenza.
Arthur
e Francis furono i primi a lasciare il gruppo, al primo piano, dopo
essersi accordati tutti insieme sull'orario della prima colazione
dell'indomani.
Le
altre due stanze erano al secondo piano, ma in due differenti
corridoi. Usciti dall'ascensore, i quattro amici si salutarono:
Antonio e Lovino andarono a sinistra, Gilbert ed Elizaveta a destra.
Il
corridoio era buio e silenzioso. L'unica luce proveniva dal cellulare
di Elizaveta, l'unico rumore era quello dei loro passi sul pavimento.
Alla fioca luce del telefonino, trovarono la loro stanza, dietro una
porta contrassegnata da una targa dorata.
-Ci
siamo.- ghignò Gilbert, quando girò la chiave
nella toppa.
-Wow.-
mormorarono in coro, quando la porta fu aperta.
Sotto
un lampadario da cui pendeva una quantità infinita di
cristalli,
circondato da un divano color avorio, un'ampia finestra dalle spesse
tende coordinate e un armadio di legno di ciliegio e con un corteo di
tappeti orientali ordinatamente sparsi tutt'intorno, vi era un
immenso letto a baldacchino.
Gilbert
rise.
-Cosa
c'è?- domandò Elizaveta, già intuendo
la risposta.
-Bene,
letto. Ora vedremo se sei veramente degno di stare nella mia suite.-
scandì, con un mezzo sorriso sghembo, prendendo in braccio
Elizaveta
e chiudendosi la porta alle spalle con un calcio.
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