Capitolo
I
Era
una giornata noiosa, il cielo era grigio, l’azzurro coperto
da nubi che
promettevano pioggia e saette e l’aria era tanto pregna di
umidità che l’acqua
la si poteva respirare; la sagoma dell’antico maniero
spiccava, scura e a
tratti minacciosa, dominando il villaggio di casupole che era cresciuto
a
ridosso dei signori di quelle terre che, in tempi immemorabili, le
avevano
difese valorosamente.
Ma
erano appunto tempi immemorabili, persi nell’oblio delle
gesta passate, in
parte dimenticate ed in parte ingigantite, impreziosite da fantasiosi
dettagli,
fatte leggenda e poi mito: dei valorosi padroni di
quell’angolo di mondo non
era rimasto che un anziano conte, che dimorava nel palazzo coi suoi
figli, un
baldanzoso giovanotto dai modi raffinati e dall’animo
sregolato ed una
fanciulla tanto bella quanto notoriamente caparbia e scapestrata.
L’anziano
conte era un uomo conosciuto soprattutto per la sua biblioteca, che
vantava
volumi antichissimi, copie pregiate e raffinate eseguite da monaci
amanuensi,
ma anche tomi moderni ordinati dalla Francia e della Germania ed alcuni
addirittura dalla Spagna e l’impressionante mole di
conoscenza spaziava dagli
autori antichi come Plinio il Vecchio alla matematica, dalla botanica
all’alchimia,
dai grandi filosofi greci fino ai pensatori contemporanei, vi erano
spartiti e
riviste, tragedie greche e commedie latine.
Chiunque,
anche il più povero dei mendichi di Danimarca, conosceva
l’infinito numero di
libri in possesso del conte Frydendahl,
la cui ragione di vita era collezionarli e sfogliarli, per poi ripetere
nozioni
su nozioni, aforismi e citazioni colte con la sua voce profonda e un
po’
petulante nei salotti della capitale durante la stagione invernale,
quando vi
si recava coi figli nella speranza di veder maritata la figlia diletta
con un
buon partito, magari qualche appartenente alla corte reale o qualche
ufficiale
dell’esercito con una buona rendita ed un’ottima
posizione.
Il
conte non era mai stato famoso per essere attraente o brillante, al
contrario,
fin dalla più tenera infanzia, si era mostrato una persona
pacata e tranquilla,
dall’aspetto piuttosto spiacevole –era infatti
molto in carne e bassoccio,
aveva dita tozze e grassocce, i capelli sottili di un indefinito
castano ormai
grigio e due occhietti infossati azzurri e offuscati che spiccavano
sull’incarnato
pallido e malaticcio del viso tremolante-, amante della buona tavola
quanto di
un buon librone, costretto a letto da frequenti polmoniti e stretto
conoscente
delle arti mediche e dei loro praticanti, ad egli estremamente invisi.
I
suoi più intimi conoscenti non potevano non rimproverargli
una certa pigrizia e
ingenuità, ma, a conti fatti, non era né meglio
né peggio di altri nobili: si
recava alle feste e ai salotti quando vi era invitato, si metteva in
mostra
quando era richiesto dal suo ruolo di studioso, altrimenti stava nel
suo
maniero, dedicandosi alla lettura e, con scarsi risultati,
all’amministrazione
delle sue terre.
Non
era portato per esser né guerriero né pensatore,
era sempre indeciso e
preferiva di gran lunga lasciare agli altri i compiti spiacevoli; aveva
gran
cuore, ma era incapace di aiutare concretamente gli altri e le sue
opere di
carità si riducevano sempre a qualche corona donata alla
chiesa del villaggio o
al figliolo di qualche bracciante messo di servizio presso qualche suo
conoscente o in una bottega.
Era
vedovo da molti anni di una graziosa fanciulla, Amalie, che era morta
al terzo
parto con la sua creatura e l’aveva lasciato coi due figlioli
ancora bambini,
Ludvig, di dodici anni e Friederieke, di sei, che avevano ereditato molto
dalla
madre e quasi nulla dal padre: erano entrambi belli ed affascinanti,
estremamente benvoluti pressi tutti i salotti e i balli di Copenaghen.
Erano
però di carattere differente: il giovanotto, ormai uomo, era
di carattere
allegro, gioviale e gaudente, sempre preso in piacevoli
attività come la caccia
–indifferentemente alla volpe o alle fanciulle, nubili o
sposate che fossero- o
far bisboccia con i suoi compagni di collegio e piuttosto spendaccione.
La
fanciulla era invece introversa e sempre taciturna, ma dimostrava
spesso una
mente brillante e attenta, che ne aveva fatta la prediletta del padre,
il quale
passava molto tempo ad insegnarle la matematica e la filosofia,
preferendo però
affidare il resto della sua educazione ad una rigida istitutrice, la
signorina
Bernstein, fatta venire dalla Prussia per il decimo compleanno della
bimbetta,
il cui compito era stato insegnare a Friederieke il canto, la danza, il
cucito,
il francese, il disegno, la composizione di amene poesie sui prati
fioriti e a
discorrere da vera signora, cosa che invece la giovinetta -cresciuta
come una
selvatica per quattro anni dalla morte della madre e a cui avevano
badato
distrattamente le serve del maniero e la cuoca- aborriva, preferendo le
cavalcate o le camminate solitarie per la campagna e i giochi col
fratello.
Oppure
le visite all’anziano Jens, il fratello della capo-cuoca, che
per anni aveva
svolto il lavoro di capo-stalliere e maniscalco e che era stato il
marito della
sua balia, un uomo schietto e sincero, sempre molto simpatico, che
l’aveva
messa sulla groppa del suo primo cavallo e che, con una cerca
soddisfazione, l’aveva
osservata per anni introdursi nelle stalle di soppiatto per scappare
dalla
signorina Bernstein.
Friederieke
guardava fuori dalla finestra, annoiata, rigirandosi pigramente il
lavoro tra
le mani; il cucito non l’aveva mai entusiasmata, lo aveva
sempre trovato noioso
dato che non ne trovava una vera utilità pratica
–del resto i suoi abiti
arrivavano sempre da qualche sartoria della capitale, dove suo padre
spendeva
un vero e proprio patrimonio per farle avere sempre i modelli
più in voga alla
corte francese.
Si
concentrò sul ricamo, tentando di ricordare cosa fosse di
preciso… forse un
usignolo? si chiese, lanciando un’occhiata perplessa ai fili
azzurri.
Non
le
sovvenne nulla ed alzò lo sguardo, sperando di poter
sbirciare il lavoro della
signorina Bernstein che invece pareva tutta presa dalla sua opera e la
teneva
in modo tale che la fanciulla non potesse vedere cosa stesse ricamando.
Con
un sospiro a stento trattenuto, la ragazza fece vagare lo sguardo per
il
salottino -molto femminile, avrebbe squittito la severa donna tedesca,
estasiata dal lavoro che aveva fatto per rendere la stanza adatta alla
presenza
di una “signorina di una certa levatura sociale e
morale”-, soffermandosi sui
dipinti appesi alle pareti, alcuni opera della giovane nobildonna
–in gran
parte paesaggi dei dintorni e qualche ritratto qua e là-,
sui mobili di
squisita fattura francese –“così
moderni” li aveva definiti sua cugina Sophie
durante l’ultima visita- di legno laccato e dalle imbottiture
pompose, lontani
dal resto dell’arredamento del maniero, antico e reso lucido
dalle mani
generazioni di Frydendahl, di legno scuro e pesante, che raccontava di
congiure
e vendette, di tradimenti e passioni mai sopite.
Ma
Iedike era quasi certa che, dall’epoca del nonno di suo
nonno, la congiura più
eclatante fosse stato un cambio nel menù natalizio. La sua
attenzione andò
tutta al caminetto e alle fiamme: almeno quello si era salvato dalla
signorina
Bernstein, si disse. Dei mobili, dei drappi, dei tappeti e delle
pellicce che
una volta avevano riempito quella stanza non rimaneva molto.
-Una
vera signorina non ozia inutilmente quando ha un ricamo da terminare.-
la
riprese l’istitutrice, senza nemmeno alzare gli occhi.-Una
vera signorina
termina il suo ricamo con attenzione e perizia, perché il
ricamo è un’attività
piacevole e conveniente.
Volse
di nuovo gli occhi cerulei alla finestra, quasi supplicando il cielo di
scagliare un fulmine sull’insopportabile signorina Bernstein.
Pazienza se
quello non era un comportamento da cristiana, Dio di sicuro
l’avrebbe capita.
Provò
a finire il suo ricamo, decidendo che il disegno informe doveva essere
un
usignolo, ma ogni tentativo di concentrarsi scompariva appena
l’ago di faceva
strada nella tela candida e la sua tenue determinazione si trasformava
nella
noia più tetra e arrivata al punto in cui era ormai sicura
che quella fosse la
punizione per chissà quale grave colpa, qualcuno
bussò alla porta: era una
delle serve, una ragazzetta mingherlina e pallida, mai vista prima
d’allora –di
certo doveva essere la serva nuova, visto che in casa la
servitù era sempre
ridotta all’osso- che fece una riverenza.
-Signorina
Bernstein, il signor conte l’attende nel suo studio.-
sussurrò, quasi avesse
paura della sua stessa voce e, appena venne congedata, per poco non
corse via.
La
donna
si alzò dal sofà su cui stava lavorando,
ritirando il suo lavoro e lisciandosi
le pieghe dell’abito blu notte.
-Torno
subito signorina, voi continuate il vostro ricamo.- le disse con un
tono che
sapeva di ordine e quindi uscì, lasciando Friederieke da
sola.
La
ragazza
posò il lavoro e si alzò, quatta,
accostò l’orecchio alla porta e solo quando
fu certa che ormai la sua “carceriera” fosse
lontana, la spalancò, correndo
fino alle cucine, evitando i corridoi principali e scegliendo quelli di
solito
usati dalla servitù.
Entrò
nell’ampio e fumoso locale, ringraziando di indossare una
semplice veste da
casa e non uno degli abiti nuovi che suo fratello le aveva portato dal
suo
viaggio in Inghilterra, altrimenti chissà quali invisibili
macchie la signorina
Bernstein sarebbe stata in grado di scovare.
La
capo-cuoca senza nemmeno salutarla, ma col sorriso di chi la sapeva
lunga, le
indicò un involto su uno dei tavolacci attorno a cui,
normalmente, alle ore dei
pasti si affaccendavano le sguattere della cucina.
-Se
passate per la casa di mio fratello, portategli un po’ di
zuppa… ah, se non ci
pensassi io a lui, signorina Iedike!- borbottava la donna, tagliando le
cipolle.
La
fanciulla
annuì, infilando la mano in un piccolo vano che i
costruttori del palazzotto
avevano lasciato nelle pareti delle cucine ed estraendo un paio di
stivali di
cuoio e una mantella di lana scura; s’infilò
stivali e cappa e, preso
sottobraccio l’involto, salutò la giunonica donna,
allontanandosi dal maniero e
sistemando il cappuccio e le falde della mantellina affinché
nessuno potesse
conoscerla.
Il
villaggio non distava molto dal maniero e, dopo una breve camminata sul
sentiero proprio a ridosso del fiumiciattolo che irrigava quella zona,
si trovò
nella piazza principale proprio quando una lieve pioggerella
iniziò a cadere.
La giovane fece l’ultimo tratto di strada correndo, uscendo
dal villaggio e
prendendo un sentiero polveroso, attraversando il ponticello che
portava al
mulino e proseguendo verso la casupola di legno al limitare del bosco.
Bussò
alla porta. –Jens, sono io, Iedike, apritemi. Vostra sorella
mi manda con la vostra
cena.
Sentì
il cane di Jens, un grosso bestione di razza indefinita, dal manto
folto e
scuro, abbaiare, riconosciuta la voce della ragazza e poi la porta si
schiuse,
rivelando il volto cotto dal sole e solcato da profonde rughe
dell’anziano.
-Signorina
Iedike! Entrate, entrate! Ma non avete visto che tempo fa? Voi volete
proprio
ammalarvi!- esclamò l’uomo, facendosi in la per
far passare la contessina, che
svelta s’infilò nell’ambiente caldo, che
profumava di carne messa a seccare, di
resina e di zuppa di cipolle, sfilandosi il cappuccio di lana e
sorridendo all’omaccione
ricurvo, una volta imponente ed ora ridotto pelle e ossa, dolorante per
i
reumatismi.
L’enorme
meticcio continuava a saltare, cercando di infilare il muso sotto le
gonne
della ragazza e di annusare l’involto contenete la zuppa per
l’anziano Jens,
che da parte sua cercava di mettere il bestione a cuccia.
-Mi
ammalerei se rimanessi sempre ferma a ricamare notte e dì
come vuole la
signorina Bernstein! Non so con che fanciulle abbia avuto a che fare in
Prussia, ma le donne danesi sono di altra pasta, non son fatte per star
tutto
il tempo con le mani in mano! Se Dio avesse voluto ch’io
fossi una damina di
porcellana, non sarei stata certo una Frydendahl!- rispose la
fanciulla,
ridendo e voltandosi verso il tavolo, per poi ammutolire.
Seduto
al tavolo, con una grazia ed un’eleganza fuori dal comune, vi
era l’uomo più
bello che avesse mai visto, che la fissava curioso.
****L’angolino
dell’autrice****
Lo
so, ho tipo sedicimila storie da finire e lo so, sono stra in ritardo,
ma
questa storia andava scritta.
Che
dire se non che nasce dalla mia mente malata e già questo
dice molto? Nulla, a
parte il fatto che il nostro bel sconosciuto è uno dei miei
personaggi
preferiti del LC.
Ah,
e
ringrazio petitecherie perché io della Danimarca so giusto
la posizione sulla
cartina e la capitale. E che ci stavano gli juti… e i
sassoni, credo. E i
vichinghi :3
Buona,
ho già detto abbastanza cavolate, a presto!
Beth
P.s.:
Iedike è il diminutivo danese di Friederieke.
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