Di
semidei e
tinte pastello.
Mortofrutta.
Pessima
idea. Davvero una pessima,
pessima idea.
Come
le era saltato in mente di invitare
a cena il capo e la moglie? Lei e il suo stupido istinto da
crocerossina. Il
loro matrimonio era destinato a finire, lo si sapeva da tempo ed
entrambi
parevano averlo accettato. Loro sì, ma Azzurra proprio no.
Non poteva
rassegnarsi, né tantomeno voleva farlo. Il signor De Carlis
e consorte erano il
suo modello, la sua favola, la sua piccola creatura; li aveva fatti
incontrare,
frequentare, convivere, sposare… e ad un tratto volevano
farle credere che
tutto fosse finito. Puff, svanito.
Niente più amore, comunione dei beni, progetti insieme; ora
c’era spazio solo
per risentimento, spartizione del patrimonio, strade separate.
E
lei non aveva idea di come ciò potesse
essere accaduto e soprattutto quando.
Aveva consegnato nelle loro mani i loro destini con tanto di chiave per
la
felicità eterna, aveva provato a farli camminare da soli con
le proprie gambe,
ma l’intera situazione era andata a scatafascio.
Evidentemente avevano bisogno
di gattonare ancora per un po’. Madornale errore di
valutazione, il suo, aveva
sbagliato e ne era consapevole. Di certo ne erano consci anche i
diretti
interessati, magari addirittura la odiavano e la utilizzavano come
pretesto per
litigare; l’idea la terrorizzava: stava logorando il suo
piccolo capolavoro
d’ingegneria sentimentale.
La
sua cucina, poi, non avrebbe aiutato.
Non bastava aver guardato Julie&Julia
una dozzina di volte e avere la televisione sempre
sintonizzata su Gambero Rosso per
imparare a spadellare.
Quella cena sarebbe stata un fiasco, lo sentiva, e le sue spicce
nozioni di
psicologia non avrebbero salvato il matrimonio del capo. Il colpo di
grazia,
insomma. Lei aveva creato, lei avrebbe distrutto.
Doveva,
comunque, affrontare una cosa
per volta: innanzitutto, la spesa. Aveva fatto una lista sommaria di
ciò che le
serviva per preparare antipasti vari, crespelle ai funghi, arrosto e
tiramisù.
La
giornata non prometteva bene, nemmeno
meteorologicamente parlando: pioveva a dirotto e il cielo era
un’incombente gregge
grigio che sovrastava minaccioso l’intera città.
Azzurra
scese dalla macchina già
trafelata e corse ad accaparrarsi un carrello. Frugò nel
portafoglio, nella
borsa, nelle tasche del trench e dei jeans, ma naturalmente non aveva
con sé
neanche una moneta da infilare nel meccanismo per poter sganciare un
carrello,
perciò decise che si sarebbe accontentata di uno dei cestini
con le ruote che
stavano all’interno del supermercato. Vi entrò
fradicia, con i capelli che già
si stavano increspando grazie all’acqua e
all’umidità, ma per fortuna era l’ora
della pausa pranzo e i clienti erano pochissimi.
Come
al solito, constatò di aver
lasciato la lista della spesa in macchina; a volte si domandava
perché perdere
tempo a scriverla, quando era matematico che la scordasse in ufficio, a
casa,
in un altro paio di pantaloni, in auto. Si rispondeva sempre allo
stesso modo:
scrivere l’aiutava a ricordare… in teoria. In
pratica, era bravissima a
dimenticare.
Sarebbe
andata a braccio, a cominciare
dall’ortofrutta. Pomodorini, le servivano i pomodorini per le
bruschette. E un
po’ d’insalata di contorno, almeno ci sarebbe stato
qualcosa di mangiabile
sulla tavola. Prese anche un po’ di frutta mista, dopo averla
attentamente
analizzata, e s’impegnò affinché tutto
fosse perfettamente ordinato nel suo
carrellino. Da brava architetto, ogni minima cosa doveva essere
organizzata e
pianificata. Beh, tutto tranne la propria vita.
Stava
procedendo verso le conserve,
tranquilla e rilassata in quello spazio gigante al momento solo suo,
quando un turbine
con due piedi e quattro ruote quasi travolse lei e il povero cestino,
che non
si rovesciò per miracolo, riportando soltanto una lieve
botta sul lato sinistro.
-
Ma che cavolo…? – Azzurra guardò
allibita la ferita di guerra che aveva riportato il suo mezzo
– Mi ha fatto la
fiancata al carrello!
-
Scusi, vado di fretta! – Si giustificò
una voce maschile, ma lei non gli stava prestando attenzione, intenta
com’era a
fare la conta dei danni.
-
Mi ha ammaccato due pesche noci e
un’albicocca, si rende conto? – Stavolta si decise
a guardarlo dritto n faccia.
Era un uomo sui trenta, alto, riccio, con gli occhi chiari e un
soprabito
scuro. E la guardava stralunato –
Dieci
minuti per sceglierle con cura e con il guanto in plastica, eh, mica
come
alcuni furbetti, e ora sono irrimediabilmente rovinate
perché lei va di fretta!
Si
curò bene di scimmiottare il suo
tono, mentre l’occhio le cadeva sul carrello del disgraziato.
Dio mio, mai
visto un tale caos: succhi di frutta sparsi, biscotti schiacciati sotto
alcune
bottiglie di vino, yogurt incastrati tra il pane e delle lattine di
cibo per
gatti. In ultimo, a mo’ di stendardo della
virilità perduta, una confezione da
dodici di carta igienica che svettava sopra a tutto. Il che non era
necessariamente un male, pensò Azzurra: almeno significava
che il selvaggio non
usava le foglie dell’albero del vicino per pulirsi.
-
M-mi dispiace… – bofonchiò lo
Schumacher dei poveri, stupito dalla reazione della ragazza –
Non avevo
intenzione di provocare dei feriti.
Commise
l’errore di ridacchiare della
propria battuta, sperando di contagiare anche lei, ma il piano non
funzionò: se
possibile, causò ancora più danni
dell’incidente di qualche minuto prima.
-
Mi auguro che lei non guidi l’auto
come conduce il suo carrello, altrimenti temo che abbiamo un problema.
-
Senta, – tentò lui per mediare, visto
che la tizia non dava cenno di scherzare – sono desolato per
la perdita delle
sue albicocche e della pesca…
-
Sono due pesche e un’albicocca – lo
corresse prontamente lei.
-
Sì, – sospirò lui impercettibilmente
–
per le due pesche e l’albicocca. C’è
qualcosa che posso fare per rimediare?
Gliele pago, d’accordo? E lei può sceglierne altre.
A
quel punto, lo sguardo di Azzurra si
fece più triste che insofferente. La perdita della frutta le
stava provocando
dell’autentico dolore.
-
Ma io volevo quelle… – brontolò,
corrucciando le labbra in una buffa smorfia.
Il
mondo le stava dicendo qualcosa, era
più che evidente. Tutto ciò che sceglieva lei era
destinato a fare una brutta
fine: la begonia pendula rinsecchita, la coppia di criceti Roborowskij
scannatisi a vicenda, la nuova e tecnologica tenda da sole incendiata
dalla
cenere della sigaretta del vicino al piano di sopra, il
non-così-felice
matrimonio di Sergio e Dalila De Carlis e ora della frutta innocente
agonizzante.
-
Ho davvero
molta fretta, signorina – la implorò,
cercando di sfruttare il momento di
debolezza della donna. Si sentì un po’ idiota e
pure un briciolo meschino, ma
aveva ancora ventun minuti prima della fine della pausa pranzo e non
aveva
tempo di preparare una commemorazione tra cavolfiori e mele verdi.
Azzurra,
però, tornò a guardarlo in
cagnesco.
-
Anche io, sa? A quest’ora contavo di
aver già finito il giro e pagato e invece sono ancora
all’ortofrutta,
depauperata di due pesche noci e di un’albicocca.
In
realtà sarebbe stata ancora impegnata
a scegliere il pezzo di maiale più adatto per celebrare
degnamente la fine
dell’amore della sua vita. Cioè della vita del
capo e della moglie. Che
comunque ormai era diventata anche la sua vita. In fondo, loro tre
erano
davvero una splendida coppia.
-
Non c’è nulla da fare. La situazione è
irreparabile –
dichiarò il ragazzo, che
si era accucciato per accertarsi delle ormai disperate condizioni della
frutta
nel carrellino.
Irreparabile?
Anche
il riccio non dava ai De Carlis una seconda chance. Tutti quei segnali
divini
cominciavano a darle i brividi. Lei era la solitaria albicocca che
aveva
aiutato le due altrettanto solitarie pesche noci ad unirsi in
matrimonio e
proprio mentre le aveva lasciate andar via verso le conserve
– una chiara
metafora del futuro – un imprevisto le aveva fatte deragliare
tutte e tre.
Rimaneva solo da capire chi rappresentasse il riccio: il destino, forse?
-
Irreparabile un corno! Tutto si può
aggiustare! – replicò con forza lei, stupendo il
ragazzo. – Solo perché lei non
è in grado, non significa che io non possa!
Lui
stava per perdere definitivamente la
pazienza, ma si promise di sforzarsi comunque di non risponderle in
maniera
sgarbata.
-
E allora mi faccia vedere come ci
riesce lei.
Aveva
promesso di sforzarsi, non di
riuscirci.
Azzurra
prese il sacchetto con le
vittime, rivoltandoselo tra le mani per trovare un modo per farle
tornare
all’originale splendore. Dopo due minuti di tentativi, le
parve chiaro che sarebbe
stato impossibile far sparire quei bozzi profondi da quelle belle bucce.
-
D’accordo, forse non tutto – si arrese
con riluttanza.
-
Grazie!
-
Beh, ma cosa vuol fare? – domandò
indignata.
-
Io nulla, lascio decidere lei – Azzurra
si prese un attimo di riflessione, vagliò diverse opzioni,
si ricordò di dover
modificare il balcone dei Falconi e di ricalcolare i millesimi della
proprietà
dei Gambardella… –
Allora?
Ah,
sì, il riccio doveva espiare.
-
Si scusi pubblicamente. – esclamò,
dopo il parto mentale.
-
Come? – Lui sperò di aver capito male,
ma la faccia determinata di lei non gli dava molte speranze.
-
Si scusi pubblicamente. – ripeté,
infatti.
Fallo,
sarà un po’ umiliante e un tantino stupido, ma se
servirà a togliertela di
torno, fallo e basta,
fu la decisione finale del ragazzo.
-
D’accordo. Le chiedo perdono,
signorina.
Stava
già per ritornare al carrello e
spingerlo il più possibile lontano da lei, quando la sua
voce lo bloccò.
-
Ma non a me, a loro!
No,
non voleva girarsi, non voleva
nemmeno lontanamente prendere in considerazione l’ipotesi che
lei stesse
indicando la frutta nel carrello.
Una
coppia di anziani gli passò accanto stupita
e lui aspettò con pazienza che lo superassero, prima di
girarsi e dimostrare
che la tizia urlante con la testa nel cestino stesse parlando proprio
con lui.
Sorrise ai due, tornò a grandi falcate vicino ad Azzurra e
parlò sottovoce.
-
Dovrei chiedere scusa a due pesche e
ad un’albicocca? – chiese incredulo, ma la ragazza
pareva irremovibile. La
nanetta era fuori di melone, giusto per rimanere in reparto.
Però decise di
farlo, qualunque cosa per piantarla in asso e procedere con la spesa.
– Okay. Scusate…
ragazze.
-
Bene, – gioì Azzurra, battendo le mani
– giustizia è fatta. Buona giornata.
Non
solo si era appena umiliato,
implorando perdono a della frutta, ma, alla fine, era stato lui quello
a
rimanere da solo nell’ortofrutta.
Si
sentiva leggera, aveva risolto
l’inconveniente col riccio nel migliore dei modi ed ora
doveva solo affrontare
il problema di quanta panna da cucina comprare. Stava per imboccare la
corsia
apposita, quando, dando una rapida occhiata al carrello si rese conto
di un
buco che non avrebbe dovuto esserci nella programmazione dello spazio;
ergo,
aveva dimenticato qualcosa. A giudicare dalle dimensioni, poteva
trattarsi di
due pacchi di pasta da 500 grammi o di due confezioni di biscotti.
Savoiardi,
ecco che cosa mancava.
Fece
una rapida retromarcia – per quanto
le rotelline ossidate le consentissero – verso le corse
inziali e lo rivide. Il
riccio non era andato lontano, stazionava con aria confusa davanti agli
scaffali delle conserve di pomodoro, probabilmente aspettando delle
rispose
dall’alto per comprare la migliore. Guardava le etichette dei
prezzi,
confrontava il peso netto dei prodotti, le offerte in corso. Azzurra
non aveva
mai visto tanta superficialità nell’affrontare una
scelta di quella portata. E,
sebbene una parte di lei auspicava che il tizio toppasse clamorosamente
la
sfida che aveva dinnanzi, il suo istinto da massaia chioccia non poteva
lasciare che l’inesperienza fuorviasse il pulcino di
un’altra gallina in quel
modo.
Si
avvicinò di soppiatto, ancora incerta
sul da farsi: non voleva dimenticare l’incidente di poco
prima.
Taci,
Azzurra, sono affari suoi.
D’altra
parte, però, la tentazione di
fare la maestrina e cercare di indirizzarlo nella giusta direzione con
la salsa
di pomodoro era molto forte. Anche perché, ad essere proprio
onesti, lui ne
aveva disperatamente bisogno, vista la poca professionalità
con cui aveva
sistemato gli acquisti nel carrello.
-
S-senta… – per
poco lui non lasciò cadere la bottiglia di
sugo per terra. Che le aveva fatto, ora? Calpestato il piede del suo
amico
immaginario? Invaso il suo spazio vitale? Respirato il suo ossigeno?
-
Scusi – disse d’istinto, tanto sapeva
che ad un certo punto di quella seconda conversazione avrebbe dovuto
dirlo.
-
Mi permetta di darle una mano. – Senza
attendere risposta, lei gli strappò dalle mani la confezione
di vetro e la
ripose sullo scaffale – Lei deve analizzare la situazione con
maggiore
oculatezza. Ha nozioni di chimica?
Il
ragazzo rimase con la mano vuota a
mezzaria e la bocca aperta. La pazzoide ora parlava di chimica con aria
di chi
la sapeva lunga a riguardo.
L’unica
risposta che gli veniva da
fornire era in realtà un’altra domanda: perché?
Perché diamine avrebbe dovuto saperne di chimica per
comprare del sugo? Perché
diavolo stava parlando ancora con lei? Perché cavolo
l’aveva sfiorata con il
carrello mentre correva verso il reparto macelleria? E soprattutto,
perché
cazzo era entrato in quel supermercato? Sarebbe potuto rimanere in
ufficio,
alla banca, a mangiare la sua insalata preconfezionata, sperando di
ritrovare
nel pomeriggio Ingrid Geschwätz , una delle clienti fisse
dello sportello, una
valchiria tedesca con le spalle larghe il doppio delle sue –
accompagnata dal
fidanzato di un metro e cinquanta e dal chihuahua Arnold –,
che gli rivolgeva
sempre le solite parole.
-
Puonciorno, sighnor Qvaresmini. Mein
Gott, in qvesta banka ci è troppo kaldo! Ich krede kolpa
è di zuoi pelli okki plu.
Blaue Augen, rechts Ciofanni?
Seguiva
un’abituale pacca sulla spalla
del povero Ciofanni, che forse
nemmeno capiva quel che lei diceva, ma non smetteva di guardare il suo
bel
donnone germanico con uno sguardo d’ammirazione e colmo
d’amore. Oppure le
guardava le tette, ancora non s’era capito.
Fatto
sta che ormai lui si era
affezionato a quell’improbabile trio; si preoccupava se non
li vedeva almeno
tre giorni a settimana, a ritirare cento euro alla volta. Erano cinque
anni che
lavorava lì e non avevano mai mancato
l’appuntamento, né nel frattempo
l’accento e l’italiano di Ingrid avevano dato segni
di miglioramento. Si era
abituato ad essere il signor Qvaresmini,
solo per loro; una piccola concessione per l’unica famiglia
che vedeva più
della sua, fatta eccezione per quella rompipalle di sua sorella
Elettra. E a
proposito di rompipalle…
-
Chimica? –
rispose con cautela. La ragazza che gli
stava accanto sembrava calma al momento, ma non voleva rischiare di
svegliare
il gigante dormiente.
Azzurra
lo guardò con aria scocciata.
Ecco, era successo: si era pentita di aver offerto il proprio aiuto
allo
sconosciuto, che palesemente non capiva un corno di chimica. Che ci era
andato
a fare in un supermercato, se non ne sapeva una mazza in materia?
-
Capisce cosa intendo quando parlo di
stati di aggregazione? – Sì, okay, ora stava
facendo un po’ la pretenziosa,
giusto per dimostrare al pirata della corsia che non era una svitata.
Obiettivo
che non le stava riuscendo molto bene, a giudicare dagli occhi
strabuzzati di
lui – Stati della materia? No, niente?
A
quel punto il riccio parve scorgere la
luce in fondo al tunnel. Il liceo era lontano quasi dieci anni, ma
talvolta
qualche reminiscenza gli ricordava di quella vita passata tra i banchi,
sui
libri, in mezzo al sapere e alle gambe di Arianna.
-
Intende lo stato gassoso, liquido e solido?
Azzurra
sorrise forzatamente. Forse
c’era ancora speranza per il tontolone.
-
Esatto. Vedo che comincia a capire. –
Qualcosa, in effetti, il ragazzo cominciava a capire: la pasta,
d’ora in poi,
solo in bianco. Purtroppo all’orizzonte non c’era
nemmeno l’ombra di un altro
cliente a cui scaricare la pazza. C’era solo una ragazzina,
ma sarebbe stato
troppo codardo appiopparla a lei; roba da rovinarle
l’adolescenza. Doveva solo
comportarsi da uomo e sopportarla, magari prima di arrivare al
parcheggio, o,
meglio ancora, alla cassa – Mi dica, come sceglie di solito
la salsa di
pomodoro?
Alt.
E che fine
avevano fatto gli stati di aggregazione della materia? Tanto clamore
per
recuperarli in un angolo recondito della memoria e ora si passava ad
altro?
-
Non so… guardo le offerte, direi. –
fece spallucce – Oppure la prima che mi capita tra le mani.
-
Ah-a! – il ragazzo indietreggiò
lievemente, tutt’ad un tratto non si sentiva così
sicuro vicino a lei – Lei è
il classico pollo, senza offesa eh, facile da raggirare. Lei
è vittima dei
messaggi subliminali della pubblicità. Lo sa che si dice che
la disposizione
dei prodotti negli scaffali influenzi l’acquisto degli
stessi? Pare che gli
utenti ignari siano portati a comprare ciò che sta nel
centro e nella parete
destra della corsia. O era la sinistra, ora non ricordo benissimo.
Lui
colse al volo l’attimo d’indecisione
e provò a limitare la fiumana di parole che uscivano da
quella bocca maledetta.
-
Tutto ciò è molto interessante, le
assicuro. Però, devo andare a lav…
-
Mi perdoni, – lo interruppe lei,
alzando il palmo della mano verso di lui – stavamo parlando
della sua passata
di pomodoro. Voglio aiutarla a sceglierla.
-
La ringrazio, – davvero
la voleva ringraziare? E di cosa, di grazia?
Di avergli fatto sprecare dieci minuti in un supermercato, in una serie
di
conversazioni totalmente inutili? – ma non è
necessario. Prenderò questa.
Ne
prese una a caso, proprio non gli
importava che fosse biologica, d’importazione, di
contrabbando o quant’altro.
Gli importava soltanto di liberarsi di quella zavorra umana.
-
Sguizza? – chiese lei all’improvviso.
-
S-sguizza? – Doveva essere un modo per
chiedergli se scherzava. – N-non so se sguizzo.
Azzurra
lo guardò sconcertata: no, non
c’era proprio speranza, quello non capiva nemmeno
l’italiano.
-
Ma non lei, per Diana! La salsa… dico,
sguizza?
Non
aveva idea di che cosa intendesse
con quel verbo. Non che non l’avesse mai sentito, ma gli
sfuggiva cosa
c’entrasse nel contesto. Decise, quindi, di rimanere neutrale.
-
Non saprei.
Scandalizzata.
Lei era
scandalizzata: trent’anni e non aveva le minime regole di
base per fare la
spesa. Ringraziasse il cielo di averla incontrata!
-
Non ha controllato, prima di decidere
di acquistare quella?
-
Temo di aver perso le fila del
discorso.
-
Le chiedevo il grado di sguizzo che ha
il barattolo di salsa che ha in mano: grande sguizzo, medio sguizzo o
piccolo
sguizzo?
-
I-io…
Il
tizio era veramente tardo, non
c’erano altre spiegazioni.
-
Sua madre non gliel’ha insegnato?
-
No, purtroppo mia madre non c’è.
Ecco,
che gaffe. Certo avrebbe potuto
avvisarla prima che era orfano di un genitore, senza costringerla a
fare una
terribile figura, riesumando vecchi dolori, ferite profonde, Natali,
Pasque,
compleanni a fissare un posto vuoto a tavola, dopo
quell’incidente in macchina,
quella malattia, quello scontro in motoscafo, quel morso di vipera
Russel,
quell’attacco di squalo bianco o qualsiasi altra causa di
morte.
-
Oh, mi dispiace.
-
No, – il riccio capì l’equivoco e lo chiarì
subito – non è morta, è solo che
abita a centoventi chilometri da qua, non abbiamo occasione di fare le
spese
insieme e non mi ha introdotto alla tecnica…
dello… ehm, sguizzo. – si sentiva
un idiota già solo a dirla, quella parola.
-
Ah, – Azzurra tornò subito alla realtà,
con un briciolo di delusione – allora non mi dispiace.
Cioè, mi dispiace che
lei non abbia ricevuto un’educazione adeguata,
perciò, in nome della
connessione che si è creata tra me e lei nel momento del
perimento delle due
pesche noci e dell’albicocca, da lei causato ricordiamoci, mi
offro
d’indottrinarla a riguardo. – Indicò una
prima confezione di tetrapak,
completamente colorata – Cosa mi dice di questa?
-
Beh, non vedo nulla.
-
Esatto, – urlò lei, in piena estasi da
salsa di pomodoro – come può giudicare lo sguizzo
se non vede il prodotto?
Scartato. – Dunque, questo sguizzo era qualcosa di visibile,
era già un
indizio. – Passiamo al prossimo: bottiglia trasparente, marca
PappaPronta. Qui, finalmente,
possiamo
introdurre la tecnica vera e propria. Ecco, la prenda lei.
Lui
l’afferrò con la stessa apprensione
con cui aveva preso in braccio la prima volta la sua nipotina in fasce:
come se
potesse romperla stringendola un po’ di più.
-
E ora?
-
Faccia oscillare il sugo all’interno. –
lui, appurato che la bottiglia sembrava abbastanza solida, prese a
scuoterla
con violenza – Non le ho detto di agitarlo come una batida!
Immagini di
decantare un vino pregiato su una spiaggia dorata, con le palme che si
muovono
nel vento e le onde del mare che s’infrangono sulla
battigia…
Il
riccio cominciò a battere il piede
sul pavimento, spazientito. Non sapeva più in che lingua
dirle che non aveva
tempo da perdere, figuriamoci poi per scegliere se doveva starsene ad
ascoltare
tecniche di rilassamento da maestro di yoga.
-
È necessaria la cornice caraibica per
decifrare lo sguizzo?
Azzurra
interruppe la descrizione con un
grugnito contrariato.
-
Per una mente limitata come lei, ovvio
che no. Quindi, la sua conclusione? – lo esortò.
Il
ragazzo seguì le istruzioni.
-
Sembra un po’ liquida. Un po’ troppo.
Il
sorriso sornione che si dipinse sulla
faccia di Azzurra denotava una certo orgoglio da insegnante di fronte
ad un alunno
che ha appreso bene la lezione.
-
Bravo
l’élève. Questa passata
scivola sulla mezza penna rigata e non me l’avvolge
con il calore necessario; se mi permette un’espressione
colorita, è buona per
lubrificare, non per fare l’amore con la suddetta mezza
penna. Grande sguizzo,
grande delusione. Proviamo con la Pommipiù.
La
lasciò cadere nella mano di lui, che
evitò per un pelo di farla rovinare a terra, mentre lei
già valutava quale
sarebbe stata la prossima salsa da fargli valutare; ormai le conosceva
a
memoria, perciò sapeva bene cosa sottoporre al suo allievo.
-
Questa neanche si muove. Sembra
cementata.
-
Piccolo sguizzo, la categoria
peggiore. – decretò lei – Ingloba il
maccherone e non lo molla più. È la
fidanzata, quella gelosa e morbosa che non accetta di essere piantata,
la
stalker dei sughi insomma. – Si abbassò
all’altezza dell’ultimo scaffale e
prese un’altra bottiglia – Che mi dice della Salsy?
-
Sembra un giusto compromesso, non le
pare? Densa, ma non in modo esagerato, dà l’idea
di saper coccolare il fusillo
con quel misto di decisione e morbidezza che richiede una passata. Non
ci veda
doppi sensi in quest’ultima frase.
Tralasciando
le sue battute, che
comunque erano piuttosto carucce doveva ammetterlo, il riccio aveva una
qualche
sorta di talento per riconoscere gli sguizzi. Poteva ritenersi
soddisfatta del
lavoro svolto, perché era più che certa che il
merito fosse suo. D’altronde,
era sempre stata una magnifica insegnante.
-
È l’amore della vita: ama il fusillo e
vuole aiutarlo ad esprimersi al meglio, non lo lascerà mai.
– sospirò e lasciò
che i pensieri parlassero per lei – Loro sono i Sergio e i
Dalila De Carlis.
I
chi?
-
Come prego?
Azzurra
venne colta da una strana
sensazione d’ansia e di inquietudine. Doveva pensare alla
cena, punto e basta,
senza perder tempo dietro a un bell’imbusto, che comunque non
era neppure
granché, togliendo gli occhi blu e quel ciuffo ricciolo che
pareva la banana di
Elvis Presley.
-
Devo andare, de-devo finire il giro e
sono in ritardo. Buona giornata. – si affrettò a
dire.
Lo
prese in contropiede e fu talmente
rapida nel trascinare il carrellino e rifugiarsi nella corsia
successiva che le
parole di lui si dispersero nell’aria, senza che lei potesse
udirle.
-
Ma…? Aspetti. Aspetti! Volevo solo
dirle… grazie.
Uno
strano soggetto, senza dubbio.
Quella nanetta con la lingua biforcuta e amante dei diritti dei
vegetali non
era di certo un tipetto convenzionale. Almeno gli aveva insegnato
l’universale tecnica dello sguizzo;
il tempo perso
dietro le sue assurde teorie alla fine si era rivelato moderatamente
utile.
-
Signor macellaio? Ehilà, c’è nessuno?
Mi dispiace per l’incidente con la mannaia
dell’ultima volta. Volevo solo farle
uno scherzo! L’importante è che abbia ancora tutte
le dita, no? Signor
macellaio?
Ed
ecco riemergere dal fondo del
supermercato la sua voce acuta alla ricerca di Giancarlo, capo della
macelleria. Uomo simpatico e meritevole di solidarietà, se
aveva avuto a che
fare con lei e un coltello in mano.
Si
rese di compassione e decise di dare
lui una mano alla ragazza, per ricambiare il favore di qualche minuto
prima. Si
mosse con attenzione, onde evitare di investire nuovamente lei, o pane
in
cassetta, o pesci volanti. La trovò quasi arrampicata sul
banco frigo per
sbirciare all’interno della macelleria.
Forse
era ancora in tempo per scappare.
-
Credo sia in pausa. – disse, invece.
Azzurra
si voltò e mise fine con un
salto alla scalata che aveva intrapreso. Si sistemò il
cerchietto sulla testa e
si lisciò il trench spiegazzato.
-
E io come faccio?
-
Io non gliele presto le mie dita per
giocare con la mannaia.
Meglio
mettere le mani avanti con lei.
Pessimo modo di dire, però, in questo caso.
-
Cosa? No, mi serviva un pezzo di
carne.
-
La mia?
L’aveva
presa in simpatia? Perché
sembrava molto meno impostato dello stronzo ricciolone incapace di
guidare un
carrello dell’ortofrutta.
-
Le detrarrò una libbra di carne per
ogni brutta battuta che fa – lo avvertì.
-
D’accordo. Posso darle una mano? Così,
giusto per rimediare al danno di poco fa e ringraziarla
dell’aiuto con la
passata.
Lei
lo guardò sospettosa.
-
Non andava di fretta?
-
Sì, ma lei ha fatto leva sul mio senso
di colpa per il triplice ferimento, perciò posso utilizzare due minuti – e
rimarcò bene la quantità
di tempo che aveva intenzione di destinarle – ad aiutarla.
Okay,
magari poteva dargli credito, non
che poi avesse molte alternative: la sua conoscenza dei maiali si
limitava a Babe, maialino coraggioso;
carino sì,
utile no.
-
Ne sa di suini?
-
Come se fossi uno di loro. – Era una
brutta similitudine per dirle che era un donnaiolo? Il ragazzo parve
accorgersi
dell’ambiguità dell’espressione e si
spiegò meglio. – Come uno nato e cresciuto
in cascina.
-
E di lombi?
-
Parliamo sempre di suini, vero?
Dalla
simpatia si era approdati alla
malizia, ma Azzurra era troppo concentrata sulla carne per poterla
assecondare.
-
Siamo già a quota tre libbre,
l’avverto. – Lo minacciò, invece.
-
Stemperavo solo la situazione, suvvia.
Innanzitutto, qui c’è il vitello. Il maiale
è là, sulla destra. – Le fece cenno
di seguirlo verso la fine dell’enorme banco frigo –
Eccoci.
Lei
diede una rapida occhiata a tutti i
pezzi confezionati disponibili: costine, guanciale, coscia,
filetto…
-
Qui non c’è nessun lombo! – Sapeva di
doversi rivolgere ad un professionista, invece che al Lupo
ammazzafrutta. – Signor macellaio?
-
Si rilassi.– Prese una vaschetta e
gliela mostrò – Eccolo, lonza
di suino.
Allora
davvero non capiva l’italiano.
-
Ma a me serve il lombo!
Il
riccio s’impose di restare calmo e di
non urlarle di smettere di starnazzare: se solo fosse riuscita a tenere
la
bocca chiusa per più di tre nanosecondi, lui avrebbe avuto
l’immenso piacere di
illustrarle una spiegazione più che esaustiva.
-
Si tratta sempre della stessa parte di
carne, che assume denominazioni diverse in base al taglio e alla
regione. Se
alla carne viene lasciato l’osso, allora si parla di
carré; la parte finale del
carré contiene, sotto le coste, il filetto. Se tale pezzo
viene affettato, si
otterrà il nodino; se invece la carne viene disossata,
avremo la lonza.
-
Amen. Ne è sicuro?
Le
aveva appena fatto un’esposizione
dettagliata e precisa dell’intero problema e ora lei metteva
in dubbio tutto
quanto.
-
Sicurissimo. – biascicò, coi denti
serrati dal nervosismo.
-
Guardi che io mi fido, eh. Se poi l’arrosto
viene una ciofeca, do la colpa a lei. – disse Azzurra
serissima, strappandogli
un sorriso.
Non
riusciva. Non ce la faceva a
rimanere arrabbiato con lei: era buffa – un modo carino per
dire pazza –, con una
parlantina esasperante
e modi di fare ancor più irritanti, ma l’insieme
era imprevedibilmente
gradevole.
-
Mi prendo tutte le responsabilità del
caso. – la rassicurò. Forse troppo,
perché lei lo prese in parola.
-
Quindi lei mi sta dicendo che se non
riesco a salvare il matrimonio dei De Carlis, posso sempre dire che
è a causa
sua…
-
Matrimonio? Non stavamo parlando di
arrosto?
-
No, – lo contraddisse – lei ha detto:
“Mi prendo tutte le
responsabilità del
caso”. Il caso
è quello dei De
Carlis.
-
E l’arrosto? – Decise di stare al
gioco.
-
Lonza al latte per risvegliare gli istinti
materni di Dalila. Se non glieli risveglia, mando i coniugi da lei.
-
Da me?
Non
aveva granché esperienza con le
coppie, se non con Ingrid e compagnia bella. E in quel caso era un
trio. E non
era certo che Ciofanni sapesse
parlare. Contava lo stesso?
-
È lei che mi ha consigliato il pezzo
di carne o no? Non cerchi di arrampicarsi sugli specchi, per cortesia.
-
Posso almeno sapere il resto del menu?
-
Crespelle ai funghi.
-
… funghi per far capire a lui che
Dalila è il terreno di cui si nutre? –
domandò, immaginando un identico
percorso cosparso di significati nascosti per il marito.
-
Funghi perché è un po’ che li ho nel
congelatore e volevo smaltirli. – Azzurra divenne rossa dalla
vergogna e si
affrettò a completare la risposta. – Ma ovviamente
anche perché sono il
terriccio di cui si nutre.
-
Terreno.
-
Quello che è.
Il
riccio si appoggiò con gli avambracci
sul proprio carrello; la conversazione, incredibile a dirlo, lo stava
incuriosendo da morire.
-
Dunque, per lui nessun messaggio
culinario subliminale? – chiese interessato.
-
Ecco…
Le
guance di Azzurra si colorarono di un
scarlatto ancora più intenso, divertendo il ragazzo.
-
Nel dolce, forse? Cosa prepara come
dessert? – La incoraggiò, conscio di peggiorare la
questione imbarazzo.
-
Ehm… tiramisù – sussurrò.
-
Oh, giusto – lui trattenne una risata
di puro gusto, solo per non farle desiderare una volta per tutte di
sprofondare
nel pavimento –
Certo, la poesia si
perde un po’ per strada, ma anche
l’intimità è importante. E se non
migliorasse
la situazione là sotto per il povero lui, temo dovremmo
spartirci la colpa.
-
Chi? Lei e Dalila?
-
No, io e lei.
Azzurra
ripristinò un colorito normale e
si preparò a snocciolare uno dei suoi discorsi seri da
psicologa con attestato
online.
-
Se si lasceranno sarà evidentemente
perché non ritengono di poter continuare a vivere insieme,
nonostante
l’opinione contraria dell’esperta.
-
Vedono una terapeuta?
-
L’esperta sono io – affermò, come se
fosse la cosa più ovvia del mondo.
-
È una terapeuta?
-
No, un architetto. Quindi so come
progettare al meglio una relazione, dalle fondamenta ben solide, ai
muri
portanti, dai dettagli che rendono unico ogni progetto, ai balconi che
ti
permettono di godere della tua libertà, ma in modo
controllato.
-
La guru delle storie d’amore, in
pratica – scherzò lui, ma lei lo prese sul serio.
-
Dice bene. – Il riccio cominciava a
piacerle, tutto sommato. La sua nuova denominazione le garbava
alquanto.
Purtroppo non poteva trattenersi, la cucina l’attendeva
– Ora, bando alle
ciance e mi lasci passare, ho una cena da preparare.
-
Mi raccomando l’arrosto! – ridacchiò
lui – Non ci metta le patate, l’analogia potrebbe
traviare il povero lui!
Azzurra
se ne andò con il suo carrellino
cigolante, nascondendo sotto i baffi un sorriso divertito.
Dopo
circa cinque minuti di quiete
assoluta, si ritrovarono per l’ennesima volta, in questo caso
ciascuno ad
un’estremità della corsia dei detersivi per
lavatrice. Pensavano di limitarsi
ad un cenno con il capo in segno di saluto, entrambi avevano ripetuto
fino alla
nausea che l’ora di pausa stava tragicamente volgendo al
termine ed erano già
in ritardo sulla tabella di marcia.
Azzurra
si guardava intorno interessata,
quel reparto era il suo preferito. Nella sua piccola lavanderia di
casa,
c’erano un’infinità di flaconi colorati
che non avrebbe mai usato, ma che non
aveva potuto esimersi dal comprare, perché erano perfetti
per l’arredamento
della stanza.
Il
riccio invece camminava più spedito,
aveva già adocchiato ciò che gli serviva e non
aveva bisogno di fare altre
scelte di vitale importanza, come quella affrontata per la passata di
pomodoro.
Man
mano che si avvicinavano, però,
cominciarono a scrutarsi attentamente. Sembravano due pistoleri di un
vecchio
film western americano; avanzavano lentamente verso il centro,
studiandosi a
vicenda con diffidenza, mentre lanicci di polvere rotolavano
indisturbati sul
pavimento.
Azzurra
lasciò incustodito il proprio
carrellino, pur di colmare il lieve svantaggio che aveva nei confronti
di lui;
sembravano diretti tutti e due verso lo stesso scaffale.
-
Non avrà intenzione di comprare proprio
quel flacone di detersivo? – Gli chiese con una punta di
minaccia nella voce, ponendosi
di fronte alla mensola.
-
Il Fluffy,
dice? Profuma di brezza marina, è il mio preferito.
Dannazione,
anche la pazza lo voleva.
Peccato che ne fosse rimasto solo uno.
-
Lascia nell’armadio una deliziosa fragranza
fresca, vero? – Doveva tirar fuori un po’ di
charme, irretirlo con la
parlantina per evitare che le scippasse l’ultima confezione
– Adoro usarlo
d’estate, quando…
-
Beh, però è ottobre.
Ecco,
aveva dimenticato che il
ricciolone tontolone non era amante della poesia; era più
spiccio. Bene, lo
sarebbe diventata anche lei.
-
Quindi?
-
No, nulla, è solo che non è più
estate, perciò potrebbe lasciarlo a me. Ma, la prego,
– si scusò il ragazzo – sono
un maleducato, è giusto che lo prenda lei.
-
Non ha tutti i torti, siamo in
autunno, potrei pure fare a meno della brezza marina
nell’armadio. Sa che
faccio? Glielo lascio.
La
strategia di gioco era la finta
cortesia: illudersi di averla spunta e poi, zan!,
colpirlo a morte.
-
Davvero? È gentile, ma insisto perché
lo abbia lei, mi ha anche aiutato con la passata –
esclamò lui.
-
Ma lei mi ha dato una mano con la
lonza, siamo pari.
-
Di nuovo, insisto.
-
Insisto io.
-
Io insisto di più.
-
Sono davvero molto brava ad insistere,
mi creda.
-
Se le cose stanno così… grazie.
-
Bene. – Maledetto, l’aveva fregata! Ma
se si aspettava che lei lo lasciasse andare via così, si
sbagliava di grosso. –
Certo che la brezza marina nel mio armadio ci sta proprio bene.
-
Non lo dica a me, quando lo apro il
profumo invade la stanza.
D’accordo,
aveva provato con la
gentilezza, anche se finta, e non aveva funzionato, ora sarebbe passata
alle
maniere forti.
-
Già, già. Però sa una cosa? In
realtà
l’ho aiutata veramente tanto con la storia del sugo.
-
Io c’ho perso cinque minuti dietro
alla sua lonza. – Nemmeno il riccio dava segni di cedimento,
però. Voleva quel Fluffy
e l’avrebbe ottenuto, con le
buone o con le cattive.
-
Le ho persino insegnato la tecnica
dello sguizzo… – ritentò Azzurra.
-
Lei ha usufruito delle mie conoscenze
anatomiche del maiale. – obiettò l’altro.
-
… senza contare il danno subito dalla
mia persona a causa sua, con le due pesche noci e l’albicocca
crudelmente
strappate alle loro simili per colpa della sua negligenza.
-
Senta, non può ritrattare: ha detto
che potevo prendere il flacone di Fluffy,
ora me lo tengo.
-
Ma ne stavamo discutendo! Lei
insisteva, io insistevo, lei insisteva, io insistevo e ad un tratto lei
ha
smesso d’insistere! Poteva almeno avvisarmi, avrei smesso
prima io!
-
È stata una decisione improvvisa! – si
giustificò lui, alzando il tono della voce, tanto che una
commessa li guardò
stupita – Ascolti, facciamo che lo prende lei e io ripasso
domani, d’accordo?
Basta,
la pazza aveva vinto, la
situazione si era evoluta da una semplice discussione tra due adulti, a
un
battibecco tra cinquenni. Per giunta per del detersivo!
La
tipa era matta, la cavalleria
latente, ma non del tutto morta: gliel’avrebbe lasciato,
almeno avrebbe fatto
una bella figura agli occhi della cassiera guardona.
-
No – rispose però Azzurra.
-
Come no? – Nella sua voce c’era
un’evidente nota di frustrazione.
-
Non accetto la sua carità.
-
Non è carità, – per la miseria!
Avrebbe mai fatto la cosa giusta con quella maledetta ragazza?
– è solo un modo
per risolvere le cose e permettermi di tornare in banca dalla mia
severissima
capo.
-
Ah, così lavora in banca… non l’avrei
mai detto.
-
Perché?
-
Non ha la faccia da bancario, con
tutti quei ricci ribelli. Non disturbano la clientela?
-
Nessuno ha mai fatto un esposto a
riguardo.
In
effetti non aveva mai verificato. Però
di sicuro la Leone, il suo capo, non avrebbe mancato di dirgli una cosa
del
genere. Lo rimproverava quando per caso starnutiva in primavera per via
dell’allergia, figurarsi se si sarebbe lasciata scappare
un’occasione del
genere. Ma… davvero si stava chiedendo se gli utenti della
banca si fossero
lamentati dei suoi ricci? La pazzia era contagiosa, evidentemente.
-
Va beh… ma si fida?
-
Chi? La mia capo?
-
Che c’entra il suo capo? Parlavo di
lavatrici. Bianchi e colorati insieme?
Quella
donna aveva la capacità di
portare avanti dieci discorsi diversi, senza nemmeno rendere partecipi
i propri
interlocutori.
-
Bianchi da una parte e roba colorata
dall’altra: rossa, gialla, blu, verde, azzurra…
La
ragazza nel frattempo si era
distratta, in quel tripudio di forme, colori e profumi che era il
reparto dei
detersivi. Per un architetto come lei, tutto ciò che avesse
a che fare con
quelle tre caratteristiche, era una sorta di specchietto per le
allodole.
-
Sì? – rispose, sentendosi chiamare, ma
lui fraintese l’intero discorso.
-
Sì, sì, tutta insieme.
-
Io? – Azzurra si controllò braccia e
gambe: le risultava di essere ancora tutta intera, nonostante il
piccolo
incidente delle due pesche noci e dell’albicocca.
-
Lei?
-
Sì, io.
-
Cosa?
Il
riccio si era definitivamente perso
nella conversazione; non sapeva più nemmeno quale fosse
l’argomento!
-
Tutta insieme. – ribadì la ragazza –
Almeno finché lei non mi investe col carrello.
-
La lavatrice la investe con il carrello?
Che
c’entrava ora la lavatrice?
-
No, lei lei –
precisò Azzurra.
-
Io?
-
Che aveva da dirmi?
-
Sul Fluffy intende?
-
Mi dica lei… mi ha chiamato per
parlare del Fluffy? –
Forse era il
caso di mostrarsi accondiscendente, il riccio era già
abbastanza confuso e
aggredirlo non sarebbe stato fruttuoso.
-
Io non l’ho chiamata! – si difese
ostinatamente.
-
Ho sentito nettamente il mio nome –
replicò lei testarda.
-
Nemmeno lo conosco il suo nome!
Erano
almeno quindici minuti che si
punzecchiavano e ancora non si erano presentati? Lei sentì
il bisogno di
colmare subito quella grave mancanza.
-
Azzurra Trentini – disse, allungando
la mano verso di lui.
-
Achille Quaresmini – il riccio fece
altrettanto e gliela strinse.
-
Achille come il Felide?
Se
l’aspettava, una domanda del genere;
era una delle mille declinazioni a cui l’avevano abituato
ventotto anni in quel
corpo.
-
Pelide – la corresse prontamente lui.
-
No, parlavo del gatto del vicino.
-
Mi prende in giro?
-
Non mi permetterei mai, Achille.
– Era divertente ripeterlo, con
quelle due l finali che facevano
indugiare la lingua sul palato. Un nome spassoso. – Certo che
è strano.
-
In famiglia abbiamo tutti nomi greci.
– spiegò lui.
Non
gli dispiaceva chiamarsi in quel
modo, perlomeno non era il solito Marco o Pietro; però
talvolta era davvero
noioso dover dare spiegazioni sul perché portasse il nome di
un eroe greco e
non quello di un esploratore veneziano o di un vescovo di Roma.
-
Buffa scelta, ma in fondo poteva
andarle peggio: Telemaco, Aiace, Agamennone, Priamo, Tindaro, Polluce,
Egisto,
Neottolemo… è una tradizione che intende
mantenere? Perché se io e lei
dovessimo sposarci non gradirei chiamare mio figlio Menelao. Al massimo
il
canarino.
Per
quale assurdissimo motivo stavano
parlando di nozze? Tra loro due, poi! Si conoscevano da un quarto
d’ora e lui
era piuttosto certo che quella fosse anche l’ultima volta che
si sarebbero
visti.
-
Perché io e lei dovremmo sposarci? –
chiese esterrefatto.
-
Destino, suppongo. – scrollò le spalle
lei – Mio padre ha conosciuto mia madre ad un matrimonio.
-
È una dinamica molto comune.
-
Era il matrimonio di lei. Sono
scappati dal retro del ristorante.
Adesso
gli sembrava tutto molto più
chiaro, ma meglio non approfondire i trascorsi in casa Trentini.
-
Possiamo tornare al detersivo? –
propose.
-
Credo che entrambi dovremmo lasciarlo
qui. – concluse Azzurra – Se ci pensa, non
è un comportamento corretto nei
confronti del prossimo cliente che arriverà,
vorrà comprare del Fluffy
e non lo troverà.
-
D’accordo, ha ragione. – A questo
punto era meglio assecondarla, pensò Achille, almeno sarebbe
finalmente
riuscito a sbolognarla entro qualche secondo. Ora
vai alla cassa e te ne vai, subito. – Non lo
acquista nessuno
dei due. Bene, è stato un piacere conoscerla, Azzurra. Buona
giornata.
-
Arrivederci, Pelide.
Arrivederci
un cazzo. Io cambio supermercato e in questo non ci torno
più, manco morto.
Stava
per dirigersi diretto come un
missile verso la cassa, quando notò che anche lei sembrava
intenzionata a fare
la stessa cosa. Ce n’era solo una aperta, il che significava
fare la coda
dietro a lei. Con lei. Si
girò
d’istinto verso la piccola parete che univa le due corsie e
la guardò interessato.
Merda, era quella dei cosmetici e degli smalti. Va beh, meglio perdere
un po’
di mascolinità che altri dieci minuti – che,
oltretutto, neanche aveva – a
discorrere con quella.
-
Provi quello lilla, è bellissimo! –
gli urlò a distanza la pazza.
La
cassiera alzò un sopracciglio, in
un’espressione condita da stupore e un briciolo di disgusto,
non si sforzò
neanche di fingere di essere concentrata a fare il conto di Azzurra.
Tentò, però,
di aiutarla ad imbustare gli acquisti, ma all’ennesima volta
che la ragazza le
intimava di creare una solida base trapezoidale coi surgelati,
rinunciò ad ogni
carineria.
Achille
trattenne il respiro finché le
porte scorrevoli non si chiusero dietro la figura minuta di lei con un
rumore
secco, il più dolce che avesse mai sentito. Se
n’era andata. Quasi quasi si
commuoveva. Gli rimanevano quattro minuti e mezzo per pagare, caricare
in
macchina, mollare la spesa a casa e tornare in ufficio: nemmeno
Superman ce
l’avrebbe fatta, tanto valeva prepararsi alla ramanzina del
capo e alle
occhiatacce furiose del collega, nascosto da una fila chilometrica di
clienti
allo sportello. Ma almeno ora le orecchie si stavano riposando, senza
quell’odioso – anche se doveva ammettere
divertente, a sprazzi – cicaleccio
femminile in sottofondo.
Passò
davanti alla corsia dei detersivi,
prima di rivirare verso la cassa, e lo vide di nuovo: il mitico Fluffy dall’obnubilante
fragranza di brezza
marina. Come il canto delle sirene per Ulisse – una sorta di
amico greco –, il
flacone lo reclamava a gran voce. Dopotutto, che gli importava? Azzurra
era
andata via, non avrebbe mai saputo che aveva infranto
l’accordo di non
belligeranza sul prodotto. Lo afferrò veloce e si
precipitò alla cassa; avrebbe
voluto sghignazzare maleficamente alla faccia della guru
delle relazioni, ma s’impose di non farlo
finché non fosse stato
al sicuro nella sua automobile.
La
commessa passò tutta la spesa davanti
al lettore magnetico e lui si affrettò a infilare tutto
nella grande busta di
tela cerata del supermercato. Aveva ormai rinunciato a quelle sporte
talmente
biodegradabili da biodegradarsi prima di arrivare alla macchina.
Purtroppo
il Fluffy non ci stava,
così Achille se lo strinse con una mano al
petto come un trofeo.
Pagò
il conto, lasciò il carrello
all’interno del supermercato e uscì
all’aria aperta con un sorriso a trentadue
denti e il flacone celeste da esporre neanche fosse una medaglia
olimpica.
Ce
l’aveva fatta. C’era voluta un po’ di
astuzia, ma l’importante era aver vinto.
Aprì
la macchina con il telecomando e
spinse il pulsante per aprire il baule, depositandovi
all’interno la borsa.
-
Allora alla prossima!
Il
motore acceso di una macchina alle
sue spalle lo fece voltare di scatto. Era una Ypsilon
color amaranto col finestrino sinistro abbassato. E
un’Azzurra sorridente all’interno. Sorridente
almeno fino al momento in cui non
aveva visto l’agognato Fluffy
a cui
aveva dovuto rinunciare, saldamente circondato dalle braccia di quel
riccio
traditore di Achille. A quel punto aveva sgranato gli occhi, stretto le
labbra
in una smorfia di rabbia e scosso la testa ripetutamente, travolta
dalla più
nera ira e dalla cocente delusione.
-
Le posso spiegare! – le urlò il
ragazzo, ma lei non voleva starlo a sentire.
Nel
tentativo di fare una drammatica
uscita di scena – una sgommata e partire indignata
–, mollò troppo presto la
frizione, con il risultato che la macchina procedette a scatti per
qualche
metro e, infine, si spense.
Ad
Achille veniva da ridere, Azzurra era
troppo incasinata per essere reale. Per la salvaguardia del suo corpo,
dal
momento che la reazione della ragazza non era prevedibile – e
lui desiderava
avere figli in futuro – si trattenne a stento in un sorriso
tirato.
-
Faccia conto che non sia già più qui!
– gli urlò lei, riavviando il motore e partendo,
stavolta con un gran fragore.
-
Tre minuti, Quaresmini, tre minuti di
ritardo. Ringrazi il cielo che per ora ci siano solo quattro gatti in
coda,
altrimenti lo sentiva lei Brambilla borbottare come una caffettiera
perché il
suo collega se l’è presa comoda, come di consueto
direi.
-
Scusi dottoressa Leone, ho avuto un
imprevisto.
-
Si risparmi le solite scuse e si metta
al lavoro.
Saranno
pure state le solite scuse, ma
erano vere, al
contrario dei due wurstel che l’acidona aveva al posto delle
labbra. Pagati da
papà ovviamente, che guarda caso era pure
l’amministratore delegato della banca
in cui entrambi lavoravano. Achille non era nemmeno certo che la
stronza ce l’avesse
una laurea, eppure le era bastato il cognome per diventare la
direttrice della
filiale: ventisei anni, due in meno di lui, praticamente zero
esperienza e la
gerarchia gli ricordava che lei era un gradino più su. Lui
era vicedirettore da
un anno, era abituato a fare lavoro d’ufficio, ma da quando
Iolanda era andata
in maternità, la Leone aveva ben pensato di piazzare lui
allo sportello, un
modo assai poco sottile per ricordare a tutti che il suo futuro era
nelle sue
mani curate.
Si
sedette alla scrivania, pronto a
rendere operativo anche il secondo sportello della filiale, ma il
computer
pareva morto. Non si accendeva proprio. Controllò le prese,
tentò d’invertirne
alcune, ma lo schermo rimase completamente nero. La giornata sembrava
procedere
di male in peggio; afferrò la cornetta e provò a
contattare l’assistenza, ma
nessuno fu in grado di aiutarlo concretamente.
-
Quaresmini, lasci perdere il
terminale, verrà tra qualche ora il tecnico informatico a
sistemare i suoi casini. Guardi
che c’è la signora
Geschwätz e valletti che la cercano; vada pure nel suo ufficio
e li liquidi
alla svelta, ha delle pratiche da sbrigare.
I
suoi
casini? Fino a prova contraria, quel computer era stato usato da
Brambilla
nella mattinata e l’aria colpevole del soggetto in questione
sembrava
confermare l’ipotesi che fosse lui il responsabile del
malfunzionamento.
Achille
si lasciò sfuggire
un’imprecazione mentale contro quella grandissima zoccola
della Leone, in parte
gioendo di poter stare alla scrivania da solo, senza l’arpia
a controllare ogni
singola mossa. Era un ritorno al vecchio lavoro, quello di
vicedirettore vero; non che le
relazioni col pubblico
non gli piacessero, – Ingrid, Ciofanni
e il chihuahua, ad esempio, erano uno spasso – ma talvolta la
clientela sapeva
essere molto esigente, con richieste assurde, moduli incompleti, e
dialetti
africani e asiatici da interpretare.
Meglio
la quiete del suo stanzino cinque
per quattro metri, il rumore rilassante della macchina del
caffè, il quadro con
un paesaggio montano sulla parete, un pc funzionante…
Si
accomodò sulla poltroncina girevole
imbottita, ma qualcosa nella tasca dei pantaloni gli premette contro
l’osso del
bacino. Si raddrizzò senza alzarsi completamente e
infilò la mano nei calzoni,
traendone una piccola carta magnetica: era la tessera punti del
supermercato.
Il
pensiero andò direttamente a un
soggetto: Fluffy, meglio conosciuto
come il detersivo della discordia.
Quando
Azzurra se n’era andata via – la seconda volta, non
quando aveva fatto cilecca
–, si era sentito un po’ stronzo. Un po’ tanto
stronzo. In fondo lei non era così male, neanche
fisicamente: non troppo
alta, occhi e capelli scuri, davanzale discreto, bel
fondoschiena… si
difendeva, nell’insieme. Magari il cerchietto con il fiocco
poteva lasciarlo a
sua nipote, la figlia di Elettra, per andare all’asilo,
però nel complesso era
carina. Se taceva.
Ingrid,
Ciofanni e Arnold sfilarono di
fronte ad un’inorridita direttrice,
che mai si sarebbe abituata agli abiti vistosi e fuori luogo della
signorotta
teutonica.
Per
la prima volta li vedeva senza la
fredda barriera del vetro a dividerli. Lei corse ad abbracciarlo,
mentre il
compagno si accontentava di stringere il chihuahua color biscotto.
Achille
cercò di ricambiare, ma, nonostante la conoscesse da anni,
non si sentiva
proprio a suo agio, shackerato come un frullato in mezzo a quel seno
prosperoso.
-
Sighnor Qvaresmini, okki plu! Crande,
crandissimo proplema!
-
Accomodatevi pure. – I tre si
lasciarono cadere sulle due sedie identiche di fronte alla scrivania.
– Ditemi,
qual è il problema?
-
Pankomat rotto. Kome quanto Arnolt non
riesce ti antare in pagno: plokkato!
Ah,
gli era mancata Ingrid e i suoi
assurdi e imbarazzanti paragoni canini!
-
Me lo dia pure, probabilmente è
smagnetizzato. Glielo sostituisco subito.
-
Oh, sempre prafo sighnor Qvaresmini.
Qvanto tefe pacare?
-
Niente signora Ingrid, è un servizio gratuito.
-
Sentito, Ciofanni? Okki plu sempre
prafo, onesto, non kiede soldi, lui non
frekerebbe mai tonna come me.
Già,
Achille Quaresmini è bravo, onesto,
non fregherebbe mai una donna, non la ingannerebbe per accaparrarsi uno
stupido
flacone di detersivo alla fragranza di brezza marina…
Finì
di preparare il nuovo bancomat per
la signora Geschwätz e li congedò rapidamente,
sempre più pensieroso. Sistemò
alcune carte per circa un’oretta, ma non riusciva a
concentrarsi su quei
documenti, disturbato dagli eventi dell’ora di pranzo.
Ventotto anni e si era
ridotto ad ingannare una tizia per comprare una confezione di Fluffy. Aveva forse lasciato i gioielli
di famiglia a casa, quella mattina? Gran bella prova di galanteria.
Lo
disturbava. Sì, lo disturbava l’idea
che la pazza potesse avere un’idea distorta di lui: non era
il tipo da rubare a
giovani donne indifese delle stupidissime confezioni di detersivo per
lavatrice!
Chiuse
la schermata del computer su cui
stava lavorando e ne aprì un’altra, esitando a
poggiare le mani sulla tastiera,
prima di compiere una gigantesca infrazione alla riservatezza delle
informazioni sui clienti. Controllò che Brambilla e la Leone
fossero impegnati
e lontani dalla sua postazione, quindi digitò nome e cognome
nel motore di
ricerca interno.
Azzurra
Trentini.
Nessun
risultato.
Sarebbe
stato troppo semplice se lei
fosse stata cliente della sua banca. Provò direttamente su Google e trovò Trentini
arch.
Azzurra, ma il solo riferimento era lo StudioLab
di De Carlis ing.
Sergio e soci, via
Marconi 20/b. Gli orari di apertura coincidevano
più o meno con gli orari
della filiale, quindi, a meno di non riuscire a prendere ferie
– il che
probabilmente poteva avvenire verso il periodo di Natale. Del 2024
–, non
sarebbe mai riuscito a trovarla sul posto di lavoro.
Ruppe
ogni indugio chiamando Fabrizio,
suo migliore amico, nonché ex compagno di
università, che ora lavorava in una
delle banche più importanti a livello nazionale.
-
Posso parlare con il dottor Grella?
Sono suo fratello. – Sperava ardentemente di trovarlo subito
e concludere il
losco affare nel minor tempo possibile.
-
Stamattina quando sono uscito di casa
avevo una sorella, Gaia. Che è successo nel frattempo?
-
Sono diventato Gaio, Fabri. Ti ricordi
che mi devi un favore?
Se
l’era inventato di sana pianta, ma
era certo di riuscire ad inventare qualche balla plausibile su due
piedi.
-
No.
-
In quinta elementare ti ho lasciato
campo libero con Elisa. – esclamò sicuro di
sé. Gli sembrava di avere una
ragazza carina in classe con loro, l’unica di cui ricordasse
il nome, e a lui
piaceva, doveva sperare che anche l’amico le facesse il filo.
-
Elena – lo corresse.
-
Allora vedi che te ricordi?
-
Mi ricordo che mi hai dato un pugno
per lei. Che vuoi? – tagliò corto
l’altro.
Era
quello il bello di Fabri: non
portava rancore, dopo vent’anni aveva dimenticato tutto.
Più o meno.
-
Voglio che tu metta da parte per due
minuti la tua etica d’integerrimo operatore bancario e aiuti
il tuo migliore
amico preferito.
Azzurra
aveva assistito inerme al lento
declino della cena da lei organizzata.
Fino
agli aperitivi era andato tutto
pressoché bene: sembravano una piccola e imbarazzata
famiglia qualunque. Sergio
era ormai sulla sessantina e Dalila non gli era anagraficamente molto
distante,
nonostante fosse ancora una bella donna, con una fulgida chioma ramata
e un
fisico slanciato. Se ne stavano tutti e tre con lo sguardo basso a
mangiare
tartine e bruschette nel silenzio più totale. Azzurra aveva
tentato in ogni
modo possibile di avviare una conversazione; parlava di gossip con lei
o di
lavoro con lui, ma non riusciva a coinvolgere entrambi in un discorso
che
esulasse dal commentare il tempo incerto di quell’ottobre
soleggiato.
Forse
sul serio quei due avevano
esaurito le cose da dirsi e quel procrastinare di continuo il momento
d’intraprendere sentieri diversi – dovuto
soprattutto alla cocciutaggine di
Azzurra e ai suoi disperati tentativi di farli vivere per sempre felici
e
contenti – stava finendo col renderli l’esatto
opposto.
-
Dalila, vuoi ancora dei crostini?
Le
offriva del pane, ma in realtà è come
se le stesse chiedendo se voleva stare ancora con Sergio.
-
Ti ringrazio, cara, sono a posto così.
Perché
non voleva quei dannati crostini?
Erano già vecchi, chi pensava li avrebbe presi il giorno, il
mese, l’anno dopo?
Ormai si era impegnata a venire a cena, il minimo che potesse fare era
mangiarseli, e che cavolo!
Le
crespelle erano venute troppo dolci,
Azzurra non escludeva l’ipotesi di aver confuso il sale con
lo zucchero nella
preparazione. Era troppo agitata all’idea di doverle lanciare
in aria a mo’ di
frittata per curarsi di sottigliezze simili. Al massimo ne aveva fatte
alcune
di scorta e nell’armadietto c’era un barattolo di
nutella; le avrebbe spacciate
per crêpes e problema risolto.
-
Sergio, ne gradisci un’altra?
-
Lo sai che sono a dieta, tesoro.
I
bottoni della camicia all’altezza
della pancia sul punto di esplodere sembravano suggerire che fosse
all’ingrasso
come un maialino d’allevamento, ma la padrona di casa
apprezzò lo sforzo
creativo della risposta.
Purtroppo
non c’era stata occasione di
provare l’efficacia della lonza al latte. Dalila, che
lavorava all’ospedale
principale della città, era stata chiamata
d’urgenza per l’assenza di un
collega, vanificando di fatto il piano di Azzurra di stimolare il suo
istinto
materno. Certo ormai ci si metteva pure l’orologio biologico
a remare contro il
geniale progetto di fare un bambino, ma a quel punto pure un porcellino
d’India, una cavia peruviana, ma anche un cagnolino del
canile comunale sarebbero
andati bene.
-
Sono terribilmente dispiaciuta di
dover andare via così presto, ma purtroppo il lavoro mi
chiama. Grazie della
cena, era tutto buonissimo. Ci sentiamo!
Dalila
aveva radunato giacca e borsa e
se n’era andata in modo talmente celere che gli altri due
erano rimasti
spiazzati. Qualcuno avrebbe potuto benissimo dire che stesse scappando.
-
Azzurra? – Sergio la invitò ad alzare
lo sguardo mortificato dal piatto – Dobbiamo parlare.
-
Sì, ho quasi terminato la prima bozza
per la ristrutturazione della villa del 1700…
De
Carlis le sorrise bonario: quella
ragazza era una testa dura e proprio la sua testardaggine era uno dei
motivi
principali per cui l’aveva assunta. E per cui desiderava
licenziarla quasi ogni
giorno.
-
Non intendevo discutere di lavoro e tu
lo sai. Stai evitando questo discorso da settimane, se non mesi,
perciò ora te
lo dirò e tu dovrai accettare la cosa nello stesso modo in
cui lo abbiamo fatto
io e Daly: ci stiamo separando.
-
Forse è solo la crisi del settimo
anno.
-
Abbiamo già chiesto una consulenza
legale. – Gli dispiaceva smontare le teorie astruse della
collega, ma la
conosceva da quando a vent’anni aveva cominciato un tirocinio
nel suo studio e
sapeva che avrebbe cercato di dare un nome improbabile anche al
problema sorto
tra lui e la moglie: carestia affettiva, siccità emozionale
o qualcosa di
simile.
-
Guardare The Good Wife non
è chiedere una consulenza legale, Sergio.
Julianna
Margulies a volte aveva il
potere di confonderlo.
-
Un avvocato vero… stavolta.
Azzurra
sospirò, colma di malinconia:
perché, tra i milioni di coppie al mondo, proprio loro
dovevano lasciarsi?
Perché non Brad e Angelina? Dalila era centomila volte
più simpatica di lei e
Sergio era più… più…
più ingegnere di
lui!
-
Non voglio che vi lasciate. – mugolò
afflitta.
-
Lo so, – le rispose comprensivo – però
devi sapere che non stiamo rinnegando quel che c’è
stato tra noi, né stiamo
incolpando te per averci fatto incontrare; anzi, ti siamo grati per
quello. Solo
non ce la sentiamo più di vivere insieme e siamo abbastanza
maturi da
ammetterlo.
-
Stai insinuando che io non sia matura?
Non
ci pensò neanche un secondo.
-
Sì, decisamente.
-
Mi offendi! – come se fosse stata la
prima volta che qualcuno le dava dell’acerba.
-
Sei tu che offendi la tua
intelligenza, continuando ad incolparti per qualcosa che non dipende da
te. I
matrimoni finiscono, Azzurra! È la vita.
Il
grissino che aveva in mano la ragazza
venne ridotto in migliaia di briciole nervose.
-
Ma io voglio che voi stiate insieme. –
s’impuntò, confermando le tesi del capo
– Siete i miei Lancillotto e Ginevra…
senza la parte in cui lei viene condannata a morte, tu ammazzi
metà Tavola
Rotonda e finisci solo e sfigato come un eremita. Oddio, potresti
diventare
così!
Ed
ecco la vena melodrammatica
impossessarsi di lei e fare spalancare gli occhi a lui, intendo a
pronunciare
scongiuri.
-
Grazie.
Azzurra
tentò un ultimo, disperato
attacco: magari sarebbe riuscito a convincerlo con la forza della
disperazione.
-
Torna con lei.
-
Si può sapere che diavolo di ansia da
separazione di affligge? – s’alterò lui,
pur sapendo che alzare la voce con lei
non avrebbe cambiato le carte in tavola. Era troppo ostinata.
– Non cambia
nulla nel rapporto con te, ci saremo entrambi ogni volta che vorrai.
Saremo
sempre il tuo abbozzo d’ingegneria sentimentale, come dici
tu.
-
Era capolavoro! – lo
corresse lei, ma il sorriso di Sergio fu
eloquente.
-
Beh, è palese che tu debba
perfezionare le tue tecniche. Però sei sulla buona strada.
– poi, decise a sua
volta di congedarsi. – Sono stanco, vado a casa, grazie della
cena.
Viale
della Quercia, 27.
Achille
controllò un’ultima volta
l’appunto che aveva preso mentre Fabrizio gli dettava
sottovoce al telefono e
il navigatore sul cellulare. Pareva proprio che fosse arrivato a
destinazione.
Un condominio carino, appena fuori dal centro, pitturato di un
eccentrico
arancione acceso e circondato da un piccolo giardino curato. Il
cancellino era
aperto, per fortuna, dava l’impressione di non venire mai
chiuso.
Cacciò
cellulare e foglietto in tasca,
prese il pacchetto regalo che aveva confezionato alla bell’e
meglio – dopotutto
lavorava in banca, la creatività non era di certo il suo
punto forte – e si
avviò verso il breve vialetto piastrellato che conduceva
nell’atrio del
palazzo.
Due
fidanzatini stavano amabilmente
mangiandosi la faccia a vicenda in un bacio dall’alto tasso
di coinvolgimento
emotivo, proprio sulla porta.
-
Ehm, scusate?
Lo
ignorarono completamente. Achille
cercò di aggirare l’ostacolo, ma le mani del
ragazzo, salde come artigli sul
fondoschiena di lei, gli ostruivano il passaggio da entrambe le parti.
Provò ad
appiattirsi contro il cardine, cercando di passare di profilo con le
braccia
che reggevano il pacchetto sopra la testa: tentativo vano. Alla fine li
abbracciò entrambi, li spostò in blocco verso il
muro laterale e i due non
diedero cenno di accorgersene, continuando ad ispezionare
l’uno la bocca
dell’altro.
-
Ecco qua. Proseguite pure con… il
soffocamento reciproco.
Con
la via d’accesso alle scale
finalmente libera, l’unico problema da risolvere per trovare
Azzurra era
scoprire il suo interno. I piani erano solo cinque, perciò,
al di là un po’ di
sano esercizio fisico, lo sforzo non doveva essere troppo impegnativo.
Ogni
pianerottolo aveva due
appartamenti, separati da un paio di gradini. Achille non
trovò il cognome Trentini
sul campanello fino all’ultima
rampa in cima al condominio, dove c’era una sola porta
cromata di rosso, la
mansarda presumibilmente. L’occhio gli cadde sullo zerbino;
era un semicerchio
marroncino con la scritta tutt’altro che simpatica: You again? Era di sicuro la casa giusta.
Tentennò
qualche istante prima di
suonare, chissà cos’avrebbe pensato lei
trovandoselo davanti al suo
appartamento, di sera, quando era in pratica uno sconosciuto. Pazienza,
ormai
aveva attraversato la città per cercarla e, conoscendo il
soggetto, era in
grado di saltargli al collo o per ammazzarlo o per la contentezza di
vederlo.
Azzurra,
all’interno dell’appartamento,
si alzò meccanicamente dal divano, singhiozzando come una
bambina. Che fosse
Sergio a suonare il campanello per dirle che stava scherzando prima? Il
lumicino della speranza si spense non appena aprì la porta e
si trovò davanti
il riccio ladro del supermercato.
-
Che ci fa lei qui? – lo aggredì subito
– È-è uno stalker? Guardi che sono
armata, stia indietro! – Nel frattempo aveva
tastato con la mano destra il mobiletto dell’ingresso, alla
ricerca di qualcosa
di appuntito o almeno di pesante da usare come arma di difesa contro
l’intruso.
L’unica cosa che era riuscita a racimolare, però,
era un blocchetto di post-it
a forma di mela. – Le… incollo gli occhi insieme,
se non si allontana!
-
Cosa? Si calmi, Azzurra, – replicò
lui, appoggiando il pacco regalo per terra e facendole cenno con le
mani di
rilassarsi – non sono uno stalker, sono Achille, del
supermercato… ricorda?
La
ragazza lo fissò incredula.
-
Mi ha preso per rimbambita? So chi è
lei. Ma cos’è venuto a fare a casa mia? E chi le
ha dato l’indirizzo? – Stava
per dire qualcos’altro, poi parve ripensarci. Si
avvicinò a lui e gli domandò
sottovoce: –
Non sono stata io, vero?
-
No, è una lunga storia. – Veramente
era corta, ma raccontare di aver chiamato un suo amico in
un’altra banca,
pregato perché infrangesse una ventina di norme sulla
privacy cercando il suo
nome tra i clienti e implorato che gli comunicasse la via della sua
abitazione…
beh, lo avrebbe etichettato senza dubbio come maniaco – Si
sente bene?
-
Perché non dovrei? – Stava riprendendo
a frignare e due grosse lacrime le stavamo scendendo sulle guance
arrossate.
Achille
la osservò meglio: era un
disastro piagnucolante e nemmeno il vestito floreale sopra il ginocchio
che le
lasciava intravedere la forma del seno migliorava di molto la
situazione.
-
H-ha il mascara tutto colato, i
capelli arruffati, gli occhi gonfi… –
S’irrigidì subito dopo averlo detto, poteva
aver azzardato troppo; la sua ex gli aveva mollato dei ceffoni anche
per molto
meno.
-
Sta cercando di dirmi che sono un
cesso? – Lei stava urlando, ma almeno la faccia era salva.
Anche
se poteva sembrare il contrario,
in realtà la trovava… carina, tenera quantomeno,
così fragile da desiderare di
abbracciarla come un peluche gigante, di quelli belli ciccioni, o come
un
cucciolo bavoso.
-
Assolutamente! La trovo molto… – come
trovare la giusta parola per non mortificarla? – emotiva.
-
Ritenti.
-
Umana?
-
Può fare di meglio.
-
Graziosa.
Finalmente
Azzurra sorrise soddisfatta.
-
Adoro la sua spontaneità. – Achille si
unì a lei in un’espressione gaudente. Forse era
riuscito nell’intento di farla
calmare e dimenticare il suo rocambolesco arrivo. – Mi dice
che c’è venuto a
fare qua?
O
forse no.
-
Volevo scusarmi per oggi, mi sono
comportato come un ragazzino e ho infranto il patto che avevo siglato
con lei.
Lei
lo guardò un po’ scettica, ma le si
leggeva in faccia che non avrebbe retto il broncio a lungo. Certo il
Pelide
aveva osato – e parecchio! –, però in
fondo era stato un gesto cortese, carino,
dolce, sensibile… potenzialmente maniacale e omicida, ma
suvvia, nessuno è
perfetto.
-
Il ratto del Fluffy, eh?
-
Sono desolato.
Lei
ci pensò un attimo, poi decise di
fargli una domanda che avrebbe potuto migliorare la situazione
disastrosa di
lui ai suoi occhi.
-
È arrivato tardi a lavoro?
-
Tre minuti e tredici secondi.
Ancora
una domanda e si sarebbe sentita
meglio. Nel caso di risposta affermativa, naturalmente.
-
L’hanno sgridata?
-
Strigliato come un bimbo dell’asilo. –
Azzurra si concesse una breve Macarena
mentale per celebrare la piccola rivincita, ma ad Achille non
sfuggì il
sorrisino malefico sulle sue labbra. – Sta festeggiando
internamente?
-
Può essere… – rispose lei vaga,
conscia di essere stata beccata in flagrante.
-
Ha finito?
-
Ancora un attimo, devo terminare di
agitare il sedere. Ecco, ci siamo. – Tamburellò
nervosamente le dita sul
battente della porta; la proposta che aveva in mente andava contro
tutti i
principi del suo senso. Non di certo quelli che le aveva insegnato sua
madre:
una tizia scappata al proprio matrimonio con un lontano parente del
marito, aveva
perso ogni diritto di fare la morale alla figlia in fatto di relazioni
– Bene,
se mi promette che non mi ucciderà, la invito ad accomodarsi.
Ecco,
l’aveva detto: o aveva appena
firmato la propria condanna a morte o poteva essersi invischiata in
qualcosa di
più pericolosamente piacevole.
-
Cercherò di fare del mio meglio.
Azzurra
si scostò dalla porta,
spalancandola e lasciandogli lo spazio necessario per entrare. Achille
si
abbassò a recuperare il pacco che aveva appoggiato sullo
zerbino e fece
ingresso nell’appartamento. Si prese del tempo per osservarne
le
caratteristiche: il colore dominante sulle pareti era il tortora, i
mobili
erano tutti sulla tonalità del bianco, i quadri
raffiguravano le più grandi città
del mondo. Sopra il caminetto, una piccola libreria conteneva grossi
volumi di
storia dell’architettura e dei dvd meticolosamente sistemati
in ordine cromatico.
-
Se ha finito la radiografia, posso
chiederle cosa c’è nel pacchetto?
Il
ragazzo si accomodò sul divano e le
porse il regalo.
-
Non sono solito presentarmi a casa di
sconosciute incontrate una volta al supermercato a mani vuote. Lo apra,
coraggio.
Lei
lo afferrò tra le proprie mani,
timorosa, sedendosi accanto a lui. La carta che avvolgeva il dono era
da pacchi
e l’orrendo fiocchetto striminzito era di rafia bluette. Non
capì se il colore fosse
un omaggio a lei o una semplice coincidenza, ma gli concesse qualche
punto
extra; se non per merito, erano un bonus per il fattore c.
Tolse
il l’involucro e scrutò attentamente
il contenuto.
-
Fluffy!
– Un nuovo flacone di detersivo arancione era sistemato in
una scatola
rettangolare – Non è brezza marina,
però.
-
È pesca e albicocca, per onorare la
memoria delle cadute nella giornata di oggi. Come si dice in questi
casi, il
loro sacrificio non è stato vano.
Azzurra
si portò teatralmente la mano
destra sul cuore.
-
Lei tocca le corde più profonde del
mio essere. – Doveva riconoscere che Achille aveva trovato un
modo gentile per
ricordare le defunte. Che lui aveva ucciso.
-
Dalila e consorte se ne sono andati
prima? – Cambiò argomento lui
d’improvviso.
-
L’hanno chiamata per sostituire un
collega malato in ospedale e Sergio è rimasto solo per
confermarmi che sono già
andati dall’avvocato e che stanno procedendo con le pratiche
per la
separazione. Sono scoppiata in lacrime, lui ha detto che il loro
affetto per me
rimarrà immutato, che non mi costringeranno a scegliere uno
o l’altro; mentre
usciva ha addirittura promesso che proverà ad assumere
l’architetto gnocco di
cui ero innamorata lunedì scorso. Un chiaro tentativo di
comprare il mio
affetto.
-
Allora si aspetti la contromossa di
Dalila.
-
Al massimo mi darà un buono per una
visita ginecologica.
Il
ragazzo si pietrificò; da degno
esemplare della fauna maschile, i discorsi su organi genitali
femminili,
mestruazioni, assorbenti e affini erano un campo minato. Tuttavia, le
tette lo
interessavano. Comunque, meglio limitarsi ad annuire e cambiare la
rotta della
conversazione. Per sua fortuna, Azzurra parve capire il suo imbarazzo e
si
alzò, raggiunse la cucina a vista, trafficando negli
armadietti per cercare due
bicchieri e la bottiglia di moscato dei De Carlis che non avevano avuto
occasione di bere.
-
Almeno le tornerà utile. – la voce di
lui le giunse dall’altra parte della sala. – Quindi
l’arrosto non ha
funzionato.
Appoggiò
i calici sul tavolino davanti
al divano e si diresse verso il frigorifero.
-
Ha scelto una lonza guasta,
evidentemente. Gradisce del tiramisù?
-
È un tentativo di sedurmi? – Si erano
entrambi rilassati e si stavano ora godendo il divertimento del botta e
risposta tra loro. – Non la facevo così sfacciata.
-
Disse quello che si era presentato
sulla porta di una sconosciuta alle dieci di sera. – Non
aspettò risposta e
posò tiramisù, piattini e posate accanto a
bicchieri e vino. Achille aprì il
moscato e ne versò un po’ per entrambi, mentre
Azzurra si assentava un attimo
per andare in bagno. – Si serva pure, io vedo di sistemare
questo pasticcio che
mi rende… com’era? Ah, sì, emotiva, umana
e graziosa.
Lui
immaginò di vederla sorridere,
mentre era intenta a lavare via dal viso lacrime e trucco colato. Nel
frattempo, prese un cucchiaio e la teglia del tiramisù,
mangiando direttamente
da quella. Adorava i dolci, erano l’unica vera tentazione a
cui non riuscisse
mai a dire di no e doveva ammettere che quello di Azzurra era molto
buono. Di
pasticceria, non aveva dubbi.
Lei
ritornò nel salone giusto in tempo
per ammirarlo divorare la terza fila di savoiardi. Senza piattino,
senza aver prima
frazionato il dessert in quadrati di quattro centimetri per quattro e
di certo
senza alcuna dignità! Sembrava un sopravvissuto ad una
carestia secolare, si
ficcava in bocca un boccone dietro l’altro, procedendo ora
dritto, ora in
diagonale nella pirofila.
-
Vedo che ci tiene alla linea.
Non
a quella geometrica, però,
pensò criticamente con deformazione professionale.
-
Fcufi,–
farfugliò lui, mandando giù l’ultima
cucchiaiata – perdo la mia grazia quando
ho davanti un dolce.
-
La stessa grazia con cui mi ha
investito con il carrello e ha rubato il
Fluffy?
Achille
roteò gli occhi con finto fare
annoiato, poi prese in mano la teglia col tiramisù e la
mostrò meglio ad
Azzurra.
-
Si sforza così tanto di ricordare, e
di ricordarmi, le mie presunte malefatte che non apprezza nemmeno i
gesti
carini che faccio per lei, architetto.
– Lo sguardo della ragazza si soffermò sul dolce:
il tiramisù rimanente aveva
la forma approssimativa di una piccola casetta con il comignolo sul
tetto. –
Fosse arrivata qualche secondo prima, avrebbe trovato anche una bella
nuvoletta
di fumo.
Azzurra
prese un cucchiaino, lo
capovolse e tracciò con esso una riga per ridurre le
dimensioni della
costruzione stentata di Achille, allontanando l’eccesso.
-
Non mi sarei mai potuta permettere
un’altra casa così grande –
spiegò. Poi prese i due bicchieri di moscato e ne
porse uno a lui.
-
Io le avrei fatto un mutuo senza
problemi. – Le sorrise, poi bevve un lungo sorso di vino
– Bastava solo che
venisse da me.
Nel
tentativo di metterla a proprio
agio, senza più dubbi su di lui, stava correndo il rischio
di agitare le acque ancora
di più, trascinandola con sé a danzare sulla
sottile lama del flirt. Lei non
era così sprovveduta da non conoscere il pericolo a cui
andava incontro, ma
quel giorno si sentiva abbastanza intrepida da sfidare la sorte e le
intenzioni
di Achille.
-
E darle l’occasione di fare l’eroe? –
fece una smorfia che indicava che non era propensa a fare una tale
concessione.
-
Sono un uomo, è il mio sogno diventare
l’eroe di una donzella in difficoltà.
-
Scommetto che la calzamaglia le sta un
amore – lo canzonò.
Il
ragazzo si fece serio e gonfiò il
petto come un tacchino ripieno.
-
Diciamo solo che qualcuna mi ha
paragonato a Roberto Bolle. – esagerò –
Dopotutto, non dimentichiamoci che sono
un semidio.
Azzurra
raccolse in parte quell’ardito
pavoneggiarsi del suo inaspettato ospite.
-
E io una tinta pastello. Ciò dovrebbe
farla riflettere: il nome spesso non rispecchia il carattere.
Achille
riempì un altro cucchiaio di
tiramisù e lo sbafò senza ritegno, sotto lo
sguardo allibito della ragazza, che
non si capacitava di come fosse riuscito a spazzolare praticamente
metà teglia
di dolce e ancora avesse la forza d’ingurgitarne
dell’altro.
-
Sta forse insinuando che io non avrei
le sembianze o la forza del mio omonimo?
-
Per verificare dovrei farle togliere
una scarpa e colpirla al tallone, ma non sono certa di essere pronta ad
affrontare un tale stato d’intimità da vederle i
piedi nudi.
-
Fredda e algida come un polaretto: –
commentò – il suo nome le calza a pennello.
Lei
sfoggiò un'altra di quelle
espressioni da maestrina che lui aveva conosciuto al supermercato,
quando si
era tanto applicata per istruirlo tra gli scaffali stracolmi e i pochi
clienti
dell’ora di pranzo.
-
In realtà, il significato è che
ha il colore del cielo sereno – gli
spiegò. Era una di quelle cose che sua madre amava ripeterle
da bambina, ogni
singola volta che lei le chiedeva per quale motivo l’avessero
chiamata come un
colore. Perfino Giampaolo, il gatto persiano di suo padre, aveva un
nome più
normale del suo. E c’era da domandarsi se ci fosse qualche
collegamento tra la
razza del gatto e l’origine altrettanto persiana di Azvard, da cui Azzurra.
-
Se controlla bene ci troverà anche la
specificazione d’inverno, in
Siberia, a
-50°C. – la prese in giro, notando quanto
le risultasse facile irrigidirsi
in sua presenza – Temo che la casa di tiramisù non
contribuirà a sciogliere il
suo cuore gelido.
-
Nemmeno la rata del mutuo che mi vuole
fare accendere.
-
Sono un eroe, non un messia: – sospirò
– faccio mutui, non miracoli.
-
E allora ho paura che il suo aiuto mi
sarà del tutto inutile.
-
Come vuole, però mi sembra giusto
dirle che nessuna si è mai lamentata.
-
Nessuna?
– ripeté lei – Significa che
è stato l’eroe di parecchie donzelle in
difficoltà.
-
È gelosa?
Il
sorriso malizioso di Achille la fece
vacillare, ma non voleva in alcun modo concedergli il vantaggio di
capire come non
le fosse indifferente.
-
Pensavo solo che gli eroi fossero personali,
– esclamò quasi delusa – non credevo di
doverne prendere uno riciclato.
-
Ehi, – la bloccò lui – piano con le
parole! Con le altre ho fatto soltanto pratica, per migliorare.
Azzurra
si alzò, si versò dell’altro
vino e tornò accanto a lui sul divano, portandosi entrambi i
piedi scalzi sotto
il sedere.
-
Sono curiosa di sapere se queste
tecniche di seduzione funzionano.
Pareva
divertirsi un mondo a propinarle
battutine sciocche su relazioni con altre donne, presunte e reali.
-
Qualche volta, ma non creda che siamo
solo noi uomini a tentare l’abbordaggio. Oggi, ad esempio,
una tizia ha tentato
di rimorchiarmi spudoratamente al supermercato con la scusa
d’insegnarmi a
scegliere il sugo.
-
Non era affatto una scusa! – appoggiò
il bicchiere sul tavolo, difendendosi dalla folle accusa che lui le
stava molto
poco velatamente muovendo.
-
Vero, mi perdoni, – si scusò lui – era
una tecnica. Dello sguizzo, ad essere precisi, o almeno è
quello che mi ha
detto lei. Non aveva un aspetto raccomandabile.
-
Troppo emotiva, umana e graziosa
per sembrare rispettabile?
Achille
ignorò deliberatamente la
frecciatina e continuò con la sua dettagliata descrizione
dell’incontro al
supermercato. Dal suo punto di vista, ovvio.
-
Si è inventata di tutto pur di non
smettere di parlare con me, avrebbe dovuto vederla.
-
Sbaglio o è stato lei ad avvicinarsi
per aiutarmi con la lonza?
-
Sono un gentiluomo, mi ha circuito e
si è approfittata di me.
-
Infatti la vedo davvero provato –
scherzò lei.
Lui
si mise entrambe le mani sul petto e
da perfetto attore consumato, recitò la sua battuta colma di
dolore.
-
Solo perché non riesce a vedere le
ferite interne.
Azzurra
si trovò su un piatto d’argento
la ghiottissima occasione di terminare il gioco verbale tra i due e
farlo
volgere in qualcosa di più interessante. Achille, comunque,
auspicava che si
rimanesse in ambito linguistico.
-
Questa ragazza l’ha proprio segnata,
nonostante la conosca da meno di ventiquattr’ore…
Lui
mangiò la foglia, il ramo e pure la
pianta.
-
E pensi che abbiamo già litigato un
paio di volte, fatto pace, fatto la spesa insieme, mangiato sul divano,
io l’ho
già rincorsa fino a casa e fatto il cretino per farla ridere.
Azzurra,
per un riflesso condizionato,
gli sorrise complice. Sì, era proprio un cretino, ma lei lo
era ancora di più a
barcollare emotivamente per le idiozie che lui le stava rifilando.
Perfetto,
il tontolone la stava
intontendo.
Lei
lo guardava con occhi indecisi, lui
non la sapeva decifrare. Non solo il suo sguardo, non sapeva decifrare
lei tutta. Il silenzio che regnava
in quel
momento, ad esempio, che significava? Un tacito assenso a realizzare
quello che
lui aveva in mente o semplice imbarazzo e ritrosia a dirgli di
andarsene per
mera educazione?
O
forse era questione di palle.
Dai,
cazzo, ti chiami Achille!
Sull’onda
emotiva provocata dal ricordo
di antichi eroi omerici, il riccio si spostò di qualche
centimetro sul divano,
sporgendosi verso di lei. Azzurra non si mosse, lasciò che
lui si avvicinasse
al suo viso e strofinasse la punta del naso prima contro la sua
guancia, poi
contro il suo, di naso. Non riuscì ad impedire a se stessa
di respirare
rumorosamente, chiuse solo gli occhi, mentre lui cominciava a baciarle
leggero
la fronte, le palpebre, per poi scendere sulle gote accaldate e infine
sulla
bocca. Achille socchiuse appena le labbra per sfiorare le sue, con
lentezza,
non voleva affrettare le cose e rischiare di spaventarla, anche se una
parte di
lui premeva perché accelerasse. E avrebbe premuto parecchio
entro poco, sulla
zip dei pantaloni in particolare.
Decise
di osare di più, lei sembrava abbastanza
rilassata da permettergli di approfondire il contatto. Le mise una mano
sul
fianco ed una sulla schiena per spingerla più vicino a
sé e… se fosse scappata
qualche strusciatina di certo non si sarebbe lamentato.
Ma
Azzurra scattò in piedi con la velocità
di una saetta e l’espressione indignata.
-
Sta cercando di approfittarsi di me? –
lo accusò ad alta voce.
Il
ragazzo la fissò incredulo, la sua
bi-tri-tetrapolarità cominciava davvero ad alterarlo. Prima
si era goduta le
moine, poi ora se ne stava con l’indice puntato verso di lui
ad attribuirgli
false imputazioni.
-
No, i-io credevo che…
Fabrizio
avrebbe potuto tranquillamente
potuto definirla una figura di merda. E non solo Fabrizio. Non
ricordava di
essere mai stato respinto in quel modo da una donna. Gli sembrava un
po’ di
capire ora come si era sentito il buon vecchio Pelide originale quando
lo
avevano colpito al tallone destro, il famoso tallone
di Achille. Solo che, a giudicare da quanto gli bruciava la
ferita nell’orgoglio, gli pareva di essere stato colpito in
un’altra parte
anatomica.
-
Lei credeva che cosa? – continuò
Azzurra – Che bastassero due battutine del cavolo per farmi
cadere ai suoi
piedi? Pensava di riuscire a portarmi a letto?
-
No, certo che no.
D’accordo
che era un uomo e che aveva i
suoi bisogni fisiologici, ma non era pervertito al punto da voler
concludere la
prima sera. Almeno, non era così ottimista.
-
Ne è sicuro? Perché a me è parso
proprio il contrario – continuò imperterrita lei.
-
Stavamo solo parlando! – si difese –
Le assicuro che non l’avrei mai spinta a fare nulla che non
avesse voluto.
-
Oh, bene. Devo anche ringraziarla per
questo?
Achille
stava per gettare la spugna:
cercare di avere una normale conversazione con Azzurra era come cercare
di
ottenere un alano dall’accoppiamento di due babbuini.
-
Lei fraintende sempre quello che dico.
-
Ah, io fraintendo? Quindi
è colpa mia.
-
Santo cielo! – gridò lui esasperato –
Senta, faccia finta che non sia mai venuto qua. D’accordo?
Ora io me ne vado,
lei si rimette sul divano a mangiare il suo tiramisù, poi si
fa una bella
dormita e si dimentica di questa giornata assurda.
Mentre
parlava, si era alzato per
recuperare la giacca sullo schienale del divano e se l’era
infilata convulsamente;
d’improvviso non vedeva l’ora di levare le tende,
ne aveva abbastanza di
tentare di essere carino e gentile con una pazza furiosa che travisava
ogni
singola parola o gesto.
-
Ora vuole pure dirmi cosa devo fare? –
Gracchiò Azzurra, frugando nella propria borsa, alla ricerca
di chissà che
cosa: spray al peperoncino, la Sacra Bibbia, il cadavere di un cervo
mummificato, davvero non gli interessava.
Prese
la direzione dell’ingresso, per
uscire da quella porta e tornare nella civiltà, in mezzo a
gente normale, con
personalità normali e non da manicomio.
-
Addio, Azzurra. Buona vita – le augurò,
senza cercare di stringerle la mano, perché la
possibilità che lei lo accusasse
di molestie sessuali non sembrava totalmente remota.
Lei
però gli sorrise amabile, gl’infilò
nel taschino della giacca un foglietto rettangolare e si
piazzò davanti a lui.
Si guardarono per una decina di secondi, Achille sempre più
confuso, Azzurra
con le idee sempre più chiare.
Gli
sorrise, gli mise una mano dietro la
nuca e lo attirò a sé, baciandogli le labbra. Lui
rimase pietrificato e disorientato,
l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era trovarsi da un
momento all’altro la
bocca di lei sulla sua. Non mosse nemmeno un muscolo, lei avrebbe
potuto
saltargli addosso e strappargli i vestiti di dosso o tirargli un pugno
nello
stomaco e piegarlo in due dal dolore.
Invece,
Azzurra si limitò a staccarsi da
lui e a guardarlo con aria critica.
-
Mh. Piuttosto scarso come semidio. – Poi
aggiunse sottovoce: – Buona notte, Achille. Chiamami domani.
Gli
sbatté letteralmente la porta in
faccia. Una faccia piuttosto sorpresa, a dire la verità.
Cos’era appena
successo?
Il
ragazzo trasse dal taschino il
piccolo cartoncino che lei gli aveva dato un attimo prima di decidere
di
baciarlo; era il suo biglietto da visita, con il numero
dell’ufficio e il
cellulare sul retro. Dunque lei voleva che lui le
telefonasse…
L’aveva
fregato alla grande, la sua era
solo una commedia. Prima l’aveva assecondato, poi respinto,
poi rimproverato,
poi quasi cacciato di casa, poi baciato… e cacciato
definitivamente di casa.
E
lui si era esaltato, depresso,
arrabbiato, infuriato e… incuriosito.
Quell’andamento incostante lo irritava e
attraeva allo stesso tempo. Ma non poteva lasciare ad Azzurra tutto
quell’ascendente. In più, da buon cavernicolo
– o eroe greco, il concetto era lo
stesso – non voleva che fosse lei a condurre i giochi.
Senza
pensarci due volte, prese a
battere le nocche furiosamente sulla porta rossa.
-
Azzurra, mi spiace rovinare il tuo
momento di gloria, purtroppo ho dimenticato le chiavi!
Un
attimo di esitazione, poi gli
rispose.
-
Dove sono? – gli urlò dall’interno.
-
Ehm… incastrate nel divano, per terra,
non lo so! – mentì – Apri, per favore.
Si
sentirono dei passi veloci
raggiungere l’uscio. La ragazza venne ad aprire annoiata,
ispezionando il pavimento
per individuare il fantomatico mazzo di chiavi perduto. Era
visibilmente
scocciata, non per la supposta sbadataggine di lui, ma piuttosto
perché in
quella giornata le sue amate uscite di scena ad effetto non parevano
fungere
come da copione: la macchina che si spegneva, il Pelide che bussava per
rientrare… Achille
bloccò il flusso dei
suoi pensieri quando la prese per il busto, la spinse contro la porta e
la
baciò. Stavolta niente buffetti o carezze, lasciò
che la frustrazione di poco
prima e la soddisfazione di zittirla agisse per lui. Le socchiuse
facilmente le
labbra, mordicchiandole piano con i denti e stuzzicandole con la
lingua, che poco
dopo le invase la bocca. La torturò per mezzo minuto, il
tempo di annebbiarle i
sensi e sentire i muscoli di lei rilassarsi sotto le sue mani. Quindi
l’allontanò.
-
Che il disgelo abbia inizio. – disse,
ancora con il fiatone – ‘Notte Azzurra, ti chiamo
domani.
Uscì
sorridente dall’appartamento di via
della Quercia con rinnovato spirito: la virilità e la nomea
erano di nuovo al
sicuro.
Azzurra,
invece, rimase a fissare la
porta, con lo stomaco sottosopra. Aveva pensato che la sceneggiata di
poco
prima bastasse a confonderlo al punto da non farlo reagire almeno fino
al
giorno seguente. Al
contrario, lui non aveva
impiegato che una manciata di secondi ad elaborare una strategia per
riequilibrare una situazione sfavorevole.
Forse
Achille Quaresmini non era semidio
per discendenza, ma c’era qualcosa al di là
dell’umano nella sua tenacia.
A
lei toccava la prossima mossa: avrebbe
scoperto e trovato il suo punto debole, il celeberrimo tallone.
Perché, a
ripensarci meglio, non trovava più così
sconveniente vederlo a piedi nudi… sperando
che togliergli le scarpe fosse solo l’inizio.
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