Rapimento
La difficoltà nel capire Rea stava
nella sua tendenza a dire il contrario di ciò che voleva. Era triste perché le
avevi tolto di bocca l’ultimo pezzo di torta? “Non
importa, va bene così”. Era gelosa marcia perché le piacevi ma non voleva
dirtelo? “Fai come vuoi, non sei mica il mio
ragazzo”.
Fabio aveva capito ciò leggendo in
contemporanea il suo diario segreto e il suo romanzo.
“Emma e Laura
festeggeranno il trentuno con Jason e Johan, e io rimarrò in casa con mamma e papà. Non
importa, andrà comunque bene. Mi hanno invitato con loro, ma non me la sento di
fare il quinto incomodo e di aprire lo spumante a mezzanotte con loro che si
sbaciucchiano e io da una parte a bere da sola. E poi, l’ultimo ha sempre troppa
importanza: perché si deve festeggiare la fine? Al massimo festeggi l’inizio,
quindi il primo, inoltre a me le feste in questo giorno mi mettono malinconia.
Sì, decisamente è meglio se sto a casa con mamma e
papà… meglio…”
Questo è ciò che lei aveva scritto
nel diario. Ma nel suo romanzo si contraddiceva.
“L’anatroccolo
cerca di sorridere perché non si vuol far vedere triste, e cerca di farsi andare
bene anche ciò che non gli va. Nega che vuole qualcos’altro per semplice paura
di disturbare. Più di una volta, infatti, i suoi fratelli, bellissimi pulcini color oro, hanno chiesto se gli serviva
altro, ma lui negava perché non voleva assolutamente dare disturbo a qualcuno. O
far pesare a loro la fortuna che hanno nell’essere meravigliosi pulcini, mentre lui è solo un insignificante
anatroccolo”
Quindi adesso doveva trovare il
modo per portarla via di casa e farle festeggiare l’ultimo dell’anno.
“Potremmo chiedere a mamma e papà se la fanno uscire
comunque, e tu poi la vai a prendere alla finestra, fingendo che stia uscendo di
nascosto” suggerì Emma.
“A
lei piacciono queste cose romantiche” aggiunse Laura schifata.
“Mi
sembra complicato” rifletté Fabio.
“Tu hai detto che la vuoi far felice,
giusto? Per cui questo è il modo
migliore. Fino alle undici e mezzo sta a casa e poi tu
la rapisci e la porti via. Una volta mi ha detto che la festa
che preferisce è quella in cui un ragazzo la va a prendere a casa senza dirle
nulla e la porta chissà dove” ricordò la
mora.
“Devo,
però, trovare qualcosa di davvero speciale”
“Sono sicura che ce la farai. Sei un genio” lo rassicurò la bionda.
Lui sospirò, poi sorrise sperando
che avesse ragione.
La mattina del trentuno, dopo che
era stato pensato un piano ben specifico e dopo che le due sorelle Stevens erano
riuscite a rientrare in casa senza che Rea se ne rendesse conto, i genitori
delle ragazze furono messi al corrente del piano.
“Non
deve sapere niente, è troppo importante che tutto rimanga un segreto” si
raccomandarono.
“Ma
quindi l’idea è che noi verso le undici usciamo, lasciandola qui
sola…”
“E
Fabio verrà a prenderla poco dopo, portandola a festeggiare” concluse la
più alta.
“Mi sembra una bella idea, ma
perché non volete dirglielo?” chiese la madre.
“Perché rifiuterebbe. Mamma, te l’abbiamo già spiegato: la situazione è
complicata e Rea anche di più. Non possiamo fare le cose
semplici, purtroppo” sbuffò
Laura.
“Ok, ok, era solo una domanda” si
scusò la donna.
“Quindi siamo state chiare? Alle undici
fuori di casa”
“Siete
proprio belle” commentò la rossa, ammirando le sorelle. Era vagamente
invidiosa della loro autostima e del loro riuscire a mettersi i vestiti e a
truccarsi senza sentirsi… sbagliate.
“Perché non ti metti qualcosa di carino anche tu?”
propose Emma.
“E a che mi serve? Io
festeggio con mamma e papà e basta, quindi non serve che indossi roba troppo
particolare. Inoltre lo sai che non mi sento a mio agio
vestita da donna” rispose
sorridendo. Nelle ultime settimane si era costretta a
sorridere, sorridere sempre nonostante tutto.
“Come
vuoi. Se cambi idea, sai dove si trova la roba, giusto?”
“Sì,
tranquilla” annuì ridendo.
Suonarono il campanello due volte
nei cinque minuti successivi: prima arrivò Johan con un mazzo di rose per Laura,
che si gettò tra le sue braccia, seguito subito dopo da Jason, vestito con lo
smoking e la cravatta (la stessa, le parve, che aveva trovato in camera della
sorella la settimana prima).
“Allora noi andiamo. Ciao a tutti!” salutarono le ragazze, ognuna stretta al proprio
fidanzato. Dato che Emma non poteva andare troppo in giro
con Jason, avrebbero festeggiato nell’appartamento del professore, così che
nessuno li avrebbe visti.
Rea mantenne un sorriso cordiale
stampato sul volto fino a che non le vide svoltare l’angolo, poi una solitaria
lacrima le passò sul viso. “Mi sono
imposta di non stare più male. Non posso
continuare così, sempre a piangere. Devo riuscire ad essere
forte nonostante sia sola” si sgridò,
asciugandosi gli occhi.
Per superare quella piccola crisi,
si mise a cucinare con la madre. Non ne era capace e rovinò l’impasto della
torta tre volte, ma non importava: fare quello significava non avere tempo di
pensare e non avere tempo di pensare significava non stare male.
“Buon
appetito!” annunciò verso le otto ai genitori, che si guardavano
sorridendo da quel pomeriggio presto. Mancavano solo tre ore…
“Rea, tesoro, noi dobbiamo uscire”
le disse il padre alle undici. Lei, che era seduta sul divano a leggere un
libro, guardò l’orologio.
“Perché?” chiese tristemente.
“Ci hanno
chiamati i genitori di Johan per chiederci se avevamo voglia di festeggiare con
loro. Hanno detto che là ci sono tutti i loro amici e che stanno giocando
a carte. Ti vuoi unire?” le propose. La ragazza scosse
la testa.
“No, non
mi divertirei e sarei solo di peso” rispose, sorridendo.
L’uomo andò in camera e rise
sottovoce.
“Se avesse detto di sì saremmo
stati fregati” lo sgridò la moglie.
“La conosci
anche tu, non avrebbe mai risposto affermativamente. Lo
sai che non sopporta di stare con le persone più grandi” le ricordò, dandole
un bacio sulla guancia.
“Non importa, è
comunque stato un terno al lotto. Forza, muoviamoci a
uscire, altrimenti quello arriva e noi siamo ancora tra i piedi” lo
affrettò. Lui si mise la giacca, poi guardò preoccupato la donna.
“Non è che stanotte… da soli in
casa…”
“Che ti
importa? Ha diciotto anni, lo sa come funziona” lo
prese in giro lei.
“Ma è la mia
bambina! Non voglio uscire sapendo che uno scapestrato
la… la… non riesco nemmeno a dirlo!” esclamò.
“Shhh! Ma che urli? Vuoi che ti senta? Tu non te ne interessare, andiamo via” ordinò sua moglie,
spingendolo verso la porta.
“Ciao amore, ci vediamo più tardi”
la salutarono.
“Ciao,
divertitevi” ricambiò lei. “Da quando se ne
vanno conta un minuto” si impose. Tese l’orecchio e ascoltò la macchina
andarsene, poi contò fino a sessanta nella sua testa.
Alla fine, arrivata al
cinquantanovesimo secondo, lasciò andare il libro sulle gambe e si mise le mani
a coprire gli occhi.
“Sola” pensò, semplicemente.
Probabilmente si era addormentata.
Sentiva gli occhi gonfi e la testa pesante, ma c’era un rumore rimbombante che
non le permetteva di riposarsi per bene.
Alzò la testa dal cuscino del
divano: quanto tempo era passato? Che ore erano? Il nuovo anno era già
arrivato?
Si guardò intorno e il rumore si
fece più forte. “Ma che diavolo è?” si chiese.
Spaventata ma anche curiosa, si mise in piedi e andò in cucina. Sapeva che la
mamma teneva il mattarello nella credenza vicino ai piatti, quindi aprì il
mobile e lo prese. La prudenza non è mai troppa.
Si avvicinò al corridoio e chiuse
gli occhi, ascoltando il rumore. Sapeva per esperienza che, per cercare la fonte
di un suono, si dovevano eliminare tutti gli altri sensi possibili e poi
muoversi solo con le orecchie. Fece un passo in avanti, si fermò. Altri due
passi in avanti e ora uno sulla destra. Quando fu certa che la causa di quel
rimbombo era davanti a lei rimase a occhi chiusi e respirò. “ORA!” ordinò a sé stessa. Strinse il mattarello e
aprì gli occhi, fissando la finestra che aveva di fronte. L’utensile le cadde di
mano dalla sorpresa.
“TU?!” esclamò. Un sorridente Fabio le faceva cenno di
aprirgli per farlo entrare.
“Cosa
vuoi?” domandò sospettosa. Il ragazzo si mise a parlare, ma non si
sentiva niente, quindi spalancò le persiane e lo guardò.
“Che
diavolo ci fai a casa mia a quest’ora di notte?” lo aggredì, impedendogli
l’entrata.
“Prima di risponderti mi faresti venire
dentro? Ho piuttosto
freddo e sono qui da almeno venti minuti” la
implorò. Aveva le labbra livide e le mani tremavano, e Rea
fu impietosita. Si spostò e lo aiutò a scavalcare la finestra.
“Tu non
sei molto normale, lo sai?” lo accusò una volta che lo ebbe tirato
dentro.
“Sì,
direi che l’avevo capito sette o otto anni fa” ammise lui, togliendosi il
cappotto congelato e i guanti intirizziti.
“Buona
educazione vorrebbe che io ti offrissi una tazza di tè o una coperta calda, ma
tu mi sei appena entrato dalla finestra, per cui mi scuserai se sono un po’
sospettosa e non ti accolgo con gli onori dovuti” gli disse stizzita.
“Nessun
problema, ci penso io a scaldarmi mentre tu ti cambi” le assicurò.
“Mentre
io faccio cosa?” chiese lei, alzando involontariamente il tono di
voce.
“Cambiati, e fai veloce che non ho tutta la notte”
ripeté Fabio. Controllò l’orologio.
“Per la precisione hai quindici minuti al massimo, poi
dobbiamo uscire. Forza,
non mi guardare con codesti occhi a cerbiatta e togliti il pigiama” ordinò. Rea incrociò le
braccia.
“Cerbiatta? Ma per te io sono uno zoo o una persona?” si irritò.
“Poco importa. Tic-tac, il tempo corre” la prese in
giro. Il ragazzo si sedette sul letto, ma lei rimase
ferma.
“Qualche
problema?” s’informò fissandola.
“Sì, un paio, ma hanno poca importanza. Quello che importa ora è che questa è camera mia e io devo
cambiarmi qui. Per cui esci dalla mia stanza se vuoi che mi
sbrighi!” gli urlò contro,
infuriata. Lui arrossì e poi rise.
“La sbornia ti è sicuramente passata, l’altra sera volevi
spogliarti davanti a me. Fai veloce, mi raccomando” la
salutò, chiudendosi la porta alle spalle.
“Cosa?!” gridò lei,
avvampando alle sue parole. Rimase da sola a fissare il punto in cui lui era
sparito, poi si voltò verso l’armadio. “E ora che
faccio?” si chiese in preda al panico. Non poteva uscire per l’ultimo
dell’anno con i suoi soliti vestiti indosso.
“Se cambi idea,
sai dove si trova la roba, giusto?” la voce di sua sorella le
rimbombò nella testa. Respirò a fondo e poi si affacciò in corridoio: Fabio non
era nei paraggi. Entrò in camera di Emma e sperò con tutta sé stessa di trovare
qualcosa che le stesse bene e che non la facesse
sentire una balena.
Il ragazzo controllava
febbrilmente l’orologio ogni minuto: avevano solo dieci minuti prima che
scoccasse la mezzanotte e dovevano arrivare a casa sua. Meno male che aveva la
moto.
“Ok,
sono pronta” affermò Rea, apparendo in salotto. Lui si voltò.
“Era
l’ora, sei in ri….” La voce gli morì in gola
quando la vide con lo sguardo rivolto verso il basso e le guance arrossate
dall’imbarazzo: aveva addosso un lungo vestito di lana grigia e un paio di
pantacollant neri, che la facevano quasi sembrare più magra. Si era truccata
leggermente, mettendo in risalto gli occhi e le labbra.
“Che c’è? Sto male, vero?” domandò lei, impaurita. Fabio
si schiarì la gola e scosse la testa.
“No, sei…
sei perfetta” balbettò. Rimase fermo a fissarla e la ragazza sbuffò.
“Mi hai detto che eravamo in ritardo,
giusto? Quindi muoviamoci! Mi disturba che tu mi guardi con insistenza, mi mette l’ansia!” esclamò. Camminava sugli
stivali con i tacchi con passo un po’ incerto, ma, tutto sommato, con
tranquillità.
Si mise la giacca a vento, prese
la borsa e le chiavi e poi si mise le mani sui fianchi.
“Forza,
andiamo a festeggiare la morte di quest’anno”