Il Cattivo
Perde Sempre.
Jack Barakat.
aveva sempre adorato l'estate.
Dall'alto dei suoi sette anni, poteva candidamente affermare che
l'estate era la stagione migliore di tutte. Poteva giocare fuori
finché il sole non si acciambellava dietro le colline
silenziose della sua città, e questo accadeva molto, molto tardi. Spesso
Jack pensava che il sole non sarebbe andato mai a dormire, tanto era
lento il tragitto che compiva ogni volta per scivolare oltre
l'orizzonte. D'estate non c'era la scuola, quindi non doveva rimanere
fermo, buono e zitto su quelle sedie scomodissime e troppo piccole, non
doveva studiare tutte quelle cose stupide
che si studiano a scuola e non sarebbe stato sgridato da tutti per
qualsiasi cosa. D'estate poteva mangiare tanto gelato, e anche Duncan
diventava più simpatico durante quei brevi e sfuggevoli mesi
accaldati.
Le uniche cose che Jack non sopportava dell'estate erano i pomeriggi
troppo caldi, quasi roventi, e il fatto che sua madre andasse
continuamente in ufficio, mentre gli altri adulti se ne stavano
spaparanzati sul divano a bere qualcosa da quelle strane lattine
colorate che Jack non doveva assolutamente toccare. Forse si chiamava birra, non
ricordava molto bene.
Sua madre no, andava e tornava dall'ufficio senza mai un minuto di
pausa, lavorava tutto il giorno, e la conseguenza di questo era che
Jack era costretto a stare in casa tutto
il santo giorno. Zia Josephine era troppo vecchia, grassa
e scorbutica per accompagnarlo al parco. Quindi Jack doveva stare in
casa tutto il giorno.
Il bambino sbuffò, lasciandosi cadere ai piedi della grande
quercia che c'era in giardino. Osservò le fronde scure
dell'albero, sospirando. Anni prima mamma non lavorava così
tanto, Duncan era Duncan,
non quell'insopportabile ragazzino sbruffone che si riteneva troppo
adulto per giocare con lui. Prima era tutto diverso, e Jack avrebbe
tanto voluto che le cose tornassero come un tempo, ma mamma gli aveva
già detto che non era possibile. "Le cose cambiano, e quando
cambiano non tornano più come prima" gli aveva
spiegato la donna, e Jack aveva semplicemente annuito, pur non
comprendendo bene le parole della donna.
Il bambino si perse nei suoi pensieri, osservando una formica
marroncina che trascinava faticosamente un grosso pezzo di una foglia
su per la corteccia dell'albero. Pensava alle cose che cambiano, alle
parole di sua madre, parole che non erano vere. Il tempo cambiava: per
esempio due giorni prima c'era stato un violenzo acquazzone che gli
aveva impedito di uscire a giocare con il figlio dei Brown, Danny. Le
cose cambiavano, ma poi cambiavano di nuovo e tutto andava per il
meglio. O forse sua madre viveva nell'acquazzone.
Fu in quel momento, mentre la formica scavalcava un insormontabile
protuberanza della corteccia di quella quercia, che Jack
avvertì il rumore secco e violento, il rumore di un piatto
che va in mille pezzi. Il ragazzino alzò la testa di scatto,
guardandosi attorno, e fu allora che sentì il rumore
inconfondibile di una porta sbattuta. Poi l'auto verde nel vialetto
della casa accanto si accese con un rombo e sgommò via molto
velocemente, forse anche troppo.
Jack si alzò in piedi e corse verso il marciapiede, giusto
in tempo per vedere l'auto dei Gaskarth che correva via sull'asfalto
rovente, diretta chissà dove. Erano ancora le tre, zia
Josephine dormiva profondamente sul divano, Duncan era in camera sua (e
dove senno?) e sua madre era ancora al lavoro, come al solito. Non
c'era nessuno che potesse dargli ordini di qualsiasi genere.
Jack si era chiesto molte volte perché il signor Gaskarth
facesse così. Una volta, a cena, lo aveva chiesto alla
madre: la donna aveva fatto cadere accidentalmente un piatto a terra, e
quello si era disintegrato sul pavimento, mentre Jack attendeva
risposte. Lei si era chinata a raccogliere il piatto, ed aveva voltato
le spalle per buttarlo nel cestino, pezzo per pezzo.
- Il signor Gaskarth non è una bella persona - aveva
sussurrato, sospirando.
- E' come papà? -
La donna aveva sussultato e si era voltata, sorpresa, per poi esibire
un sorrisetto lieve e quasi invisibile, come fatto di carta velina.
- No -
aveva risposto - No, non è come papà. Ora vai a
letto, Jackie -
Jack aveva ubbidito senza fare storie, volatilizzandosi di sopra.
Ora le parole della madre rimbalzavano nella sua mente confusa, mentre
la strada tornava silenziosa e immersa nella calma placida tipica
dell'estate. Nella mente di Jack c'erano domande, parole e ricordi, e
tutti rimbalzavano freneticamente alla ricerca anche solo di una
risposta.
Jack ripensò alle parole che la madre gli aveva detto solo
poche ore prima.
"Mi raccomando, non
uscire di casa fino alle tre, non bagnarti, non andare oltre il
giardino e soprattutto non toccare il lettore DVD"
Jack aveva già infranto tutte le regole che la madre gli
aveva dato: erano le tre e lui era fuori, si era bagnato ma ora era
asciutto ed era sul marciapiede, ovvero oltre il giardino.
Sinceramente non aveva intenzione né di guardare un DVD
né di dare retta a sua madre, quindi si voltò e
raggiunse lo steccato che separava il suo giardino da quello dei
Gaskarth. Jack sapeva per certo che c'era un'asta dello steccato
facilmente rimuovibile anche per un bambino come lui. Dopotutto, quello
steccato lo aveva fatto suo padre, e lui non era poi così
bravo nei lavori manuali come credeva di essere. Jack voleva solo dare
un'occhiata al giardino dei Gaskarth. Voleva delle risposte, anche se
forse non ne avrebbe trovate lì. E poi si sentiva un po' una
spia: era divertentissimo.
Jack sorrise, raggiungendo l'asta per poi staccarla dalle altre. La
lasciò cadere per terra ed infilò la testa
nell'apertura venutasi a creare. Riusciva a vedere perfettamente il
piccolo giardino dei Gaskarth, da lì.
C'erano solo due altalene, in quel giardino, e una delle due era
occupata. C'era seduto un bambino, girato di spalle. Sua madre gli
aveva detto che era più grande di lui, ma sembrava
maledettamente piccolo se visto da lì. Aveva i capelli corti
e scompigliati, di un castano chiaro che gli fece pensare subito alle
nocciole. Indossava una felpa molto più grande di lui, con
le maniche della quale si stava asciugando le guance.
Stava piangendo.
Jack lo seppe per certo quando sentì un singhiozzo provenire
dal profilo di quel ragazzino. Lo aveva visto un paio di volte: sempre
sulle sue, sorrideva poco e non giocava mai con gli altri bambini.
Spesso Jack lo aveva visto con i colori a cera in mano: forse gli
piaceva disegnare. Faceva solo quello.
Jack passò attraverso l'apertura tra le aste e si
intrufolò nel giardino dei Gaskarth, per poi raggiungere le
altalene e il ragazzino. Lui non si era accorto di nulla, troppo
impegnato a piangere e asciugarsi le lacrime con le maniche marroni di
quella felpa troppo grande per notare il mondo circostante.
- Ciao! - esclamò Jack, sorridendo allegramente, e il
bambino sobbalzò, voltandosi verso l'altro di scatto.
Aveva due occhi scurissimi, enormi e liquidi, come fatti d'acqua. Il
viso, normalmente bianco, era infiammato sia dalla calura che dal
pianto, e teneva il labbro infreriore saldamente stretto tra i denti.
Lo liberò non appena vide Jack.
- C-Chi sei? - domandò lui, sorpreso e spaventato - V-Vattene! -
- Perché piangi? -
- N-Non posso dirtelo -
Jack sgranò gli occhi, confuso.
- Come mai? -
- M-Mamma non vuole - borbottò lui, già dimentico
dello spavento iniziale. Tirò su con il naso, asciugandosi
ancora le guance.
Jack lo osservò per un po' prima di sedersi sull'altalena
accanto a lui. Alex continuò a singhiozzare e piangere
più o meno silenziosamente, mentre Jack lo ascoltava,
muovendo la terra con i piedi. Non sapeva cosa dire, ma in quel momento
le parole erano stupide e inutili. Che avrebbe potuto dire? "Mi dispiace"? "Fai un sorriso"?
Erano le frasi che zia Josephine diceva alla mamma quando la vedeva
piangere.
Quando la madre di Jack crollava accanto ai figli, loro si stringevano
attorno a lei con delicatezza. Jack l'abbracciava fortissimo e Duncan
la teneva per mano, e Jack sapeva che quella era la cosa giusta da
fare. Ma siccome il ragazzino non era né sua madre
né Duncan, lui non si mosse.
Quando il pianto del ragazzo cessò, Jack alzò lo
sguardo. Aveva gli occhi arrossatissimi e le guance ancora sporche di
lacrime, ma aveva smesso di piangere.
- Va meglio? -
Lui si voltò verso Jack e sospirò, scuotendo la
testa. Jack alzò le spalle.
- Se non va meglio adesso andrà meglio poi -
- Tu come fai a saperlo? -
- Mamma me lo dice sempre -
- E tua mamma ha ragione? -
- Lei ha sempre
ragione - obbiettò Jack, sconcertato: era ovvio che avesse
sempre ragione. Era sua mamma, lei non poteva sbagliare.
L'altro annuì, per poi cominciare ad osservare con
attenzione la punta delle sue scarpe.
- Mi chiamo Jack, tu come ti chiami? -
- Alex - biascicò lui, la voce ancora impastata dal pianto.
- Avevo un cane che si chiamava Alex! Era tanto simpatico e sapeva fare
le capriole! -
- Adesso dov'è? -
Jack si rabbuiò appena.
- Lo ha preso papà -
- Oh - mormorò Alex, voltandosi verso di lui - E
dov'è adesso? -
- Lui... se n'è andato
-
Alex aggrottò le sopracciglia.
- I papà se ne vanno? -
- Il mio lo ha fatto -
Alex sospirò.
- Vorrei che anche il mio se ne andasse -
- Ma come? Perché? -
- E'... cattivo
- sibilò Alex, e Jack seppe immediatamente che non sarebbe
riuscito a dire altro; intravide Alex tremare e, senza pensarci molto,
gli prese una mano e la strinse con dolcezza, proprio come faceva
Duncan con la mamma. Alex sobbalzò, sorpreso, e in un primo
momento pensò di scrollarsi di dosso la mano di quel ragazzo
strano e invadente, ma non lo fece. Si lasciò cullare da
quel piacevole incontro tra dita, da quella stretta incoraggiante e
dolce, e dopo alcuni minuti strinse con forza la mano di Jack. Era come
se quel ragazzo gli stesse trasmettendo la forza per essere felice di
nuovo, nonostante tutto. Lasciarono le loro mani sospese nel vuoto,
ancora allacciate con dolcezza.
- I cattivi perdono sempre - affermò Jack - Vedrai che
arriverà l'eroe buono e ti salverà! -
Alex abbozzò un sorriso e si voltò, guardando
Jack negli occhi. Anche lui aveva gli occhi scuri, ed un viso
simpatico, dai tratti dolci e paffuti. Sembrava così
allegro, nonostante tutto. Chissà, magari era lui l'eroe
buono. Magari l'avrebbe salvato dal cattivo.
- Ti va di giocare? - domandò dopo qualche istante Jack,
alzandosi in piedi.
- Solo...
- borbottò Alex, per poi zittire.
- Solo? -
- Non... non lasciarmi la mano - mormorò Alex, stringendo un
po' di più la manina di Jack.
- Okay! Andiamo a giocare! -
Jack trascinò via Alex ridendo, e anche il ragazzino si
concesse una risata.
Il cattivo perde sempre,
aveva detto Jack.
Forse aveva ragione, forse no. Ma finché Jack gli teneva la
mano, Alex si sentiva invincibile.
Angolo - della pseudo -
Autrice.
D:
No, okay. Cerchiamo di
capire.
Ho scritto una Jalex.
Io che fino a poco tempo fa non li avevo nemmeno mai ascoltati, ho scritto una Jalex.
Ma il senso di questa cosa, potete spiegarmelo?
Ah, sì, ce l'ho: l'ho scritta durante l'ora di psicologia.
Già. Quindi non insultatemi pesantemente perché
sono una neo fan e già mi permetto di scrivere fanfiction,
chiedo venia.
Lo so che non ha senso, che probabilmente non ci ho capito un cazzo di
questi due e sicuramente ho sbagliato ogni cosa riguardo la loro vita
familiare (ma l'avvertimento AU esiste per questo), ma l'ispirazione
è arrivata e quando arriva non la si deve fermare, giusto?
Quindi ecco i nostri Jack e Alex bambini!
Per chi se lo stesse chiedendo sì, non riesco a fare a meno
delle tragedie familiari. Chiedo perdono.
Per chi segue la mia Frerard: spero di poter trovare tempo e voglia di
scrivere il nuovo capitolo presto. Abbiate fiducia, quindi!
Boh, me ne vado prima che decidiate di uccidemi per questa merda.
Un bacione,
_Cris
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