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Alla mia cara Emerlith,
che
condivide la mia passione per i Casi Disperati,
sperando
che sia di suo gradimento
Te ne stai lì disteso con
gli occhi sbarrati che fissano il soffitto senza vederlo.
Diafane dita lunari s’insinuano tra le
tende, si rincorrono sulla moquette, s’inerpicano sul letto,
scivolano lungo le lisce dune delle lenzuola viola... fino al tuo
cuscino, fino a te.
Riflettono nei tuoi occhi il bagliore
mobile e tremulo di due pozze increspate d’acqua sotterranea.
Nei tuoi occhi s’inseguono
mille e un pensiero, uno più infelice di un altro,
accompagnando lo smuoversi agitato della superficie frusciante.
Percepisci il tuo corpo abbandonato sul letto, le
membra stirate in un torpore indolenzito.
L’aria fresca che ti
solletica appena la pelle nuda.
La carezza vellutata del buio sugli
occhi.
Il calore del suo corpo – quello sormonta
tutto il resto, travolge qualsiasi altra sensazione.
Anche se non la tocchi, lo avverti.
Lo senti sprigionarsi dalla sua carne come un’aura quasi
palpabile, avvolgerti nella sua malia arcana eppure familiare.
Ascolti il respiro regolare di lei sovrapporsi a
quello che esala dalle tue labbra.
Ti chiedi perché ti venga
automatico, naturale, accordare il ritmo del tuo respiro al suo.
Non riesci a farne a meno. Forse
perché così hai l’illusione di sentirla
più vicina? Di poter penetrare dietro le sue palpebre
abbassate fin nella sua mente, che così accuratamente e
gelosamente ti tiene nascosta; nei suoi sogni più segreti,
nel cuore dei suoi fondi incubi e dei suoi neri desideri, da dove
– lo sai – sei bandito?
Bandito.
Lei non ti vuole lì.
Non ti vuole dentro di sé
né da nessun’altra parte.
Lei
non ti vuole.
Can you lie next to
her
And
give her your heart,
your
heart
As
well as your body
Riesci a sentire il suo
calore, mentre giaci al suo fianco, e ti senti come ustionato.
Contaminato. Avvolto. Distrutto.
Come ogni notte, le dai il tuo corpo –
come lei ti dà il suo.
Ma tu ci metti anche il cuore
– lei mai.
Lei esige e tu la accontenti.
Perché dentro di te
continui a covare la flebilissima speranza che prima o poi, a furia di
scavare dentro di lei, di affondare nella sua pelle e nei suoi gemiti
umidi e nei suoi ringhi urlati, riuscirai a raggiungere il suo cuore e
a strapparne via un pezzettino – da tenere insieme al tuo; da
cullare e adorare come il tesoro più prezioso.
E davvero sarebbe il più
prezioso su cui ambiresti a mettere le mani: il cuore di tua moglie.
Lei se ne accorge che tu ci metti il cuore
– lo sente.
E la diverte ricambiare il tuo amore
con puro sesso, il tuo attaccamento con distacco, la tua adorazione con
disprezzo.
Il suo corpo dice che ha bisogno di
te solo per quei pochi minuti – il tempo di prendere fuoco,
spasimare in un incendio dilaniante e altrettanto rapidamente morire in
braci fumose.
Immediatamente dopo, torni a essere
nulla per lei.
Sì, almeno c’è
qualcosa che lei vuole da te, che ti richiede con forza, notte dopo
notte, e che tu sei troppo debole – e troppo smanioso
– per negarle.
Sì, lei almeno desidera il
tuo corpo, ma non ti basta; non ti consola.
Vorresti che volesse tutto di te
– come tu la vuoi tutta,
lei.
Non è un conforto per te,
anzi… ti sentiresti umiliato, usato, sfruttato, se non fosse
che il tuo stesso desiderio ti impedisce di tirarti indietro.
Ti rende un po’
più padrone della situazione, ma è solo
un’illusione – anche a letto, è lei a
comandare.
Puoi convincerti del contrario, se
vuoi, ma sai che è così.
Non riesci neppure a negarle te
stesso.
Puoi illuderti di essere tu il più
forte, quando lei ti urla il suo orgasmo nell’orecchio.
Ma nel profondo sai che non
è così. Nel profondo riconosci la sua supremazia.
Sai che è lei a concederti
temporaneamente il dominio sul suo corpo.
Ma non avrai mai accesso a quello che
c’è dentro.
And can you lie next
to her
And
confess your love,
your
love
As
well as your folly
Una volta, giacevi al suo fianco
proprio come adesso.
Lei ti aveva appena spinto via, dopo
aver fatto l’amore, e accomodava il suo corpo ancora umido
tra le lenzuola con la grazia distratta di un micio, cercando la giusta
posizione – dandoti le spalle, come sempre.
E tu, guardando il soffitto come adesso, avevi
aperto la bocca e detto: «Io ti amo».
Parlavi a te stesso, più
che a lei.
Le tue parole erano rotolate nel
silenzio della stanza, che fino a pochi minuti prima era stato saturo
delle sue urla e dei tuoi gemiti – dei suoi gemiti e delle
tue urla.
Parole infilate a forza tra spezzoni
del tuo respiro ancora ansimante.
Con la coda dell’occhio avevi scorto le
spalle di lei irrigidirsi. I tuoi occhi si erano fissati sulla sua
bianca schiena flessuosa, percorrendola dalla nuca corvina fino ai
rilievi dei glutei che si arrotondavano alla base della spina dorsale.
Avevi percepito la differenza
– nervosa diffidenza impadronirsi di lei, prendendo il posto
della sonnolenta pigrizia che sempre incombe sul desiderio soddisfatto.
Eri certo che avrebbe fatto finta di non sentire,
come faceva finta da anni.
Le sue orecchie rimanevano
costantemente e ostinatamente sorde alle tue parole, fossero esse di
minaccia o di persuasione, di rabbia o di tenerezza.
Sorda al tuo amore. Ermeticamente
chiusa. Impermeabile, immune, inespugnabile.
E il tuo amore a infrangersi ogni
volta impotente conto la muraglia del suo mutismo e della sua
indifferenza.
Invece lei, lentamente, molto lentamente, si era
voltata. I suoi occhi neri erano scintillati per un attimo alla luna,
prima di essere risucchiati nel buio che ti impediva di vedere il suo
viso, di leggere la sua espressione.
Ti aveva guardato per un attimo in
silenzio.
Immaginavi cosa stava per accadere:
ti avrebbe riso in faccia, conoscendola. Ti avrebbe schernito e
disprezzato ancora una volta.
Ma tu non avresti dovuto esserci
abituato? Erano anni. Era una vita. Era così da sempre.
Anche se non smetteva di fare male. Mai.
Ogni volta ti ripromettevi di essere coriaceo. E
ogni volta ti riscoprivi carta velina.
E tornavi a strapparti e sanguinare.
La ferita era diventata piaga. La
piaga era diventata ulcera.
Non sarebbe mai guarita in cicatrice – ne morirai, e lo sai.
All’improvviso lei aveva teso una mano;
con l’indice ti aveva accarezzato il viso, le labbra.
«Dormi,
Rodolphus.»
Era tornata a voltarsi
dall’altra parte e non aveva detto più niente.
Neppure tu avevi più
aperto bocca, quella notte.
Non ti aveva chiamato Roddie. E non aveva
nemmeno riso né si era fatta beffe di te.
Era una cosa che accadeva molto di rado.
Avresti voluto dirle anche un’altra
cosa: «Sono pazzo di te. Sono pazzo».
Perché solo un folle
potrebbe accontentarsi di briciole, potrebbe continuare a stare con una
donna che ama un altro.
Ma sei intrappolato, Rodolphus
– tra il dolore che quell’amore mutilato ti causa e
la certezza che, senza di lei, saresti più mutilato e
derelitto che mai.
Perché lei è
parte di te.
O meglio, tu le hai dato una parte di
te stesso, se non tutto te stesso.
E, se lei se ne andasse, di te non
rimarrebbe più nulla – solo il tuo spettro, forse,
quello che ogni tanto s’intravede nelle ombre violacee sotto
i tuoi occhi; nel tuo sguardo malinconico e fisso sui suoi gesti, sul
suo corpo, sulla sua risata; nel pallore della tua pelle che ogni tanto
ricorda la sua, bianca e sottile come quella di una bambola di
porcellana.
Solo che lei non è una
bambola; è il lupo cattivo.
E non è fatta di
porcellana, ma di acciaio.
Inflessibile.
And can you kneel
before
the King
And
say I’m clean
I’m
clean
Ma ciò che
più sorprende di te, Rodolphus Lestrange, non è
solo come tu faccia ad amare una donna – questa donna
–, e dopo tutto questo tempo continuare ad amarla, dopo tutto
quello che è e quello che ti ha fatto e continua a farti, e
quello che hai subito da lei e perso per colpa sua, e quante volte
– innumerevoli
– tu ti sia piegato, e umiliato, e sottomesso e inchinato e
acconsentito, e taciuto, e fatto finta di non vedere, e sperato
– sempre
–, e implorato ed elemosinato – e preteso –
un briciolo di un amore che non è disposta a darti, mai.
Ciò che più sorprende
– perché, davvero, non è da tutti, non
è umano,
a tratti – è come tu riesca a servire Lord
Voldemort e a continuare a considerarlo tuo Padrone, e a obbedirgli, e
chinare il capo davanti a lui, e a guardarlo negli occhi e a parlargli
con tono indifferente, con viso imperscrutabile, e a essergli
sinceramente fedele, quando è Lui che ti ha portato via tua
moglie.
Come fai a presentarti al suo cospetto con la
mente e il cuore puliti e la fedeltà ancora intatta,
nonostante la tua anima venga quotidianamente demolita a picconate
dall’ossessione che Bellatrix nutre per lui?
Come fai a continuare, nonostante
tutto, a essere un Mangiamorte – il suo Mangiamorte
– , a servirlo e a profondere ogni tuo sforzo per assecondare
i suoi desideri ed eseguire prontamente i suoi ordini?
Non ti è mai passato per
la mente di ribellarti, di tradirlo, di rifuggirlo, di allontanarti da
lui, di urlargli addosso, di – sì, di... ucciderlo?
Ma certo che ci hai pensato. Parecchie volte.
Innumerevoli notti trascorse insonni a vegliare il respiro di tua
moglie, a fissare impotente la sua schiena levigata: nitido, muto segno
della sua granitica indifferenza.
Perché non lo fai?
Perché hai un alto concetto dell’onore.
Hai fatto un giuramento, anni fa,
quando accettasti di farti incidere il Marchio nella carne viva. Non
puoi venire meno a un giuramento, anche se è a Lui che lo
hai prestato.
Non puoi rompere una promessa. Non
è decoroso. E tuo padre ti ha insegnato che
l’onore viene prima di ogni altra cosa.
E pazienza se parte di
quell’onore tu l’abbia comunque perso, nello
sguardo febbricitante da gatta in calore che tua moglie incolla addosso
al vostro Signore, più eloquente di mille parole.
E poi perché sai che non cambierebbe
le cose.
Uccidere Lord Voldemort –
come se ciò fosse possibile – non
avvicinerà Bellatrix a te, non la farà innamorare
di suo marito, anzi: ti odierebbe, ti ucciderebbe a sua volta,
vendicherebbe il suo Signore, l’unico uomo che possa
decisamente e in tutta onestà dire che è sua.
L’unico al quale senta – voglia –
appartenere.
Potresti sopportare il suo odio, a ben pensarci;
almeno proverebbe qualcosa per te che non sia apatico disprezzo e
annoiata indifferenza.
Almeno la faresti bruciare dentro,
anche se non d’amore, come hai sperato per tutta la vita.
Ma brucerebbe,
sì. Per te, per una volta.
Tell me now where was
my fault
In
loving you with my whole heart
Oh
tell me now where was my fault
in
loving you with my whole heart
In cosa hai sbagliato, ti
chiedi... Cosa c’è di male
nell’amarla con tutto te stesso?
Dov’è la tua colpa? Dov’è il
tuo grande peccato?
Amore.
Amore è
peccato. Questo hai imparato con Bellatrix.
Amore è ossessione,
possessione, invasamento.
Amore non è gioia
– è tirannica sofferenza, tormento
esclusivo, angoscia febbrile.
Un camminare sul filo, un ribollire
nel dubbio, nella gelosia, un macerare nella disperazione senza fine.
Non è essere uno dove
prima si era in due – è tremenda, orrida
solitudine.
Nel tuo amore per lei ti sei sempre
sentito più solo che mai; unico protagonista di una tragedia
senza controparte.
È frustrazione,
è rabbia –
è odio.
È sperare che succeda
qualcosa, di grande, di terribile, a mettere fine a quella sofferenza,
un uragano a stravolgere le carte in tavola. Tutto,
purché finisca.
Perchè non puoi tollerarlo
oltre. Sei allo stremo, al limite delle forze e della pazienza.
E, nonostante tutto, continui a
lasciarti trasportare passivamente dalla corrente verso il mare aperto,
dove verrai inghiottito e digerito e cesserai di esistere per
confonderti con migliaia di altri sfortunati relitti come te.
Non vuoi cambiare le cose. Non ne hai
la forza e poi non lo desideri davvero.
Ti senti una bianca pagina vuota. Un foglio
intonso di pergamena, su cui nessuno si è mai dato la pena
di intingere la piuma e scriverci un pezzetto della sua vita, neppure
tua moglie.
Tu invece hai scritto tanto in lei.
Le tue dita hanno scritto un romanzo accorato sulla sua pelle, ogni
notte, ogni volta che l’hai avuta tra le braccia. Una
poesia struggente, infinita, su ogni centimetro quadro del suo corpo.
Hai scritto il tuo amore su di lei,
con l’inchiostro invisibile della tua saliva e del tuo seme
– e tu solo puoi vedere, fiutare, sentire il sapore delle tue
tracce su di lei.
L’hai impregnata di te, hai
riversato tutto di te in lei. Tutto.
Non ti sei risparmiato. Nemmeno una goccia. Nemmeno un pezzettino di te
hai lasciato fuori.
L’hai trasformata
nell’affresco più bello, più pieno,
più grondante di colori e calore, più trasudante
di sensazioni ed emozioni – amore, ma anche rabbia,
gelosia, possesso, frustrazione, rimpianto, tenacia, lotta.
Ma lei no. Lei non ti ha mai dato niente di
sé.
Anzi, a furia di darle troppo, di
darle tutto, ti sei svuotato lentamente, ti sei spento, sei ingobbito e
ingrigito, ti sei intristito e intontito.
Sei diventato una “tabula
rasa”. Non ti è rimasto più nulla.
Sei vuoto, sei piatto; non hai
più né scopo né senso.
Una pagina bianca.
A white blank page
and
a swelling rage
Rage…
Vuoto a eccezione di una
cosa. Una sola cosa che ogni tanto torna a sollevare la testa nel tuo
petto e a scuotere la criniera selvaggia, sputando fuoco dalle narici: rabbia.
Una rabbia che si gonfia come una
nuvola temporalesca, ruggendo e tuonando dentro di te.
Una rabbia sconfinata, una rabbia
disperata. Una rabbia impotente.
Una tigre senza zanne e senza
artigli.
Una rabbia indifesa che non
può offendere. E che si rivolta frustrata e sconfitta contro
il suo stesso padrone – contro te stesso.
Ti fai del male da solo, Rodolphus
– come se lei non te ne facesse già abbastanza.
You did not think
when
you sent me to the brink
to
the brink
You
desired my attentions
but
denied my affections
Oh, invece sì.
Sì che ne era consapevole.
Ogni volta che ti ha spinto al
limite, sull’orlo dell’autodistruzione, ogni volta
che ti ha sprofondato nel baratro, ogni volta che ti ha spezzato ed
è rimasta a guardarti in silenzio mentre ti affannavi
carponi a raccogliere i cocci – ogni stramaledettissima
volta lei ne era consapevole.
Lei lo sapeva cosa stava facendo
– lei lo voleva.
E solo per questo non dovresti mai, mai perdonarla.
Sei il suo giocattolo, il suo animale domestico,
il suo schiavo.
Lei vuole che tu sia suo, ma non
vuole concedersi a te. Non è tua.
Ti pretende e ti esige.
Però non ti darebbe mai la libertà, nemmeno se
tu – cosa assurda – la volessi.
Non ti permetterebbe mai di
allontanarti, di rompere le catene che ti ha messo al collo.
Non lascerebbe mai che tu sia felice
senza di lei.
E dal momento che non puoi esserlo
con lei – perché lei te lo nega con spensierata
crudeltà – ecco il tuo destino, dunque:
infelicità eterna.
Le piace essere il centro dei tuoi pensieri,
Rodolphus. Essere la tua amara, velenosa ossessione.
Desidera le tue attenzioni, vuole che
tu continui a struggerti per lei e a scalpitare nel tuo amore amputato
e avvilito. Ma ti nega il suo affetto.
Lei prende e non dà.
E continua a prendere, a risucchiare
via tutto da te.
Riducendoti così: una
bianca pagina vuota.
Anche questa notte, come tutte le
altre notti insonni che l’hanno preceduta, pensi che dovresti
fare qualcosa.
E come sempre ti sovviene
un’unica soluzione: ucciderla.
O uccidere te.
Ma, se sai con certezza che la tua
morte non la toccherebbe affatto, altrettanto bene sai che invece tu,
tu non potresti sopravviverle a lungo. È lei la tua vita.
Ed è il veleno che ti
uccide lentamente giorno dopo giorno.
Ma tu hai scelto la morte, Rodolphus, fin
dall’inizio. Non
ti resta che aspettare.
E, mentre aspetti, non puoi fare a
meno di chiederti quanto lunga sarà quest’agonia.
So tell me
now where was my fault
in
loving you
with
my whole heart
Oh
tell me now where was my fault
in
loving you
with
my whole heart
Mumford
and Sons, White blank
page
Fine
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