YSM
Erano passati tre giorni da quando Ryan aveva scoperto di
aver perso la collana, ma non era tornato a riprendersela o tantomeno ne aveva
espressamente parlato con me; in verità non mi aveva proprio rivolto la parola.
Dopo il nostro discorso nel mio appartamento Ryan aveva cominciato a ignorarmi
esattamente come io facevo con lui. Se ci incontravamo per strada o per le
scale, mi salutava solamente con un gesto del capo, tornando poi a parlare con
chi era con lui; quando andavo a trovare i ragazzi durante il giorno e lui mi
apriva la porta, non si degnava nemmeno di salutarmi.
Era una situazione insopportabile.
Per questo mi ero decisa: sarei partita. Avevo il volo da
New York a Miami quel sabato pomeriggio; mi rimanevano meno di due giorni lì a
Hunts Point. Quel giovedì poi sembrava scorrere lentamente: in TV non c’era
nulla per cui valesse la pena rimanere in casa e fuori c’era un vento freddo
che minacciava neve. Mi alzai, decisa a raggruppare gli ultimi vestiti che
durante quella partenza così a lungo rimandata avevo più volte spostato dalla
valigia all’armadio, quando sentii qualcuno bussare alla porta. Erano dei colpi
leggeri, come se chi era all’uscio si vergognasse a essere lì.
«Sì?» chiesi, aprendo la porta e
stupendomi quando vidi davanti a me Irene. Sorrideva, in evidente imbarazzo e
continuava a guardarsi attorno, timorosa che qualcuno potesse vederla. «Vuoi entrare?» domandai sorpresa. Nonostante
frequentasse abitualmente Brandon e il 3B, non avevo parlato con lei molte
volte; tendeva sempre a intrattenersi con Brandon.
«Grazie
Lexi» sussurrò grata,
entrando e richiudendo la porta subito dopo. Che strano comportamento, non
l’avevo mai vista così nervosa. «Ti
va se ci sediamo?» domandò,
indicando il mio divano sgangherato a qualche metro da noi. Annuii, seguendola
e sedendomi di fianco a lei. «Ti
chiederai che cosa ci faccio qui, non è vero?» azzardò, allargando il sorriso sul suo volto e sistemandosi
comodamente, come se fosse a casa sua.
«Be’…» borbottai, alzando le spalle,
insicura su cosa dire. Non era di certo bello ammettere che trovavo strana la
sua visita, visto che non avevamo un rapporto così stretto –non quanto quello
instaurato con Aria, almeno. Irene sorrise, spostandosi una ciocca dei lunghi
capelli biondi dalla fronte e appoggiando il gomito allo schienale del divano,
perché potessimo essere una di fronte all’altra.
«Arriviamo
dritti al punto, ok? Non mi piace girare intorno a quello che ho da dire. Sei
ancora convinta di partire dopodomani?».
Si fermò, in attesa di una mia risposta. Quella domanda mi sembrò così strana
che per qualche secondo rimasi immobile, incapace di capire perché proprio lei
mi stesse chiedendo se sarei partita o meno. Sarebbe stato più logico se
l’avesse fatto Brandon o uno dei ragazzi –uno qualsiasi, escluso il loro O.G.,
visto l’odio che provava per me –ma non lei. «Lo so che sembra una domanda strana, posta da me almeno”
continuò subito dopo, accorgendosi che non reagivo o rispondevo.
«Certo che
partirò, perché non dovrei farlo?».
Avevo deciso che sarei partita e così avrei fatto, perché non potevo più
rimanere nel Bronx, non con il pensiero di Aria e Dollar ogni volta che
attraversavo Edgewater Road. E non avevo più un lavoro, quindi non potevo
pagarmi l’affitto. Era un problema anche quello. Probabilmente Peter mi avrebbe
assunta di nuovo come cameriera al Phoenix se solo io avessi trovato il
coraggio di chiederlo, ma non volevo più lavorare in quel bar.
«Perché
non rimani ancora un po’?».
Domanda stupida la sua; avevo cento motivi per andarmene e nessuno per rimanere.
Non riuscivo ancora a capire che cosa volesse proprio lei, poi. Probabilmente
riusciva a leggere la confusione nel mio sguardo, perché non trattenne una
risata, abbandonando il capo contro lo schienale del divano, di fianco a lei.
Quel gesto mi ricordò Aria e le serate passate a chiacchierare e guardare film,
mentre i ragazzi erano a lavorare.
«Perché
non ho più nessun motivo per rimanere. Non ho amici, non ho un lavoro e tra
meno di quindici giorni nemmeno più una casa, visto che non riuscirei a trovare
i soldi per l’affitto di gennaio. È meglio così» conclusi, vedendo il suo sguardo rabbuiarsi. Sembrò pensare a
qualcosa da dire per qualche secondo, tanto che, in imbarazzo per quel silenzio
che avevo causato, cercai di legarmi i capelli per prendere un po’ di tempo
mentre pensavo a qualcosa da dire. Non che non mi piacesse parlare con lei, ma
in qualche modo mi sentivo a disagio perché non riuscivo a capire il vero
motivo per cui fosse lì, nel mio appartamento.
«Be’, ci
sono i ragazzi, ci sono anche io. Mi sei simpatica, dovremmo uscire qualche
volta assieme, non credi? E poi se il problema sono i soldi… ho la soluzione!
Lavoro in un piccolo negozio in centro a New York, ci serve un’altra commessa,
potresti venire a lavorare lì. Pagano bene, c’è un po’ di strada da fare ma se
mi trasferisco dai ragazzi potremmo prendere la metro assieme, così ci facciamo
compagnia» tentò, cercando di
risultare più convincente con un sorriso. La sua mano si allungò per stringere
la mia, distante solamente qualche centimetro. Quello strano comportamento mi
puzzava. Perché voleva che rimanessi?
«Perché
vuoi che io rimanga?». Non
era stata proprio lei a dire, qualche minuto prima, che non le piaceva girare
attorno al discorso ma arrivare dritta al punto? Bene, allora avrebbe dovuto
essere sincera con me, perché non sopportavo le persone bugiarde e false.
«Rimani,
Lexi. Da quando sei qui qualcosa è cambiato, sei riuscita a far succedere così
tante cose e ho paura che una volta che tu te ne sei andata tutto peggiorerà.
Quando sei arrivata hai smosso le acque, Aria e Dollar hanno cominciato a
rifrequentarsi e aspettavano addirittura un figlio, io e Brandon ci siamo
rimessi assieme e Claire e Sick hanno parlato dopo quasi dieci anni». Non aveva mai smesso di
sorridere durante tutta la sua spiegazione, forse per sottolineare che –per lei
–con il mio arrivo erano accadute tante cose belle. Io non riuscivo a vederla
nello stesso modo. Presi un respiro profondo, ignorando la sua mano che
stringeva la mia.
«Io non la
vedo così. Da quando sono qui gli Eagles hanno subito tante perdite e in quasi
tutte c’entro io. JC era da solo perché siamo andati a Coney Island e non aveva
protezione. Aria e Dollar si frequentavano di nuovo? Sì, è vero, e guarda
adesso, sono morti. Mi sono ubriacata e ho svelato che John non ci pagava
regolarmente e che cosa gli è successo? L’hanno ucciso come se fosse stato un
animale da macello. Io non credo proprio di aver smosso le acque in modo
positivo Irene, scusami ma non riesco a vederla in questo modo. Ed è questo il
motivo principale per cui me ne vado. Hunts Point non è il mio posto». Socchiusi gli occhi, ignorando
le lacrime che volevano scendere dopo quel discorso che per settimane mi ero
tenuta dentro senza sfogarmi con nessuno. Irene sorrise appena, irritandomi
ancora di più.
«Hunts
Point è il posto perfetto per te, Lexi. Hai cambiato tante cose e da quello che
ho sentito tante cose sono cambiate in te, sei cresciuta da quando sei arrivata
qui nove mesi fa». La presa
della sua mano sulla mia si rafforzò appena, per farmi capire che le sue parole
erano sentite. Oh, ora riuscivo a capire! Tutto diventava chiaro. Risi nervosa,
portandomi le mani tra i capelli e tirandone qualche ciocca, disfacendo la coda
che mi ero fatta qualche minuto prima.
«Di’ a
Brandon che si faccia i fatti suoi, per favore. Senza offesa per lui, Irene, ma
non credo che mi conosca così bene da sapere se sono cambiata o meno. E
soprattutto, se deve dirmi qualcosa, gradirei fosse il diretto interessato a
dirlo, non un’ambasciatrice. Ora scusami, ma ho da….». Non riuscii a terminare la frase perché qualcuno bussò alla
mia porta. Irene si alzò in piedi di colpo, guardandosi attorno spaventata;
sembrava cercare un posto per nascondersi.
«Ti prego,
non dire che sono qui a nessuno, nemmeno a Brandon. Digli che non ci sono e che
non mi hai mai vista, inventati qualche scusa, per favore» supplicò, correndo verso il
corridoio per chiudersi la porta della mia camera alle spalle. Guardai il
corridoio vuoto, confusa. Che diamine stava succedendo? Perché avrei dovuto
mentire a Brandon? Ma soprattutto perché nessuno doveva sapere che Irene era lì
a casa mia?
«Ciao» salutai, aprendo un piccolo
spiraglio perché Brandon non potesse guardare dentro casa mia. Quel gesto
probabilmente lo insospettì, visto che cercò di guardare dietro di me, per
scorgere Irene. Per fortuna si era nascosta in camera, o l’avrebbe vista
subito.
«Posso
entrare?» domandò, facendo un
passo in avanti, come se fosse sicuro che l’avrei fatto accomodare.
Istintivamente socchiusi di più la porta, tanto che Brandon poteva vedere
solamente metà del mio viso. Si fermò, vedendo che non avevo intenzione di
farlo accomodare e mi guardò con circospezione, soffermandosi per qualche
secondo di troppo sul mio sguardo.
«Sono
nuda, ho appena finito di fare la doccia e sono nuda. Scusa se non ti faccio
entrare, ma sai, non ho nemmeno l’asciugamano addosso e…». Come scusa poteva reggere, visto che non poteva di certo
vedere se avevo raccontato una bugia. Brandon sbuffò, incrociando le braccia al
petto, come se stesse perdendo la pazienza.
«Lexi,
sappiamo che non è vero. E se anche fosse… ti ho già vista nuda, ricordi?
Quindi, per favore, spostati dalla porta»
minacciò, appoggiando una mano sulla maniglia e spingendo verso di me per
aprirla. Cercai di oppormi con tutta la mia forza, ma fu inutile, visto che in
pochi secondi mi ritrovai davanti Brandon che sorrise, soffermandosi sui
vestiti che portavo. «Dov’è?» domandò, cominciando a guardare
dietro al divano e in cucina. Finsi di non aver sentito la sua domanda, seguendolo
a mano a mano che si avvicinava alla mia camera. Aprì la porta del bagno
grugnendo frustrato quando si accorse che era vuoto. Impossibile non capire che
Irene doveva per forza essere in camera, visto che era l’unica altra porta. «Non inventarti che c’è un uomo
Lexi, perché non ci credo».
Aprì la porta, avvicinandosi a grandi passi a Irene, seduta sul mio letto. Si
stava torturando l’unghia del pollice e quando lo vide arrivare cercò di
dimostrarsi dispiaciuta, ma Brandon non le lascò il tempo di scusarsi. «Che cosa ti avevo detto? Restane
fuori Irene. Non dovevi venire qui, perché l’hai fatto?». Sembrava davvero arrabbiato, tanto che la prese per un
braccio, strattonandola quasi in modo dolce perché potesse seguirlo fuori dal
mio appartamento. Non aggiunse altro, si chiuse solo la porta alle spalle
mentre Irene sussurrava che dovevo pensare alla sua offerta.
C’era poco da pensare riguardo l’offerta di Irene: non avrei
accettato. Mi dispiaceva per lei, ma non si trattava solo di soldi –visto che
mi aveva anche trovato un lavoro –era più che altro insopportabile rimanere lì
a Hunts Point, come se improvvisamente quel piccolo Borough mi fosse diventato
stretto. Non credevo nemmeno un po’ alle sue parole, poi, visto che era strano
per me sentire una richiesta così proprio da lei, l’ultima persona con cui
avevo legato. Quindi la ringraziavo per il suo interesse verso di me e anche
per la sua disponibilità a provare a diventare mia amica, ma reclinavo ogni
tipo di offerta. In fin dei conti era giovedì ed ero sicura che in un giorno
non sarei mai riuscita a socializzare con lei al punto da diventare sua amica e
piangere all’aeroporto, mentre la salutavo.
Sarei passata dai ragazzi il venerdì pomeriggio a porgere i
saluti; forse potevo anche salutare Ryan, se si degnava di parlarmi, altrimenti
ne avrei fatto volentieri a meno. «Si
tratta solo di cortesia, tutto qui»
pensai tornando in camera mia per finire di sistemare la valigia, visto che ero
stata interrotta da Irene, poco prima.
Quella sera, stanca ma soddisfatta di aver sistemato tutto
ed essere ormai pronta per la partenza, mi distesi sul divano sgranocchiando un
pacchetto di patatine e guardando una commedia che speravo riuscisse a
strapparmi un sorriso. In verità, quello stupido film riuscì a rendere peggiore
il mio umore, visto che il protagonista indossava una collana a cui teneva
visto che gliel’aveva regalata il nonno. Quella commedia aumentò il mio senso
di colpa a dismisura, perché cominciai a pensare alla collana di Ryan che
portavo al collo; e se fosse stato un regalo di qualcuno? Qualcosa a cui lui
teneva e io continuavo a tenerla senza restituirla perché volevo che lui la
chiedesse? Sapevo che Ryan era orgoglioso, ma non potevo privarlo di qualcosa a
cui magari era davvero legato solo per comportarmi da bambina, non era giusto
nei suoi confronti. Era ancora meno una buona idea andarmene con quella collana
sapendo che l’avrei privato per sempre di quel ricordo. Infantile, stupido ed
egoista, non era qualcosa che io avrei fatto. Quindi dovevo restituirla, al più
presto; subito.
Mi alzai dal divano in fretta, correndo verso la porta del
mio appartamento e spalancandola per poi attraversare velocemente il
pianerottolo e bussare ininterrottamente al 3B.
Nessuna risposta.
Nessuno che imprecava aprendo la porta o ignorandomi. Dove
erano i ragazzi? Mi voltai per tornare nel mio appartamento quando sentii la
porta dietro di me aprirsi, facendomi sospirare sollevata mentre mi voltavo.
Nel momento in cui vidi chi c’era davanti a me però, preferii che nessuno mi
avesse aperto la porta.
«Che cazzo
vuoi, tette secche?» sbottò
Butterfly, accendendosi una sigaretta e chiudendo subito dopo la porta dietro
di lei perché non potessi entrare. Si avvicinò lentamente alla scala,
attendendo che rispondessi alla sua domanda. Non era il caso di dirle che
volevo parlare proprio con Ryan o si sarebbe arrabbiata e temevo che dentro a
quella minuscola borsa potesse avere qualche arma con cui ferirmi o peggio,
conoscesse qualche mossa di karate in grado di stendermi in due secondi; meglio
rimanere vaghi.
«Dovevo
parlare con i ragazzi di una cosa, non c’è nessuno di loro?». Così sarebbe stata costretta a
dirmi chi c’era in casa –ammesso che non fossero usciti tutti. Butterfly si
fermò con un piede sul secondo gradino e si voltò a guardarmi, con uno strano
sorriso sulle labbra. Sembrava quasi soddisfatta, ma non riuscivo a capire di
cosa.
«Non ti
hanno detto che uscivano, eh? Che cosa succede, tette secche, i tuoi amichetti
non ti dicono più nulla? Povera piccola incompresa». Si finse addolorata, irritandomi al punto che per qualche
secondo fui tentata di avvicinarmi a lei e ripetere l’esperienza di mesi prima:
un bel pugno assestato sul suo naso e di nuovo il rumore dell’osso che si rompeva
sotto alle mie nocche. Se mi fossi comportata in quel modo però, ero sicura che
Butterfly avrebbe reso i miei ultimi giorno a Hunts Point un vero inferno;
quindi semplicemente entrai in casa mia, decisa a rimanere sveglia fino a
quando i ragazzi non fossero tornati per dormire. Avrei chiesto a Ryan di
entrare un attimo nel mio appartamento e gli avrei riconsegnato la collana.
Ramanzina? Ci dovevo ancora pensare, l’avrei inventata al momento.
Per quante volte avevo camminato dal divano al tavolo,
avanti e indietro? Non sapevo dirlo con esattezza, ma visto che l’avevo fatto
ininterrottamente per quasi tre ore, dovevano essere davvero molte. Erano quasi
le due di notte e dei ragazzi non avevo visto nemmeno l’ombra. Dove diavolo
erano finiti? Perché non tornavano a casa a dormire? Non volevo consegnare la
collanina il giorno dopo perché poi –visto che mi conoscevo anche troppo –ero
sicura che avrei trovato una scusa per posticipare. E io dovevo dargli la
catenina al più presto.
Sentii il frastuono delle moto dei ragazzi che sopraggiungevano
e qualcuno aprì il portone del garage perché potessero parcheggiarle dentro,
mentre il rombo di altre moto che si avvicinava diventò così forte da
sovrastare gli schiamazzi. Almeno erano arrivati a casa sani e salvi, anche se
sembrava stessero giocando a Tupac e Notorius B.I.G. visto che non capivo
perché continuassero a sparare. Improvvisamente mi fermai in mezzo alla stanza,
sentendo delle urla sempre più forti e i colpi di pistola che cessavano.
Probabilmente avevano solo spaventato qualcuno che li aveva seguiti o magari
stavano facendo qualche stupido rituale di cui non mi avevano mai parlato. Non
smettevano però di urlare: era un continuo sovrastarsi di voci e grida che non
riuscivo a riconoscere. Le mie gambe non volevano nemmeno muoversi perché
sapevo che se fossi andata in camera e mi fossi affacciata al balcone avrei
visto che cosa stava succedendo in strada. Una parte di me preferiva rimanere
all’oscuro, sicura che i ragazzi stessero facendo i cretini come il solito. Sì,
doveva essere così, visto che le urla stavano diminuendo di intensità e tutto
intorno a me ritornava a essere silenzioso e tranquillo, come se si fossero
stancati di giocare.
Poi, all’improvviso –proprio quando non si sentiva più nulla
–udii il rumore di tre spari. Niente altro per alcuni secondi, solo l’eco di
quei colpi che avevano fatto tremare i vetri delle finestre.
«No» urlò qualcuno. Un urlo che arrivò
al centro del mio cuore, mentre le mie gambe cedevano definitivamente per farmi
cadere a terra, completamente senza forza. Sentii subito dopo due moto partire
sgommando, ma non avevo la forza di correre fuori per guardare che cosa fosse
successo. Da stupida non mi ero spaventata con gli spari e le urla; erano stati
quegli ultimi tre colpi a farmi cedere, come se esattamente in quel momento
fosse successo qualcosa di brutto a qualcuno
dei ragazzi.
«Alexis!» gridò una voce. Sentivo l’eco
salire dalla tromba delle scale ma non ero in grado di far forza alle mie gambe
per alzarmi in piedi. La voce si fece sempre più vicina, fino a quando arrivò
sul pianerottolo. «Apri! Apri questa cazzo di porta e scendi! È ferito,
abbiamo bisogno di te». Dei colpi contro la
porta, come se volesse buttarla giù. Dei colpi che per quanto simili a quelli
che avevo sentito così tante volte, non erano uguali. Non si trattava di fretta
o paura, era semplicemente…
Le
mie gambe reagirono da sole, come se fossero disconnesse dal resto del corpo.
Quando aprii la porta e vidi il suo viso martoriato dai pugni e ricoperto di
sangue sgranai gli occhi, sorpresa e spaventata. Era quasi irriconoscibile;
probabilmente, se l’avessi incontrato per strada e non sul pianerottolo, non
sarei nemmeno riuscita a riconoscerlo. Nemmeno l’azzurro dei suoi occhi
riusciva a contrastare tutto quel sangue.
«Ti prego»
mormorò, stringendo la presa della sua mano sulla porta. Sembrava cercasse di
sostenersi, come se gli mancassero le forze. Non me lo feci ripetere due volte,
forse perché le mie gambe cominciarono a muoversi senza che me ne fossi resa
conto. Prima ancora di chiedere qualsiasi cosa, cominciai a correre giù per la
scala, per uscire.
«Dove?» domandai,
spalancando il portone e vedendo subito quello che stavo cercando. Non mi
guardai nemmeno attorno, non mi interessava di tutte le altre persone perché
sapevo da chi andare; sapevo chi aveva bisogno di me. Corsi fino a
inginocchiarmi di fianco a lui, non badando a tutto il sangue che c’era sul
marciapiede. «Ryan…» mormorai, sentendo un nodo in gola quando appoggiai
il suo capo sulle mie gambe, scostandogli i capelli intrisi di sangue dalla
fronte. «Ryan…» ripetei, sfiorandogli il volto in punta di dita,
quasi temessi di fargli male. Era impossibile, perché ero sicura che quei due
colpi al centro del petto –esattamente da dove fuoriusciva troppo sangue –fossero molto più fastidiosi delle mie dita. Vidi il
suo sguardo spostarsi lentamente su di me e una piccola fiammella si accese,
quando mi vide.
«Lentiggini… sei qui» bofonchiò, tossendo. Non mi curai delle lacrime che cominciarono a scendere
quando Ryan sorrise, allungando lentamente la sua mano per accarezzarmi una
guancia; presi istintivamente la sua mano tra le mie, stringendola e sentendo
come le sue dita fredde contrastassero alle mie calde. Cercavo di non piangere
perché volevo continuare a guardare Ryan per avere una sua immagine nitida, ma
non era facile; ogni minimo gesto gli causava una smorfia di dolore che non
riusciva a nascondere. La sua mano sfiorò il mio collo, per finire appoggiata
al centro del petto, esattamente sopra alla collana nascosta dalla felpa che
indossavo. Nonostante gli strati di stoffa la mano di Ryan bruciava al
contatto, sembrava che la collana mi stesse marchiando, ma non riuscivo a
smettere di piangere e i miei occhi non volevano abbandonare i suoi. «Ce… l’hai… tu?».
Sapevo a cosa si riferiva, così annuii, lasciando che alcune mie lacrime gli
bagnassero il volto, cancellando un po’ di sangue. Non volevo nemmeno parlare,
non potevo parlare perché c’era qualcosa che me lo impediva; qualcosa dentro
alla mia gola. Vidi Ryan aprire le labbra per cercare di dire qualcosa e lo
fermai, lasciando la sua mano e appoggiando la mia sulla sua guancia,
accarezzandola lievemente.
«Sta zitto, stupido» gemetti tra le lacrime, stringendo con più forza la sua mano perché
potesse sentire che ero lì, accanto a lui. Avrei voluto aiutarlo, tamponare
quelle ferite, ma c’era davvero troppo sangue per terra e il rumore della
sirena dell’ambulanza che si avvicinava sempre di più mi fece sospirare
sollevata. «Adesso ti portano in
ospedale, ti tolgono i proiettili e domani cominci a ordinare ancora ai ragazzi
che cosa fare, d’accordo?» mormorai,
senza lasciare la sua mano, ancora ferma sulla collanina. Non era possibile che
sapesse che la stavo indossando, era nascosta dalla stoffa, eppure il suo palmo
era proprio appoggiato sopra.
«A…lexi…s, pu…oi
te…nerl…». Le sue labbra si
curvarono in quel ghigno che odiavo con tutta me stessa, quello che faceva
quando mi prendeva in giro. I suoi occhi però erano chiusi, non c’era quella
fiammella che mi faceva imbestialire ancora di più. Sentii la presa della sua
mano sulle mie farsi debole e istintivamente, per non farla cadere, la strinsi
con più forza, scuotendola appena. Perché non reagiva? Perché non la stringeva
più? Perché non mi prendeva in giro chiamandomi lentiggini? Perché non apriva i
suoi occhi, si alzava da terra e cominciava a ridere, dicendo che era tutto uno
scherzo?
«No, no Ryan, no»
urlai, lasciando la sua mano e prendendo il suo volto tra le mie, scuotendolo
appena. Di nuovo, i suoi occhi rimasero chiusi e vidi il suo capo ciondolare
verso l’asfalto quando l’ambulanza arrivò fermandosi a qualche metro da noi. «Ryan non puoi»
gridai più forte, picchiando un pugno contro il suo petto, senza che lui
reagisse. «Non puoi lasciarmi, hai
capito?». Non poteva, ero io quella che
doveva andarsene da Hunts Point, non lui. Ero io quella che doveva prendere un
aereo con la consapevolezza di vederli ancora vivi, non lui. Appoggiai la
fronte sul suo petto, ignorando l’odore di sangue e concentrandomi solo sullo
stesso miscuglio di profumi che avevo sentito qualche giorno prima in camera
mia, dopo aver fatto l’amore con lui. Socchiusi gli occhi, dando libero sfogo
alle lacrime e ignorando quello che stava succedendo attorno a me. Sentii
qualcuno avvicinarsi e pronunciare quella parola che mai come in quel momento,
se riferita a Ryan, era in grado di ferirmi ancora di più.
«Morto». Ancora
delle voci e poi l’ambulanza che ripartiva a sirene e lampeggianti spenti,
simbolo che non c’era nessuna urgenza. C’erano continue voci attorno a me che
si avvicinavano e allontanavano, qualcuno cominciò a piangere, ma non alzai lo
sguardo per controllare chi fosse, rimasi con il capo appoggiato al petto di
Ryan fino a quando una mano calda –non fredda come il corpo sotto di me –si
appoggiò al mio capo, accarezzandolo.
«Lexi, andiamo dentro». Sembrava la voce di Brandon, ma era così diversa, come se… alzai lo
sguardo, incontrando i suoi occhi così ricolmi di lacrime e rabbia che
istintivamente strinsi la felpa di Ryan più forte tra le mie dita, guardandolo
di nuovo. Mi abbassai, sfiorando le sue labbra con le mie e sistemando quella
ciocca di capelli che, ribelle, continuava a spostarsi sulla sua fronte intrisa
di sangue ormai raffermo.
Brandon
mi sollevò, prendendomi tra le sue braccia senza sforzo e lasciando che mi sfogassi,
con la fronte appoggiata al suo collo mentre saliva le scale di casa. «Mi
dispiace» mormorò, senza nascondere la
sua voce incrinata dalle lacrime che sentivo scorrere sulle sue guance. Cercai
di farmi forza, ignorando l’immagine del sorriso spento di Ryan che non se ne
voleva andare.
«Chi… che cosa è successo?» domandai, strofinando la mia guancia con il palmo
della mano per togliere le nuove lacrime che stavano scendendo. Brandon mi fece
sedere sul divano, rimanendo di fianco a me. Non gli importava nemmeno di
asciugare le lacrime che scorrevano sul suo volto, continuava a guardare
davanti a lui, verso la poltrona vuota di Ryan.
«Era la solita serata, siamo… abbiamo fatto un giro, ci
siamo scontrati nel territorio di confine come il solito e gli abbiamo fatto il
culo. Siamo tornati a casa ma ci hanno seguiti e noi non eravamo preparati. Ci
hanno colti alle spalle. Abbiamo lottato ma…». Si portò la mano tra i capelli, alzando lo sguardo al soffitto e respirando
a fondo per calmarsi. «Ryan cercava di
essere ovunque e di proteggere tutti; quando qualcuno lo chiamava accorreva
subito e se ne andava solo se non c’era più niente da fare. Poi si è avvicinato
a Dead e ha perso la testa, non ha più badato a nessuno nonostante vedesse i
ragazzi cadere a terra di fianco a lui». Ragazzi cadere a terra, allora Ryan non
era l’unica perdita degli Eagles. In quanti erano morti davanti al 198 di
Whittier Street? Mi guardai attorno per capire se ci fosse qualcun altro dentro
al loro appartamento ma eravamo solo noi. In quanti erano rimasti vivi? Quanti
Misfitous erano riusciti a uccidere? La curiosità era tanta, ma temevo la
risposta. Come avrei reagito se fosse morto qualcuno di loro che conoscevo
bene? Se fosse successo qualcosa a Sick?
«Chi… chi sta bene?». Speravo che Brandon riuscisse a capire cosa gli stavo chiedendo,
perché non volevo usare la parola vivo
né morto; entrambe mi avrebbero
riportato alla mente Ryan e il suo sorriso spento, la presa delle sue mani che
si allentava e il suo corpo privo di vita abbandonato sulle mie gambe.
Brandon,
senza distogliere lo sguardo dalla poltrona di Ryan –quasi come se stesse
parlando con lui –cominciò a raccontare: «Il primo che Ryan ha ucciso è stato BB
Child, per Dollar credo. Non ci ha impiegato molto e non gli interessava. Ryan
lo voleva morto. Io e Sick abbiamo cominciato a picchiare altri Misfitous
perché volevamo finire il prima possibile, ma ne sono arrivati un paio di nuovi
alle spalle e Josh e Paul sono riusciti a salvarci. Non riuscivo più a vedere
Ryan perché continuava a correre ovunque per pararci il culo, per questo quando
Sick ha esultato dopo aver ucciso Pick mi sono fermato per cercarlo. Ryan era
davanti a Dead e gli strattonava la felpa, sono riuscito a vederlo mentre gli
assestava una pugnalata sullo stomaco prima che Pitt arrivasse alle mie spalle
e mi tirasse un pugno sul fianco facendomi mancare il respiro. Poi non so che
cosa sia successo, non riuscivo più a capire nulla, c’erano solo il coltello
che tenevo in mano perché la pistola era scarica e sangue, tanto sangue. Ho
sentito Josh urlare il nome di Paul e poi il rumore di una scarica di pugni
ancora più forte. Non riuscivo nemmeno a vedere Hem o Swift, nessuno.
Continuavo a picchiare chiunque fosse davanti a me, calpestavo i loro volti e conficcavo
il coltello nella carne, non mi interessava davvero. Quando ho visto che più
nessuno si faceva avanti mi sono voltato verso Ryan e gli ho sorriso perché
eravamo riusciti a vincere di nuovo, non ho davvero controllato chi dei nostri
era rimasto a terra. E poi… poi ci sono stati quei tre colpi e Ryan è caduto a
terra. Sono corso da te subito, dovevo farlo. Dovevate parlarvi, non potevo
lasciare che tu non lo vedessi, non me lo sarei mai perdonato e tu avresti
vissuto per sempre con il rimorso di non avergli detto addio». Quando Brandon concluse il suo racconto cercai di
trattenere i singhiozzi, ma non ci riuscivo. Avevo ascoltato con gli occhi
chiusi, immaginando la scena come l’aveva raccontata e nel mio corpo avevo
sentito il segno di ogni coltellata e colpo di pistola.
«Quindi Paul è morto? E anche Hem e Swift? E di loro,
dei Misfitous?». Non riuscivo a non
pensare a Paul e al suo sorriso, ai suoi occhi così simili a quelli del
fratello. Come poteva sentirsi Josh dopo aver perso così tanti fratelli? Ryan,
Hem, Swift e anche Paul. E Sick, Lebo e l’altro ragazzo di cui non ricordavo il
nome perché l’avevo visto solo di sfuggita un paio di volte? Che ne era di
loro? Erano riusciti a salvarsi?
«Anche Lebo»
sospirò, strofinandosi il volto con la mano per togliere le lacrime che
scendevano lungo le sue guance. «Ma Ryan
è riuscito a uccidere Dead e sai cosa? Sono così fiero di lui che se fosse di
fianco a me gli darei una pacca sulla spalla. Dead, Pick, BB Child e altri sono
morti. Mike è ferito gravemente, credo. Pitt e Dan l’hanno portato via in moto
subito dopo aver sparato a Ryan. È solo questo che mi infastidisce, il fatto
che gli abbiano sparato nel momento in cui non riusciva a difendersi. Sono dei
codardi, aveva ragione Ryan, ce l’ha sempre avuta. Ti chiedo solo una cosa
Lexi; l’ultimo favore, poi non mi dovrai più nulla. Rimani per il funerale,
fallo per Ryan, per gli Eagles». La sua
mano strinse la mia e vidi il suo sguardo implorarmi perché rimanessi.
Senza
nemmeno pensarci annuii, sapevo che era la cosa giusta da fare. Lo dovevo a
Ryan, agli Eagles, a Dollar e Aria, a tutti quelli che avevano versato del
sangue perché credevano in una causa. Lo dovevo a loro perché mi erano stati
vicini quando avevo avuto bisogno di conforto e c’erano stati a sostenermi
quando ero giù –che fosse con una battuta cretina o con un abbraccio. Perché
nonostante tutto, non riuscivo a non pensare a Ryan e di nuovo mi ritrovai a
piangere, rannicchiandomi su me stessa. Era una cosa così stupida e insensata
sentire così tanto dolore per una persona che avevo odiato, che non riuscivo
nemmeno a pensare a quello che facevo.
Sentii
la porta dietro di me aprirsi e istintivamente mi voltai per guardare chi
stesse entrando. Era stupido –forse più ancora del dolore che provavo –ma una
piccola parte di me aveva sperato di veder entrare Ryan; un ghigno per deridermi
e il suo «che cazzo ci fai qui, lentiggini, ti sei persa?» prima di accendersi una sigaretta mentre si sedeva
sulla sua poltrona. Invece da quella porta entrarono solamente Sick e Josh. Nessun
sorriso, nessuna battuta cretina di Sick, niente di niente; solo due sguardi
tristi e gli occhi ricolmi di lacrime e tristezza. Josh non mi guardò nemmeno,
non salutò; camminò velocemente verso la sua camera sbattendo la porta per
chiuderla. Non me la sentivo nemmeno di dire qualcosa, visto che potevo solo
immaginare come potesse essere perdere un fratello. Doveva essere un dolore
molto più forte di quello che avevo provato con la morte di Soph ed Edge e di
Aria e Dollar; un dolore molto più grande.
«Cazzo» sbottò
all’improvviso Brandon, alzandosi in piedi di colpo e prendendo il telefono
dalla tasca della giacca. Non si lamentò nemmeno quando sfiorò il taglio al
fianco che sanguinava copiosamente; digitò solamente un numero, portandosi il
telefono all’orecchio e camminando su e giù davanti a me. Sick si sedette sul
divano di fianco a quello in cui ero seduta io e abbandonò il capo
all’indietro, sospirando. Mi sembrò quasi di vedere una lacrima sul suo volto,
ma fui distratta da Brandon che lanciò il cellulare, scagliandolo contro al
muro. «Cazzo» urlò, cadendo inginocchiato a terra. «No, non lei. Chiunque ma non lei». Si portò le mani davanti al volto, nascondendosi da
me e Sick che cercavamo di trattenere le lacrime. Non potevano averlo fatto sul
serio, i Misfitous non potevano essere così stronzi da prendersela con Irene.
Avrei voluto dire a Brandon che forse non aveva sentito il cellulare squillare,
che magari stava dormendo visto che era notte fonda, ma avevo paura che una
bugia –se di bugia si trattava –potesse illuderlo che tutto sarebbe andato
bene. Non potevo illuderlo o la delusione sarebbe stata ancora più grande.
«Brandon»
mormorai alzandomi dal divano e inginocchiandomi davanti a lui; istintivamente
lo abbracciai, lasciando che appoggiasse la sua fronte alla mia spalla e
piangesse. Non sapevo che cosa dire perché temevo che ogni parola fosse quella
sbagliata, così cercai di calmarlo accarezzandogli la schiena.
Sentii
qualcuno bussare alla porta con insistenza e Brandon si sollevò di scatto, prendendo
la pistola da sopra il tavolo e intimandomi di andare dietro a Sick senza
parlare. Lo vidi asciugarsi le lacrime con la manica della felpa in un gesto
che mi fece tenerezza e poi, dopo aver bloccato la porta con il piede, la aprì
di qualche centimetro, per vedere chi ci fosse sul pianerottolo. «Irene» sussurrò, spalancando la porta e abbracciandola.
Sospirai sollevata accasciandomi ancora di più al suolo e lasciando che un
piccolo sorriso nascesse sulle mie labbra ancora ricoperte da sangue e lacrime.
«Perché non hai risposto al telefono? Ho
provato a chiamarti ma non rispondevi e mi ero preoccupato» esordì. Forse voleva sgridarla, ma non ci riusciva,
anche dal suo tono di voce traspariva la felicità di poter stringere Irene
ancora una volta tra le sue braccia.
«Ho sentito che c’era stata una sparatoria qui e sono
subito corsa per raggiungerti tanto che ho lasciato a casa il telefono. Come
state? È successo qualcosa? State tutti bene? Dov’è Ryan, dove sono i ragazzi?» domandò Irene, sciogliendo l’abbraccio di Brandon e
inorridendo quando lo vide ricoperto di sangue e tagli. «Bran, che è successo? Dove… dove sono gli altri?». Guardò me e Sick, cercando con lo sguardo qualcun
altro attorno a noi. Vidi i suoi grandi occhi azzurri riempirsi di lacrime
quando nessuno di noi tre rispose alla sua domanda e subito abbracciò di nuovo
Brandon, scoppiando a piangere senza trattenersi. «Mi dispiace tanto»
piagnucolò tra le lacrime, cercando di consolare Brandon che continuava a
piangere silenziosamente, senza smettere di accarezzare la schiena di Irene,
ancora stretta a lui.
Nessuno
di noi aveva il coraggio di parlare per rompere quel silenzio così pesante e
carico di tristezza, rimanemmo semplicemente lì –io seduta sul pavimento, Sick
sul divano e Brandon e Irene abbracciati –fino a quando Josh non entrò in
soggiorno, con una sigaretta tra le labbra. Indossava solo un paio di pantaloni
della tuta blu, nessuna maglia o felpa; questo mi permise di vedere un grosso
livido sulla sua schiena all’altezza delle coste. Istintivamente mi alzai per
andare verso di lui e guardare meglio la sua ferita; quel movimento però lo
spaventò al punto che si ritrasse prima ancora che le mie mani lo sfiorassero.
«Scusa» sbottò,
aspirando una lunga boccata di fumo senza che riuscissi a vedere la luce nei
suoi occhi mutare: continuava a rimanere spento, come se qualcuno l’avesse
privato della vita. Forse era così che si sentiva, perché Paul era parte di
lui, metà della sua vita. Mi diede le spalle perché potessi controllare, ma
dopo aver tastato un po’, conclusi che non poteva avere coste incrinate, anche
perché avrebbe di certo sofferto di più e non sarebbe stato in grado di
muoversi così liberamente.
Dejà
vu.
Ryan
e il mio curare le sue ferite, le mie mani che si muovevano esperte sul suo corpo
tastando le sue ossa per capire se ci fosse qualcosa di rotto e subito dopo una
nuova immagine: i sui muscoli che guizzavano sotto alle mie dita mentre il suo
corpo si muoveva frenetico contro e dentro al mio, in cerca di quel piacere che
entrambi volevamo. Una nuova immagine, ancora una volta: non più Ryan e il suo
corpo, solo il suo sguardo che lentamente diventava vitreo davanti a me, la sua
mano che abbandonava il mio petto, lasciandomi inconsciamente in custodia
quella collanina che gli avevo rubato. Indietreggiai fino a trovare sostegno
contro il piano della cucina, portandomi una mano al petto, esattamente dove
Ryan aveva appoggiato la sua, prima di morire. Socchiusi gli occhi ascoltando
il battito frenetico del mio cuore che cercava di farmi recepire un messaggio
che non volevo –ma soprattutto non potevo –decifrare.
«Lexi, siamo qui, ti staremo sempre accanto» mormorò Irene, abbracciandomi di slancio. Volevo
spiegarle che non sarebbe stato così, perché non avevo cambiato idea e me ne
sarei andata, perché Miami mi aspettava e dovevo andarmene da lì, da tutto
quello che mi ricordava i morti e il sangue. Istintivamente guardai le mie
mani, notando le chiazze rosso scuro che c’erano sopra.
Sangue.
Sangue
di Ryan.
Non
provai nemmeno a fermare le lacrime che mi offuscarono la vista, accecandomi.
Sentii Irene appoggiare una mano sulla mia schiena, borbottando che era meglio
se mi accompagnava a casa per fare una doccia. Non protestai nemmeno,
semplicemente volevo togliere le ultime tracce di Ryan da me; non volevo più
pensare a lui, non volevo più ricordarmi di lui. Come se non fosse mai
esistito.
«Ci saremo noi, Lexi. Per sempre» ripeté Irene, aiutandomi a indossare il pigiama prima
che mi distendessi a letto.
«No, solo fino al funerale» mormorai, socchiudendo gli occhi e bagnando il
cuscino con le lacrime che, di nuovo, non ero riuscita a trattenere. Stupido
Bronx, stupidi Eagles e stupido Ryan, ecco cosa continuavo a pensare, mentre la
mia mano destra stringeva convulsamente quel piccolo ciondolo sopra al mio
stomaco. Sentii la mano di Irene accarezzarmi il capo cercando di
tranquillizzarmi e provai a calmare il mio respiro, prima che tutto diventasse
nero e rosso. Nero come l’oblio in cui eravamo caduti tutti e rosso come il
sangue che ci aveva spinti giù da quel precipizio. Dovevo solo resistere fino
al funerale, poi me ne sarei andata subito.
Ero
quasi sicura che ci fosse una leggenda che associava la pioggia alle lacrime
del cielo. Non ci avevo creduto per più di vent’anni; ma, anche in quel lunedì
pomeriggio, sembrava che i nuvoloni grigi minacciassero pioggia, esattamente
come il giorno del funerale di Dollar e Aria. C’era però una piccola variante:
non si trattava solo di due ragazzi, erano molti di più e c’era anche Ryan.
Incredibile
come il mio corpo avesse reagito alla sua morte, come avessi scoperto che le
lacrime non erano comandate dal cervello ma dal cuore; perché per quanto mi
sforzassi di non piangere, ripetendomi che odiavo Ryan con tutta me stessa e
che forse un po’ si meritava quello che gli era successo, continuavo a
piangere. Cercavo di non farmi vedere da Brandon e dai ragazzi, perché ero
sicura che loro soffrissero molto più di me –in particolar modo Josh –però
sapevo che i miei occhi arrossati non passavano di certo inosservati, soprattutto
a Brandon e Irene che si erano intestarditi: ogni giorno venivano a casa mia e
sembravano darsi il cambio per farmi compagnia, come se avessi bisogno di una
baby-sitter. In verità avrei preferito rimanere da sola, sfogandomi contro
qualsiasi cosa avesse intralciato la mia strada, invece ero costretta a
rimanere calma, senza lasciar sfuggire lacrime che puntualmente scendevano
sotto alla doccia di sera. Continuavo a ripetermi che non stavo piangendo, che
semplicemente era l’acqua che scorreva e mi bagnava il viso, ma potevo sentire che
alcune gocce d’acqua erano più salate di altre.
«Lexi, siamo arrivati» mormorò Irene di fianco a me, appoggiandomi una mano sul braccio per
scuotermi dai miei pensieri. Mi guardai intorno, vedendo per la prima volta in
quella giornata cosa c’era attorno a me: un lungo viale alberato che aiutava il
grigio del cielo a rendere tutto ancora più cupo e i finestrini di quella
berlina scura bagnati da qualche sporadica goccia di pioggia. Scossi il capo
cercando di cancellare i ricordi dei giorni precedenti e scesi dall’auto,
cominciando a camminare verso la grande quercia. Ero sicura che avrebbero
seppellito Ryan e gli altri Eagles in quell’angolo di cimitero, vicino a tutti
gli altri che avevano versato del sangue per loro. Quando arrivai davanti a
tutte quelle bare sistemate una di fianco all’altra dovetti sedermi perché le
mie gambe non riuscivano più a sostenermi: non era tanto la foto di Ryan –lo
sguardo duro senza nessuna traccia di sorriso –sulla lapide a sconvolgermi; era
quella bara di legno scuro, ricoperta solamente da una bandiera americana e tre
rose –una bianca, una rossa e una blu –sopra. Perché la semplicità di quella
bara, la semplicità dei suoi ornamenti, contrastava con il cuscino di rose che
c’era sopra agli altri. Non lo interpretavo nemmeno come un segno di non
rispetto verso Ryan, anzi; sembrava che proprio per la sua semplicità quella cassa
custodisse una persona importante.
Brandon
si sedette di fianco a me, nella sedia più vicina alla bara di Ryan e degli altri
ragazzi. Irene era esattamente una fila dietro di lui; vedevo le loro mani
intrecciate tra le sedie, come se attraverso quel gesto cercassero di farsi
forza a vicenda.
Sick
occupò la sedia alla mia destra, senza fare nessuna battuta o dire qualcosa di
stupido come il suo solito. Nemmeno Josh, che si sedette sull’ultima sedia in
prima fila, di fianco a Sick, parlò. Rimanemmo semplicemente tutti in silenzio,
ascoltando il vociare della folla che si era radunata per assistere a quel
funerale. Riconoscevo molti ragazzi che avevo già visto gironzolare attorno al
198 di Whittier Street o al Phoenix; c’erano Peter e sua madre, c’era l’altra
cameriera del Phoenix e, nell’ultima fila in fondo, Butterfly. Mai come in quel
momento provai pena per lei. Il trucco scuro colato sulle sue guance e gli
occhi arrossati e gonfi di lacrime. Non c’era lo sguardo di sfida e sufficienza
che aveva di solito; era solamente una ragazza che piangeva a un funerale.
Socchiusi gli occhi, incapace di guardarla ancora perché avevo capito che in
qualche strano modo anche lei aveva amato Ryan e i ragazzi e le faceva male
essere lì, per assistere al loro funerale.
Tornai
a concentrarmi sulla funzione, sul pastore che continuava a parlare di coraggio
e di forza, di quanto una persona potesse combattere fino all’ultimo, di come
Ryan fosse stato coraggioso e i ragazzi avessero creduto in lui. Quando Brandon
si alzò dalla sedia per cominciare il suo discorso, una parte di me si rifiutò
di ascoltare, sicura che mi sarei ferita ancora di più. Eppure non riuscii a
non seguire il suo dialogo, immaginandomi ogni parola che usciva dalle sue
labbra e ricreandomi le scene di cui parlava: lui e Ryan da piccoli, loro due
che ascoltavano JC e gli altri nascosti dentro al cofano di quella vecchia
Mustang nell’officina, l’arrivo di Sick, Paul e Josh, loro vicini di casa. Il
racconto delle prime notti a bere birra e fumare marijuana mentre immaginavano
come sarebbe stato avere una gang tutta loro; i pugni sul naso per decidere
quale nome potesse essere il più appropriato per loro e infine l’arrivo di
Dollar e la tragedia che gli aveva marchiato il volto per sempre. Non aveva
tralasciato nessun Eagles, nessuno; nemmeno Ham e Swift, gli ultimi due
arrivati. Quando concluse il suo discorso e tornò a sedersi, mi asciugai le
lacrime che rigavano le mie guance e non riuscii a trattenere il principio di
una risata quando sentii Sick soffiarsi il naso di fianco a me. Appoggiai la
mia mano su quella di Brandon, stringendola appena e cercando di sorridergli
quando i suoi occhi incontrarono i miei; sentii la sua stretta farsi più forte
e istintivamente ricambiai, notando come la sua immagine si offuscasse ogni
secondo di più a causa delle lacrime.
Non
ascoltai nemmeno il resto della funzione, troppo impegnata a trattenere le
lacrime e torturarmi l’unghia del pollice con i denti; ero quasi sicura che se
avessi continuato in quel modo mi sarebbe uscito del sangue, ma non mi
interessava poi molto. Quando le persone attorno a me cominciarono ad alzarsi
dalle sedie per andarsene mi guardai attorno: Brandon, Sick e Josh continuavano
a parlare con chiunque si avvicinasse a loro, scambiandosi sorrisi stanchi e
pacche sulle spalle. Irene si sedette di fianco a me, rimanendo in silenzio e
aspettando pazientemente che tutti se ne fossero andati. Poi, quando Brandon si
avvicinò a me, senza che lui dicesse una parola, si alzò, raggiungendo i
ragazzi che si erano accostati alle macchine.
«Aspetta Lexi».
La sua grande mano si appoggiò al mio braccio perché non potessi seguire Irene,
per raggiungere gli altri. Quel gesto mi stupì; perché dovevamo rimanere lì e
non potevamo raggiungere i ragazzi? Brandon si avvicinò alla lapide dove era
inciso il nome di Ryan, la stessa che aveva quei caratteri così semplici
rispetto a quelli delle altre pietre, senza nessun disegno, solo una bandiera
americana arrotolata attorno e quel pezzo di stoffa rosso che sventolava di
fianco. Ero sicura che nessun flag fosse importante come quello; di sicuro non
aveva mai preso polvere o toccato il terreno, visto che era di Ryan.
«Che c’è?»
chiesi, ignorando la voce che diventò stridula per il nodo che si era formato
in gola e concentrandomi su quelle tre rose poste sopra alla terra smossa,
davanti a me. Vidi Brandon respirare a fondo, prima di guardare nella mia
stessa direzione. Stavamo entrambi evitando l’uno lo sguardo dell’altro, forse
perché coscienti di come i nostri occhi fossero uno lo specchio dell’altro.
«Grazie per essere rimasta fino a oggi. Vorrei che tu
rimanessi di più, ma so che non posso obbligarti. Sono sicuro che Hunts Point
sia la tua casa, ti ho vista crescere da quando sei arrivata, ti ho vista
cambiare. Se ti dicessi che ti ho vista felice non mentirei nemmeno, sai?
Perché i sorrisi che c’erano sul tuo volto quando scherzavi con Aria non erano di
sicuro falsi. E, ti prego, lasciami continuare, non è una bugia se ti dico che
ti ho vista innamorata. Sei riuscita a vedere oltre, Lexi, non sei rimasta
spaventata dal suo sguardo di ghiaccio, dalla sua altezza o dai tatuaggi e
dalle cicatrici, sei riuscita a vedergli dentro, a vedere il suo cuore. Ryan
non è… era un ragazzo facile, sono il primo che l’avrebbe preso a pugni più e
più volte quando faceva l’idiota, ma gli volevo bene per quello. Tu che sei
arrivata così tardi, hai saputo vedere oltre. Non mi interessano le scuse che
ti inventerai per dirmi che mi sbaglio, perché non cambio idea, puoi stare
tranquilla. Sotto questo aspetto sei uguale a lui, sai? Non gliel’ho mai detto,
ma sono sicuro che tu non gli fossi indifferente. Sai quella volta che ti sei
ubriacata, dopo il funerale di JC, quando alla mattina ti sei svegliata in
camera di Ryan? Io non mi ero addormentato sul tuo divano, lo stavo mettendo
alla prova. Sapevo che se ti avesse vista uscire non ti avrebbe mai lasciata
andare e infatti ti ha fermato. L’ho spiato, l’ho visto salire le scale con la
sigaretta tra le labbra e i suoi occhi che non smettevano di osservarti il
viso, studiandoti mentre eri addormentata. Se avesse saputo che ero sveglio mi
avrebbe rotto un braccio, ma dovevo metterlo alla prova, volevo capire cosa
provava per te. Quando sono corso da te perché Ryan voleva andare dai Misfitous
temevo non mi avresti aiutato, temevo te ne saresti fregata –come probabilmente
avresti fatto all’inizio. Invece no, ho visto il tuo sguardo mutare a mano a
mano che ti spiegavo la situazione, ti ho vista correre per salvarlo e lottare
per fermarlo. Temevo davvero che nemmeno tu riuscissi a farlo, temevo che la
rabbia l’avesse accecato al punto da non vedere come quella sua scelta ti
avesse sconvolta. E poi c’è stata quella frase, non so davvero che cosa sia
successo, ma è cambiato qualcosa. Quando ti ha vista andare via e ha sbattuto
il casco per terra prima di seguirti ho sospirato, perché sapevo che il peggio
era passato. Ho visto il suo sguardo cercarti l’altra notte, l’ho visto
sorridere quando ti ha guardata e forse questo ha ripagato tutti i miei sforzi.
Sapere che c’era quel sorriso nonostante la sofferenza è abbastanza per
ripetermi che sono riuscito a donare un attimo di felicità a una delle persone
migliori che io abbia mai conosciuto. Non devi dire nulla, non ti ho detto
tutte queste cose per metterti in imbarazzo o altro, volevo solo che tu
sapessi, perché è giusto. Volevo che tu vedessi tutto ciò che c’era da vedere
prima di partire. Non cercherò più di farti rimanere spiegandoti quanto tu sia
cresciuta e cambiata, lo prometto. Era solo che dovevo farlo per… Ryan» concluse. Il suo sguardo non si era spostato dalla
lapide su cui era inciso Ryan Calloway,
esattamente come il mio. Eppure, durante tutto quel lungo discorso che in
qualche modo aveva ripercorso il mio spaccato di vita a Hunts Point, lasciando
che le lacrime rigassero –ancora una volta –il mio volto al pensiero di tutto
quello che mi era accaduto. Forse Brandon aveva ragione, forse ero davvero
cambiata e cresciuta lì a Hunts Point, ma io non riuscivo a vederlo e capirlo
in quel momento, troppo sopraffatta da tutte le emozioni che provavo.
Abbracciai
istintivamente Brandon, nascondendo il mio viso contro la sua felpa scura e
stringendo le mie braccia attorno a lui, come se fosse l’unico appiglio che mi
era rimasto. Sentii la sua mano accarezzarmi la schiena e il suo petto
sussultare per un singhiozzo: stava piangendo anche lui e a quel pensiero non
riuscii a trattenere una risata che lo contagiò al punto che come due stupidi
cominciammo a ridere tra le lacrime, attirando l’attenzione dei ragazzi dietro
di noi che si avvicinarono curiosi. Nessuno dei due spiegò cosa ci fossimo
detti –cosa Brandon avesse detto a me –tanto che, in silenzio, ci avviammo
verso le macchine per tornare a casa, visto che dovevo finire di preparare le
valigie; sul serio questa volta.
Guardavo
fuori dal finestrino della macchina il paesaggio scorrere davanti a me e non
riuscivo a parlare; nessuno in quell’auto parlava, c’era un silenzio quasi
innaturale spezzato solo dal ticchettio delle dita di Brandon sul volante.
Irene, di fianco a me, continuava a muoversi irrequieta sul sedile, sapevo che
voleva dire qualcosa, ma allo stesso tempo temeva di spezzare quel silenzio.
Nemmeno Sick, seduto sul sedile anteriore dell’auto, elargiva battute stupide
come il suo solito. Quando Brandon posteggiò la macchina nel parcheggio
dell’aeroporto cercai di calmarmi con un lungo respiro. Avevo imposto una
regola: mi avrebbero accompagnata fino all’aeroporto ma sarei entrata da sola
perché non volevo addii sdolcinati o lacrime, visto che ne avevo già versate
troppe. Scesi dall’auto seguita da Irene che borbottò qualcosa riguardo il
parcheggio così distante dall’aeroporto e aprii il bagagliaio, aspettando che
Brandon mi aiutasse a prendere quella valigia pesantissima che appoggiò a
terra, con un tonfo.
«Grazie, per tutto. Ci sentiamo». Cercavo di parlare il meno possibile, evitando di
incrociare i loro sguardi. Abbracciai Irene trattenendo le lacrime quando mi
ripeté ancora una volta che per qualsiasi cosa avrei potuto contattarla,
riuscii a ridere alla battuta cretina di Sick di sperimentare il bagno
dell’aereo con qualche ragazzo e guardai Josh, rimanendo in silenzio
esattamente come lui. Dovevo solo salutare l’ultima persona, quella a cui forse
tenevo di più, quella che per me aveva fatto tanto, troppo forse.
«Ci sarò, per qualsiasi cosa, d’accordo?» mormorò Brandon al mio orecchio, mentre lo
abbracciavo stretta e cercavo di non piangere. Annuii solamente, deglutendo per
non piangere e senza guardare nessuno mi avvicinai alla mia valigia, camminando
verso la direzione opposta. Sentii qualcuno dire il mio nome, ma non mi voltai
nemmeno, troppo preoccupata che potessero vedermi piangere di nuovo; non
potevano ricordarmi con le lacrime, non dopo tutte quelle che avevo versato
negli ultimi giorni.
Quando
passai i controlli di sicurezza e mi avvicinai al tabellone con le partenze, mi
fermai di colpo. La valigia in mano e lo zaino in spalla. Il volo per Miami
sarebbe partito un’ora dopo, ma ero davvero sicura che Miami fosse la soluzione
a tutti i miei problemi? Scappare ancora era quello che volevo?
Improvvisamente, come un’illuminazione capii; un sorriso si disegnò sulle mie
labbra e cominciai a correre, trascinando la valigia con me.
Caaaaaaaaaaaaaaaalmi!
:D
Per
qualsiasi lamentela, minaccia di morte o cosa brutta, vi prego di parlare al
mio agente che trovate… uh, non ho un agente, ok, allora non potete dirmi
parole!:D Scherzo, ovviamente!
Scherzi
a parte… lo so, non ve lo aspettavate (o forse lo aspettavate e quindi siccome
era la soluzione più gettonata non vi siete soffermate a pensare veramente che
quella fosse la fine di YSM) però, non è finita. Ci sono 2 OS e l’epilogo,
quindi in verità, se questo è quello che avete creduto fosse il finale… sono
riuscita a fregarvi, di nuovo.
Ma
andiamo con ordine, sapete che quando c’è un capitolo lungo anche le note lo
sono perché devo spiegarvi alcune cosucce.
Partiamo!
Ok,
quando Lexi parla di Tupac e Notorious B.I.G…. siccome magari la
storia non la sanno tutti spiego velocemente, ok? Tupac e Biggie (chiamiamo
così il secondo che facciamo prima, anche perché è uno dei suoi soprannomi)
erano due cantanti rapper amici, molto amici. Uno veniva da NY (Biggie) e uno
dalla costa ovest (logicamente se sono in due sto parlando di Tupac). Amici
amici, canzoni assieme, festini, donne… tutte cose da rapper, fino a quando,
fuori da uno studio, attentano alla vita di Tupac sparandogli 3 colpi nel
petto. Si dice che siano stati Biggie e Diddy (Puff Daddy) a commissionare
quell’omicidio che però non è andato a buon (o cattivo, direi) fine. Insomma,
nonostante tutto Tupac riesce a salvarsi e, si dice, da questo momento nasce
l’odio e la divisione tra Weast Coast ed East Coast per quanto riguarda i rapper
e le bande. Quindi, quando Lexi parla di giocare a Tupac e Notorious B.I.G. si
riferisce ai colpi di pistola che sente e alla possibilità che stiano sparando
contro i Misfitous. [che poi la storia dei rapper americani non vi interessa,
vero? Be’, ormai l’ho scritta :P].
Se
passiamo alla parte brutta brutta brutta brutta… molte di voi l’avevano
ipotizzato, ho sempre cercato di deviare cambiato le carte in tavola,
confondendovi con gli spoiler e mettendovi delle piccole pulci nell’orecchio
per farvi capire che niente era sicuro… quello che vorrei far capire è che io
sono la prima che durante quella parte ha pianto tanto, spero solo di essere
riuscita a trasmettervi qualcosa!
Ah
sì, adesso posso dirlo: c’era solo UNA persona che sapeva questa parte di finale,
una scrittrice tra l’altro che non legge YSM. Però, per evitare che la
uccidiate non vi dico il nome :D
Per
quanto riguarda tutti gli altri non-vivi-ma-non-vampiri… giuro che avrei fatto
ancora più strage perché ci avevo preso la mano, però poi ho pensato che un
paio di sopravvissuti sarebbe stato carino averli, quindi mi sono fermata. No,
scherzi a parte: avrei volentieri ucciso più Misfitous di Eagles, però non
volevo che fosse una cosa irreale dove una gang rimane viva e l’altra muore
tutta. Un po’ per ciascuno, sono le due gang più forti del Bronx quindi se
lottano seriamente qualcuno ci rimette.
Per
il funerale… volevo scrivere un discorso come c’era stato per Doll e Aria, ma
non ce l’ho fatta, mi faceva davvero male, così ci ho rinunciato e mi sono resa
conto, durante la rilettura, che il discorso seppur in maniera privata c’è,
ecco, forse così è meglio…
La
fine che non è la fine. Che ha fatto Lexi? Dove va? Dove sta scappando con un
sorriso? Avrete questa risposta nell’epilogo, ma quello che vi dirò vi
scioccherà! Prima dell’epilogo arriverà una OS con un Ryan POV (come?, direte
voi). Os ambientata durante questo capitolo, precisamente la notte della lotta.
Si capiranno pensieri di Ryan e cose che forse non sono mai state chiare.
Entreremo in quella zucca vuota e scopriremo com’è stata quella lotta dal suo
punto di vista, spero che l’idea possa piacervi.
Poi
ci sarà l’epilogo e YSM come storia sarà conclusa. Ma, c’è però un ma. Dopo
l’epilogo arriverà l’ultima vera OS che concluderà il mio rapporto con gli
Eagles. Non è difficile capire di chi sarà il pov, visto che l’avevo annunciato
e se non è di Lexi e non può essere il mio… quindi, riassumendo, in ordine
cronologico avrete: OS Ryan POV,
EPILOGO, OS CONCLUSIVA, chiaro? Ecco, niente, volevo aggiungere che tra
la OS con il pov di Ryan e l’epilogo spero di far passare il meno tempo
possibile, quindi come al solito sbirciate ogni tanto per vedere se ho
aggiornato (sempre se vi interessa, logico!).
Credo
di aver scritto anche troppe note, quindi come sempre vi ricordo il gruppo
avvisi e spoiler a cui potete iscrivervi senza problemi: Nerds’ corner.
E
vi aspetto per la OS, se vorrete.
Rob.
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