Farewell.
Chiuse
gli occhi, forse stanca, forse triste, e sospirò appena,
impercettibilmente.
Restò
così qualche istante, persa nello scrosciare della pioggia
sui suoi
capelli, i suoi vestiti, le sue braccia, i suoi pensieri, riflettendo
su quanto sarebbe stato semplice, in quell'istante, volare,
se
solo all'uomo fosse concesso.
«Ti
prenderai un malanno, prima o poi».
Sollevò
l'angolo destro della bocca, giusto un pochino, e con gli occhi
ancora serrati si rimangiò un 'Magari' e, con estrema
leggerezza,
rispose: «Stai tranquilla nonna, quando torno dentro mi metto
qualcosa di asciutto».
«Fa'
come vuoi» commentò quella, burbera.
«Vado a mettere su il the,
intanto».
Una
risata lieve e poi silenzio, come sempre avrebbe voluto che fosse,
ché riteneva sarebbe stato più bello, il mondo,
senza più parole,
con lettere scritte a mano dove i sentimenti sarebbero stati
più
veri e solo abbracci a dimostrare l'affetto, senza più
discorsi
strani che le facevano venire il mal di pancia, mondo in cui l'amore
non sarebbe stato difficile, ma solo ed unicamente vero, puro.
Sorrise.
«E
sorridevi e sapevi sorridere coi tuoi vent'anni portati
così, come
si porta maglione sformato su un paio di jeans».
Si
voltò lentamente, mentre lui ancora cantava, godendosi
appieno la
miriade di capelli resi quasi neri dalla pioggia, nettamente in
contrasto con gli smeraldi verdi capaci di splendere
meravigliosamente anche a quell'ora, anche quella sera che di
splendere non aveva voglia neanche la luna.
«Vuoi
un po' di the?» chiese, quasi ridendo. «Nonna lo
sta preparando».
Un
sorriso. «Passo, grazie. Volevo solo salutarti, sapevo di
trovarti
in strada».
Sentì
un groppo in gola al pensiero che davvero ci fosse qualcuno in grado
di conoscerla così bene, nonostante a volte avesse come la
sensazione di non conoscersi granché neanche lei stessa
– Ciao,
sono io, io io, intendo, che ne dici di andare a prendere un
caffè e
fare due chiacchiere, giusto per conoscersi meglio?
«Ti
vuoi sedere un po' in veranda con me?» propose tentennando.
Non
le rispose. Portò le mani nelle tasche dei pantaloni e, con
l'angolo
sinistro della bocca sollevato, andò a sedersi sul dondolo
che molte
volte, anni prima, li aveva visti abbracciati a guardare le stelle.
Lei
sorrise a metà, il naso arricciato e la parte destra della
bocca
all'insù.
Piaceva
loro, una volta, scherzare su quella loro differenza che li rendeva
complementari, in qualche modo, trasformando i loro mezzi sorrisi in
un sorriso intero, parti combacianti di un vecchio puzzle dimenticato
in soffitta, incredibile coincidenza seminata dalla natura in un
punto della Terra e dimenticata, probabilmente, in seguito, ma
scoperta con infinita ingenuità.
«Oggi
ho visto un libro che ti sarebbe piaciuto, sai?»
esordì, entusiasmo
misto a tristezza. «Mi sarebbe piaciuto comprartelo,
ma...».
«Non
importa, hai fatto bene» lo interruppe, sedendosi.
«Non mi piace
che mi si facciano regali».
Sorrise
appena. «Sì, lo so. Ricordi quella volta che ti ho
regalato il
portachiavi a forma di stilografica?».
«Hai
dovuto aspettare fino a Natale a darmelo, prima non l'ho
voluto»
rise, portando le ginocchia al petto e posando la testa sul dondolo,
così da poterlo guardare meglio. «Me l'avevi messo
in quella
scatola rossa con quel babbo natale disegnato».
Iniziò
a ridere. «E hai pure commentato “Sembra ubriaco,
guarda che naso
rosso! Ha pure la pancia da ubriacone!”».
Si
persero qualche istante, lontani sei anni da lì, immersi nel
freddo
dicembrino di un Natale senza neve, seduti ancora in quel bar che mai
più li aveva visti, o almeno non insieme.
«Mi
smontavi sempre, qualsiasi cosa carina facessi, e poi ti entusiasmavi
quando facevo cose banalissime, per cui io mi sarei anche sputato in
un occhio» bisbigliò, di ritorno alla
realtà, ad un presente in
cui vivevano (fin troppo) lontani l'uno dall'altra.
«Ho
un concetto di carino un po' diverso dal resto dell'universo, tutto
qui» bisbigliò a sua volta.
«Hai
molti più concetti discordanti, Stellar».
Lo
fissò negli occhi, con un intensità tale da
sentire quasi la testa
girare.
Erano
anni che nessuno la chiamava così, con quel soprannome che
tanto
l'aveva fatta sentire speciale quando i pensieri erano ancora
incentrati sulla scuola e la sua famiglia disastrata, quando sentirlo
cantare quella canzone faceva fermare le sue lacrime salate di cui
neanche sentiva più il sapore.
«Scusa,
non... non volevo intristir-».
«Chiamami
di nuovo così» implorò.
«Non
volevo intristirti, Stellar. E no, non piangere, dai, per favore.
Perché piangi?». Le si avvicinò,
accarezzandole la guancia
sinistra con la mano destra mentre con la sinistra percorreva su e
giù la tibia destra, asciugandole le lacrime con il pollice.
«Sono
qui».
«Mi
manchi tanto» disse, a mezza voce. «Non
è proprio la stessa cosa,
adesso che non ti vedo tutti i giorni, e rido e piango senza di te.
Sembra quasi inutile».
Non
le rispose, di nuovo. Si sporse e l'abbracciò.
«Dimmi
che non te ne vai».
«Non
posso».
«Dimmi
che non te ne vai».
«Non
me lo chiedere più» supplicò, la voce
rotta e il cuore
figuriamoci.
Sarebbe
stato proprio quello che avrebbe voluto poterle dire, Non
me ne vado più, te lo prometto, resto qui e ti preparo i
pancakes
che ti piacciono tanto e ti abbraccio ogni giorno, scaccio i ragni e
ti canto una canzone ogni sera,
ma non poteva, non avrebbe potuto mai, dovevano rassegnarsi entrambi
all'idea che non si sarebbero potuti appartenere più di
così, mai
se non nei sogni, ma i sogni, per loro, non erano abbastanza.
Affondò
il viso nei suoi capelli quasi blu, sentendo il suo naso a contatto
con la clavicola e le sue lacrime mescolarsi all'umidità
già
presente sulla sua camicia. «Passa?».
Lei
annuì e si staccò, asciugando le lacrime con le
dita e tirando su
col naso. «Passa, tranquillo».
Tornarono
seduti un po' più distanti, bagnati come due pulcini.
«Studi
ancora, vero?».
«Sì»
rispose. «Come previsto».
«E...»
iniziò, timoroso. Deglutì. «Stai con
qualcuno, adesso?».
«No».
Lo guardò negli occhi e notò il disappunto.
«Come previsto»
aggiunse, quasi sfidandolo.
«Non
sono nessuno per dirti cosa fare» commentò,
sospirando.
Lo
ignorò. «Si sta bene, lì dove
sei?».
«Non
male. Ho un pianoforte e un sacco di libri...», ma
non ci
sei tu,
avrebbe voluto
aggiungere.
Non
disse altro.
«E
dov'è che sei, esattamente?» domandò,
quasi con liberazione, come
se fossero anni che attendeva di poter fare quella semplice, esatta,
domanda.
«Non
so spiegartelo, ma è un bel posto».
Annuì.
Si aspettava qualcosa del genere.
Da
lontano si sentirono i rintocchi del campanile, e lui, con un mezzo
sorriso, si alzò. «È ora di andare.
Torno a trovarti, ti va?».
Si
issò sulle gambe al suono del terzo, sentendosi stranamente
più
pesante del solito, e di certo non per colpa della pioggia che ancora
le restava attaccata ai vestiti. «Torna quando vuoi, Fabri.
Io ti
aspetto sempre».
«Non
aspettarmi» disse, a metà tra l'ordine e la
supplica, e lentamente,
ma non abbastanza, le accarezzò le labbra con la sua bocca
rossa che
sempre le aveva dato l'impressione di sapere di lampone, quasi.
Si
guardarono qualche istante negli occhi, verde nel blu, altri sei
rintocchi, poi lei, semplicemente, con il suono del temporale nelle
orecchie, lo guardò allontanarsi con quella camminata strana
che
l'aveva sempre fatta sorridere un po'. Tirò indietro i
capelli
avvicinandosi alla porta. Sentì il profumo del the e
portò una mano
sulla maniglia.
Il
dodicesimo rintocco, e prima di vederlo sparire oltre la curva, con
voce tremante, semplicemente, persa nella sua strana camminata,
sussurrò «Buon compleanno, amore».
Okay,
salve.
Questa
shot l'ho scritta mesi fa, ed ho aspettato questo preciso istante per
pubblicarla perché a mezzanotte sarà il
diciannove settembre ed
appunto il compleanno di questo ragazzo qui di cui non voglio
iniziare a parlare altrimenti finisco a pasqua.
Comunque.
Non
mi dilungo, per vostra fortuna, però voi come sempre se
avete voglia
potreste lasciarmi scritto un parere – che può
essere anche una
parola sola, eh, non pretendo poi molto.
Un
abbraccio fortissimo a tutti.
Human_
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