Le sembrò
freddo,rigido, distante, una statua di sale. Due giorni non gli erano bastati a
scordare quello che era successo, tra lui, nero, e la donna bianca del bel
mondo che l’aveva provocato fino a fargli fare quel che non avrebbe voluto.
-Sono stata
una stupida, Wade…
Quanto
costa al tuo orgoglio ammetterlo, donna? La fissò a lungo con quel suo sguardo
indagatore, nero come la pece,accarezzandosi lentamente la guancia, quasi a
voler cancellare anche il ricordo delle cinque dita di Rossella.
-Entra entro. A quest’ora non c’è nessuno
in giro, ma non vorrei che qualcuno potesse vederci: lo spettacolo di un negro
e di una bianca insieme potrebbe ferire la sensibilità di qualche onesto
cittadino e di noi due…sarei io quello che rischierebbe di più.
Lei lo
seguì senza discutere o recriminare, all’interno di un appartamentino spoglio e
disordinato, sommariamente arredato con vecchi mobili rimediati da qualche
rigattiere. Sul tavolo, spessi volumi dalle copertine scolorite, barattoli di
vetro pieni di matite e pennelli e imbrattati di colori. Rossella immaginava
così la soffitta di un artista a Parigi, e Wade era anche quello, oltre che
medico. I due grandi ritratti di donna che campeggiavano sulle pareti erano
opera sua.
-Mia
madre.
L’avrebbe
immaginato da sola. Gran bella donna, con gli stessi tratti delicati del
figlio.
-L’hai
fatto tu?
-Detesto
i dagherrotipi: riescono ad imbruttire anche la creatura più perfetta. E lei è
bellissima.
Le aveva
messe indubbiamente a profitto, le lezioni di Leeland McRae: ottima mano,
eccellente senso cromatico. Non che lei se ne intendesse più di tanto, ma
aveva sempre avuto buon gusto. Gli
avrebbe chiesto di farle il ritratto. Nuda, magari, come si usava a Parigi:
avrebbe posato per lui senza vestiti addosso e poi…E poi lui avrebbe messo
sulla tela la sua anima di puttana, esattamente come era riuscito a dipingere
l’amore di madre negli occhi di Lola Butler. Le voleva bene, e c’era da
capirlo, con quel che la donna era riuscita a fare per amore di suo figlio. Lei
non aveva fatto nulla di nulla per il “suo” Wade. Le era stato difficile
amarlo, generato con un uomo che aveva sposato a sedici anni per andarsene da
casa e che le aveva fatto il solo favore di lasciarla vedova a diciassette. Il
piccolo, cresciuto da serve e bambinaie pronte ad accorrere ad ogni suo
capriccio, era venuto su viziato e arrogante. All’età giusta era entrato in un
collegio militare, quindi era stato
ammesso a West Point. Lì avrebbero fatto di lui un gentiluomo, un cavaliere del
Sud senza macchia e senza paura. Perché, esistevano ancora, il Sud e i
cavalieri senza macchia e senza paura? La dignità,l’onore, l’orgoglio? Che ne
era stato di loro? Rossella aveva sbagliato dacchè stava al mondo, a crederli
quel che li aveva sempre creduti. Altri li avrebbero chiamati arroganza,
alterigia, superbia fine a se stessa. E la dignità, l’orgoglio, il rispetto di
sé, quelli veri, avrebbe potuto insegnarglieli Lola Butler, una sgualdrina di
colore.
Si sforzò
di non pensare a niente, e gli occhi le finirono sull’altro quadro, giusto
giusto per non finire sopra la faccia impudente di Wade. Riproduceva il musetto
grazioso di un’adolescente un po’ selvatica, bruna ed arruffata.
-Anna.
La voce
di Wade si era incupita, prima di spezzarsi in un rantolo. Anna. Una ragazzina
dei quartieri bassi, una stracciona bianca di Philadelphia. Figlia d’immigrati,
italiana, forse spagnola. Un sudicio animaletto che a dodici, tredici anni
della vita doveva conoscere tutto quanto. Una puttanella da quattro soldi,
pensò Rossella. Capace che avesse tentato di farselo, Wade, o che se lo fosse
fatto, per pochi centesimi e una fetta di pane. Maledetta.
-Non c’è
più. L’ha ammazzata il tetano.
Un male
che non perdona. Doveva aver sofferto,la ragazzina, per quel poco che ne sapeva
lei.
-Era
figlia di italiani. Ogni tanto, veniva
a pulire l’ambulatorio. Non portava mai le scarpe, solo certi zoccolacci troppo
grandi che le scappavano sempre dai piedi. Aveva piedini piccolissimi, come
quelli di una gran dama, come…come i tuoi. Si sarebbe fatta bella, a dispetto
di tutto quanto, anche se aveva i capelli arruffati, i vestiti sudici e non
mangiava abbastanza. Spesso andava scalza e non so, forse era un presentimento
che mi portavo appresso, temevo che potesse farsi male. Le ferite ai piedi sono
pericolose, il suo quartiere, la sua strada, la sua casa erano pieni di
sudiciume…Un giorno le ho dato dei soldi perché potesse comprarsele, quelle
benedette scarpe. Da allora non l’ho più vista: sana e in piedi sulle sue
gambe, intendo dire. Brannighan, il collega che lavorava con le all’ospedale,
mi aveva dato a intendere che probabilmente al padre della ragazzina non era
andato a genio che le avessi regalato dei soldi: forse aveva immaginato qualche
secondo fine, chissà, avevo sentito dire anch’io che gli italiani sono gelosi
delle loro donne, Anna stava crescendo, s’era fatta parecchio bellina…Ed io non
ero molto rassicurante, immagino, giovane, scapolo e con questa bella faccia
nera. Agli immigrati i neri non piacciono per niente, al Nord come al Sud:
parlano inglese, si accontentano di paghe da fame e lavorano come muli senza
accampare mai quelli che io chiamo diritti e i padroni pretese; gli italiani,
quando arrivano qui, non capiscono la lingua e faticano parecchio ad impararla;
gli irlandesi bevono e, ubriachi, diventano incontrollabili. E così finisce che
gli immigrati ci accusano di portargli via il lavoro, di tentarci con le loro
donne, non ci possono soffrire e non perdono tempo a dimostrarcelo coi fatti.
“Brannighan ha ragione”, pensavo. Poi, un giorno, mi hanno cercato. La
ragazzina stava male, terribilmente male, e nessuno capiva di che potesse
trattarsi: era coricata sul letto dei suoi genitori, la testa all’indietro,
rigida come un bastone, gli occhi sbarrati, le labbra stirate sui denti e tutte
imbrattate di bava e di sangue.
“Pregate
per lei”, ho detto a tutta quella gente. Aveva una ferita infetta sulla pianta
del piede destro: un chiodo arrugginito le si era conficcato nel calcagno mentre
tornava da fare la spesa, un paio di giorni prima, a sentire la madre. Avrei
pregato anch’io, perché una convulsione più forte delle altre mettesse fine a
quello strazio. Sapevo che non avrei potuto fare niente per salvarla, Anna era
la prima paziente che mi moriva…Aveva solo dodici anni.
Pieno
d’orgoglio anche lui, come sua madre. E altrettanto generoso e sensibile.
Magari aveva la testa piena di idee
strampalate, modi poco ortodossi, la pelle del colore sbagliato, ma aveva un
cuore grande come una casa. Poteva dire altrettanto, Rossella, degli uomini che
aveva conosciuto, sognato, amato, il vuoto Ashley, lo sciocco giovane Hamilton,
il suo primo marito, il rozzo Frank Kennedy, perfino Rhett, furbo e falso?
Fatui, superficiali, arroganti, egoisti e pieni di sé, tutti quanti. Suo figlio
si chiamava Wade, e non doveva rassomigliare all’uomo che portava il suo stesso
nome, aldilà del fatto che non lo vedesse da anni, aldilà del fatto che fosse
bianco e non nero. Il suo, doveva essere un
mondo di feste da ballo e di ragazze da far volteggiare nelle piroette
del valzer; o un mondo di divise e di armi e di sudici selvaggi a cui, così gli
era stato insegnato, bisognava far saltare le cervella.
Era
assurdo amare un uomo come quello, si disse Rossella, un uomo di dieci anni più
giovane, un nero duro, ostinato e orgoglioso, che non credeva in niente di ciò
in cui aveva sempre creduto lei. Le piaceva, ecco, le piaceva per la sua
giovinezza, la sua avvenenza, la sua pelle liscia e le sue carni sode. No, non lo
amava, le piaceva e basta. Ma era più che certa che le sarebbe stato difficile
se non impossibile amare un altro, dopo.
*
Lo guardava
avanzare verso di lei, la testa alta, gli angoli delle labbra sollevati in un
sorrisetto malizioso, gli occhi neri che la studiavano senza soggezione. La
vuoi provare, una cura efficace contro l’insonnia e il mal di testa, una cura
che se ci stai attento non ha effetti collaterali e non nuoce alla salute? Beh,
è indubbio che non saresti venuta qui sola e di nascosto, se non avessi avuto
per la testa quello che ci avevo io.
-Adesso si fa
a modo mio. E non ti permetterò di schiaffeggiarmi un’altra volta.
Non era diverso
dai suoi congeneri, anche se era cresciuto nella casa di un gran signore e
aveva studiato all’università: lascivo, sensuale come tutti i neri, pensava
Rossella e nessuna frusta lo teneva a bada, mentre avanzava verso di lei con
quel suo passo elastico da danzatore, i piedi scalzi, la camicia bianca senza
colletto arrotolata sugli avambracci ma abbottonata fino alla gola. La bocca
era ferma, seria, ma gli occhi gli ridevano come se avesse avuto voglia di
giocare. Rossella lasciò cadere lo scialle d’angora e il cappellino e si sfilò
i guanti, mentre lui continuava ad andarle incontro, sbottonandosi la camicia
con le lunghe dita brune e poi sfilandosela dalla testa con un solo gesto
agile, aggraziato e sensuale.
Faceva sul
serio, ma alla donna non rimase il tempo per rendersene conto. Bello da
lasciare senza fiato: alto ma non altissimo, meno di Rhett; un corpo che
sembrava scolpito, una pelle color bronzo fuso che luccicava come se fosse
stata unta con dell’olio e mandava, alla luce, riflessi ramati. Contrariamente
a quasi tutti i neri, aveva una spruzzata di pelo sul petto, probabile retaggio
del sangue bianco che gli scorreva nelle vene. Perfetto, perfino in quella sua
seduttività sfacciata, perfetto aldilà del suo colore. Beh, non sei proprio
nero nero, Wade…Ma non era neppure uno di quegli scoloriti ottavo sangue che
facilmente si possono prendere per bianchi: le sue narici erano strette ma
inconfutabilmente negroidi, le labbra spesse. Era un negro in tutto e per
tutto, le piacesse o no. Anche se aveva studiato ad Harvard era pur sempre il
figlio di una schiava. E tra poco, insieme avrebbero fatto qualcosa che non
avrebbe mai dimenticato, a trentasette anni, con due figli grandi, una bambina
di sei anni, un compagno che prima o poi l’avrebbe sposata. A trentasette anni.
A quell’età, pensava, sua madre era già nonna. Avesse potuto vederla, sua madre,
quella gran dama sussiegosa che l’aveva educata cercando d’inculcarle i valori
in cui credeva, nei quali avevano creduto i suoi antenati, nei quali tutti i
gentiluomini e le gentildonne del Sud credevano, in nome dei quali era stato
versato tanto sangue, erano state piante tante lacrime…Forse il mondo stava
andando a rotoli, ma lei non aveva nessuna intenzione di fermarlo, adesso che
Wade le stava di fronte e, accarezzandoglieli, le liberava i capelli dalle
forcine che glieli tenevano raccolti in quella solita composta, semplice ed
elegante acconciatura; e poi le slacciava i ganci del corpetto, era molto
abile, chissà quante altre volte l’aveva fatto, e quando il suo sobrio abito da
mattina le si era ammonticchiato ai piedi, con altrettanta abilità s’era messo
ad armeggiare con i legacci del bustino, con i nastrini che le chiudevano la
camiciola di batista.
-No, Wade.
-Avremo
giocato a modo mio…Non ricordi?
Gli aveva
posato il palmo aperto sul petto nudo, per respingerlo.Avrebbe voluto giocare
anche lei, ma mostrarsi a lui per quello che era le avrebbe procurato
imbarazzo. Aveva trentasette anni, il ricordo di quattro gravidanze sul corpo
troppo magro. E lui era giovane e bello.
-Sono vecchia
e brutta, Wade…
-Voialtri
bianchi vi vergognate di tutto fuorché di quello di cui fareste bene a
vergognarvi davvero. Gli imbecilli e i bigotti fanno sesso vestiti, e tu non
sei né vecchia né brutta. Il piacere è anche negli occhi, Rossella. E nelle
mani, nelle narici, nella bocca, dappertutto signora…O forse non sei mai stata
amata come si deve…
Sorrise
scotendo la testa. E le afferrò il polso, ma senza brutalità. Mi fa fare quello
che vuole, pensava Rossella, sentendo sulla mano, attraverso la stoffa dei
calzoni, il calore del sesso duro di Wade. Riesce a farmi fare quello che vuole
con la dolcezza, senza usare la sua forza. Avesse accostato gli scuri. Le
avesse lasciato tenere addosso la biancheria. Se avesse notato lo spettacolo
delle sue rughe e delle sue carni avvizzite, lui che era giovane e bello ne
sarebbe rimasto disgustato. Lui, che sperava nel domani, lo stesso domani che a
lei metteva paura. Con la mano sinistra, gli artigliò la schiena. Aveva le
unghie appuntite e non le sarebbe dispiaciuto sentirlo gemere per il dolore.
Così impari a mancarmi di rispetto, Wade, sporco negro.
-Non mi piace
avere segni che sanguinano sulla pelle. Non era nei patti, farsi male. Avremmo
giocato a modo mio…
e ci saremmo scambiati soltanto piacere, Madame. Non sono
il tuo giocattolo. E nemmeno il tuo…schiavo.
“Credi che non
l’abbia immaginato che cercavi proprio questo, quando mi guardavi e imploravi
da me il piacere,come una mendicante?” Le prese la mano, gliela baciò, sul
dorso, sul palmo, sulla punta delle dita sottili. E lasciò che lei gli carezzasse
le labbra, gliele socchiudesse fino a sentire l’interno umido e caldo della
bocca, la saldezza dei suoi grossi denti bianchi.
“E’ di essere
amate come si deve, che hanno bisogno quelle come te”, pensava Wade,
spogliandola degli ultimi indumenti. “Io conosco il tuo mondo, Rossella, lo
conosco anche se non ne ho mai fatto parte. So di te e di quelle come te,
cresciute convinte di essere al centro dell’universo, in un lusso artificioso
che vi guasta il carattere, dove ogni capriccio è soddisfatto ancor prima di
venire espresso.” Perché agli uomini
bianchi piacevano così, le donne, eterne bambine da sottomettere e
dominare, incapaci di fuggire dalla prigione delle consuetudini. Aveva letto,
da qualche parte, che in Cina si solevano sformare i piedi alle neonate,
fasciandoli stretti per impedir loro di crescere. Ai cinesi quell’andatura
esitante, conferita dai piedi minuscoli, ripiegati su se stessi, piaceva: la
trovavano sensuale. O forse era perché con i piedi storpiati in quel modo,
quelle povere creature non potevano fuggire, proprio come gli schiavi ribelli
che, prima della guerra, in certe piantagioni venivano sgarrettati. Nemmeno una
donna viziata ed infantile poteva fuggire via dal suo mondo, da consuetudini
come i matrimoni precoci di convenienza, come una vita fatta di vuoto e di
noia, come quel malinteso senso d’orgoglio che, in realtà, era tutto fuorché
rispetto di se stessi. Ma dovevano essere bastati pochi attimi e qualche
carezza impudica a cambiarla, la gran dama. Aveva giocato con il suo corpo e
con la sua pelle, ricambiato i suoi baci e i suoi morsi, dimenticando dieci
anni, un colore e un mondo intero di differenza. E adesso gemeva sotto di lui,
sul vecchio letto che cigolava e aveva il materasso troppo duro per i suoi
gusti, soddisfatti soltanto dalla seta e dalle piume. Da quanto l’aspettava,
un’occasione del genere? Un nero, il nero caldo selvaggio e lascivo di cui
aveva sentito favoleggiare e che, per
soprammercato, era pure bello,intelligente e pulito, aveva la pelle chiara e le
narici delicate. Quanti uomini hai avuto, prima di me, Madame? I due mariti, e
quel Rhett che lo è stato, mille anni fa, e adesso non lo è più, anche se dorme
con te, le poche volte che state insieme? Soltanto loro? Noo, non sono geloso,
che vai a pensare. Curioso, ecco, anche gli uomini lo sono. Qualche altro
rapporto? Qualche amante occasionale? Con la loro aria compunta e sussiegosa,
le gran dame del Sud, che scambiavano la spocchia per orgoglio, rivelavano
spesso insospettabili sorprese. Questa, comunque, non doveva mai essere stata
con un uomo di colore. Era la prima
volta che si godeva la pelle vellutata di un nero, la sua bocca di miele, i
suoi grossi muscoli, il suo impeto e la sua strapotente virilità. Era la prima
volta che affondava i denti nel frutto proibito, e doveva averlo trovato
straordinariamente gustoso.
La guardò
raccattare da terra i suoi abiti, rivestirsi. Doveva essere terribilmente
complicato farlo, con tutta quella bardatura di legacci e stecche di balena,
era centomila volte meglio essere uomo che donna. Si stiracchiò pigramente sul
letto, incurante della sua nudità, spudorato quanto lei era timida, spudorato e
orgoglioso di quel colore che era bellezza e non vergogna.
-Serve
aiuto?-biascicò lentamente ripensando al corpo di lei, fragile e pallido, bello
ancora, nonostante la magrezza, i trentasette anni e le quattro gravidanze che
l’avevano segnato. Hamilton, il ragazzino, l’aveva saputa amare? E il vecchio
Frank Kennedy? Rhett la canaglia, forse lui sì, doveva essere bravo a dar
piacere alle donne, e lei non lo aveva mai dimenticato, neppure quando, anni
prima, se n’era andato via sbattendo la porta. E di lui, quale ricordo avrebbe
conservato? Non un ricordo d’amore, forse, ma ugualmente caldo e forte, come
rhum e caffè mischiati insieme. Una volta e una sola, come animali del bosco,
come gatti randagi che si rincorrono sui tetti. Fa meno male del laudano. Fa
scordare i pensieri. E non ci saranno conseguenze, perché so stare attento: non
dovrai giustificare un figlio nero inventandoti chissà che scusa, Madame.
Wade finì di
rivestirsi, guardandola mentre si pettinava. Era complicato, farlo da sola,
quasi come vestirsi. Non l’aveva mai fatto senza aiuto, parimenti alle altre
dame del bel mondo, fin da ragazzina aveva potuto disporre di schiavette
addestrate alla bisogna e adesso doveva essere quella Prissy a provvedere alle
sue necessità. Quella donna dipendeva dagli altri, come una bambina piccola,
come un’invalida:era inconcepibile mancare di rispetto verso se stessi fino a quel
punto, pensava Wade, aiutandola ad allacciarsi la fila interminabile di
bottoncini che le chiudevano il corpetto. L’aiutò perfino a pettinarsi,
raccogliendo in una treccia che poi lei si arrotolò alla meglio intorno alla
testa, i suoi capelli. Erano splendidi, lunghissimi, lisci e morbidi come la
seta, di una tonalità castana piena e scura, accesa da ciuffetti che sarebbero
stati bianchi, se l’hennè non li avesse tinti d’un rosso fiammante per darle,
qualche anno ancora, l’illusione della giovinezza.
-Quello che è successo oggi…non si ripeterà
più e resterà segreto, vero?
-Wade Butler è
una tomba, bella signora. Eppoi solo la marmaglia se ne va in giro vantando le
sue conquiste.
“Ma una come te
sarebbe capace d’inventare che l’ho stuprata…E gli altri le crederebbero.”
*
Paddy
O’Malley: il suo primo amico, a New Orleans. Le circostanze erano state curiose: stanco di sentir
parlare francese e desideroso di ascoltare una volta tanto la sua lingua, Wade
aveva oltrepassato Canal Street, la linea di demarcazione tra il Vieux Carré e
i quartieri nuovi, abitati dagli americani. Aveva vagato per un bel po’ senza
meta,andando dove lo portava il cavallo. In Magazine Street, l’animale s’era
fermato a brucare un po’ d’erbaccia stenta che cresceva lungo il cordolo del
marciapiede e lui aveva deciso che forse era il caso di fermarsi.
Quella
somigliava alle strade di Philadelphia che aveva frequentato quando, fresco di
laurea, era diventato l’aiuto di Brannighan: canali di scolo a cielo aperto
dove grufolavano maiali, capre, cani rognosi e bambinetti mezzi nudi, tuguri
squallidi che s’affacciavano su una stradaccia dissestata che, quando pioveva,
doveva riempirsi di pozzanghere fangose, un paio di magazzini, opifici e chissà
che diavolo d’altro, neri e puzzolenti come la bocca dell’inferno e, in fondo
alla strada, un edificio scuro, incombente, che aveva tutta l’aria di un
orfanotrofio o di un ospizio di mendicità, e che non era molto distante da un
casino da quattro soldi dove una mezza dozzina di mignotte men che ordinarie sollazzavano a buon mercato i
maschi del quartiere. In giro, facce bianche che lo squadravano torvo,
lentigginose facce irlandesi con la miseria stampata sopra. Quella gente non
aveva mai visto troppo di buon occhio la marmaglia nera, pericolosa concorrente
nell’accanita lotta tra miserabili per strappare una giornata di lavoro. Non
era stata una buona idea, non filarsela alla chetichella prima che qualcuno
potesse notarlo, pensava Wade. Ma, arrivati a quel punto, il partito migliore
era fingere indifferenza: e se qualcuno avesse provato a molestarlo, tanto
peggio per lui.
Scese da
cavallo, si sedette su di un gradino con il blocco degli schizzi sopra le
ginocchia: il maniscalco che stava ferrando un mulo a un paio di metri da lui
era un bel soggetto interessante, con quella mole gigantesca e quella barbaccia
rossa da guerriero vikingo.
-Ehi, ma questo
sono io!, aveva esclamato quando, incuriosito, s’era avvicinato a Wade per
vedere che diavolo stesse facendo. E Wade non avrebbe mai più dimenticato,
oltre al suo sorriso cordiale e incompleto incorniciato dai lunghi peli rossi
dei mustacchi, la pacca che gli aveva mollato sulla spalla e che lo aveva fatto
rintronare tutto.
-Chiedimi
quello che vuoi, ma quel tuo scarabocchio devo averlo a tutti i costi:
incorniciato, farà bella mostra nel salotto di casa e gli amici mi invidieranno
perché Paddy O’Malley si è fatto ritrarre da un artista, come i veri signori…Lo
sai che sei proprio bravo, ragazzo?
O’Malley doveva
aver passato da un pezzo la cinquantina, ma si manteneva forte e vigoroso come
una quercia: aveva una faccia rossa quasi quanto i capelli, paffuta e incisa da
poche rughe d’espressione, su cui facevano spicco il naso rincagnato da pugile
e gli occhi, due fessure di un azzurro chiarissimo. Era enorme, tanto alto che
Wade,il quale basso non era, gli arrivava a malapena alla punta del naso. Sul
polso scoperto dalla manica arrotolata della camicia, spiccava un curioso
tatuaggio bluastro.
-Sono un Feniano
(militante del Sinn Fein, il movimento per l’indipendenza dell’Irlanda che
allora era sotto il dominio inglese N.d.A.). Gli aveva borbottato
all’orecchio con un vocione da orco. Molti irlandesi che Wade aveva conosciuto
all’ospedale dei poveri a Philadelphia lo erano. Donne belle, bionde, ma spesso
sfatte dalle gravidanze o consumate dalla tisi, uomini dalle facce rosse e
allegre, che amavano la birra e menare le mani e che, come i negri, cantavano
canzoni dolci e struggenti per ammazzare la tristezza. Molti di loro si
definivano combattenti per la libertà, patrioti in esilio. Non erano stati solo
la miseria o le carestie ricorrenti a spingerli ad andarsene dall’Irlanda.
-Allora siamo
fratelli.
Fratello, gli
aveva detto così. Ma era giovane da essersi figlio, era nero e se la cavava
bene a parlare, proprio come se avesse studiato. In qualche scuola,
effettivamente, doveva averci messo piede, per imparare a disegnare così. Non
ne aveva conosciuti altri, come quello, di neri, Paddy O’Malley, il maniscalco
di Magazine Steet. I negri che aveva conosciuto e che popolavano il suo
immaginario grugnivano invece di parlare, non si lavavano, e sgranavano i loro
occhiacci bianchi sulle ragazze perbene, non avevano i modi da signore di
quello lì e il bel coraggio che aveva avuto lui a cacciarsi in un posto dove i
musi neri non mettevano mai piede. Era sfacciato, insomma. Sfacciato, ma
simpatico.
-Perché mi hai
detto fratello, dì, negro?
-Leggo i
giornali, irlandese. So che la causa dei Feniani è giusta. Gli inglesi non vi
trattano molto meglio di come i
nostalgici della Confederazione schiavista trattino noialtri: ammiro chi lotta
per ripigliarsi ciò che è suo.
-Per essere un
dannato sacco di carbone ne sai, di cose, tu…
Ma non c’era
animosità nella sua voce catarrosa: quel negretto che disegnava come un artista
e parlava come un libro stampato gli piaceva. Se qualcuno avesse osato fargli
del male, se la sarebbe vista con lui. E nessuno, in quella strada, osava
muovere un dito, se Paddy O’Malley non era d’accordo.
-Mi è
sembrato…Ma sì, mi è sembrato di sentire qualcuno lamentarsi, o mi sbaglio?
-Non ti
sbagli,sacco di carbone. E’ la mia vecchia. Sta male da tre giorni. Un dente
marcio le ha fatto gonfiare la guancia come un melone:non mangia, non dorme,non
sa più a che santo votarsi ma ha una paura maledetta del cavadenti.
-Penso che
potrei fare qualcosa.
-Un momento,
negro: noi siamo buoni cristiani, non venire a parlarci di quei vostri dannati gris-gris
o come diavolo li chiamate.
-Non correre,
O’Malley. Anche se potrebbe sembrarti strano, ho studiato da medico, su al
Nord. Ho la mia borsa, nella sacca della sella e anche del cloroformio: se ti
fidi, cavo il dente a tua moglie senza che nemmeno se ne accorga.
-Se lo farai,
Dio te ne renderà merito.
Casa O’Malley
non era molto grande, ma ordinata, pulita e dignitosa, con le stoviglie blu a vista nella piattaia e le
tendine di pizzo alle finestre. Ci stavano larghi, lui e Cait, dacchè tutti i
figli che avevano messo al mondo si erano sposati e se n’erano andati. E ci
stavano bene. Il lavoro di maniscalco rendeva discretamente, ed era stato quel
modesto benessere, unito all’imponente stazza fisica, a fare di O’Malley il
personaggio più rispettato di Magazine Street.
La povera Cait
O’Malley, coetanea del marito ma gialla e grinzosa come una mela cotta e più
brutta del diavolo, si era limitata a sgranare gli occhi sullo sconosciuto e,
abituata ad ubbidire senza fiatare oltre che sfinita da giorni di quell’orrendo
mal di denti, aveva aperto la bocca, inalato il cloroformio e non si era
lamentata mentre Wade, armato di tenaglie, faceva il suo lavoro.
C’era voluta
tutta la forza dei suoi robusti muscoli, pensava Wade mentre tornava per
l’ennesima volta in quella strada, per estirpare quel dente marcio che se ne
stava saldamente abbarbicato alla mascella di Mrs. O’Malley, ma ne era valsa
ampiamente la pena. La donna era guarita perfettamente, e lui ci aveva
guadagnato un amico: un amico dai modi rozzi, forse un po’ volgari ma leale e generoso,
in compagnia del quale era piacevole scambiare quattro chiacchiere e sorbirsi
un buon caffè forte corretto con uno schizzo di ottimo whisky. E, quel che più
contava, s’era guadagnato la stima dell’intero quartiere: il giovane dottore
nero non era venuto per strappare il
pane di bocca a quella povera gente, né per guardare in un certo modo le
ragazze bionde di Magazine Street. Il giovane dottore nero che sorrideva
sempre faceva nascere i bambini, curava
le febbri, metteva a posto le ossa rotte, strappava via senza dolore i denti
guasti. E, il più delle volte, non voleva neppure essere pagato.
*
Wade stava
aspettando che O’Malley terminasse di
ferrargli il cavallo. Era una bella
giornata d’autunno, una delle ultime, poi il vento freddo che soffiava dal Nord
avrebbe portato l’inverno anche a New Orleans: l’inverno breve ma intenso del
Sud che faceva gelare l’acqua dei bayou (paludi N.d.A.) e costringeva la
gente a tapparsi in casa; per fortuna durava poco, a Carnevale l’aria sarebbe
stata piacevolmente tiepida e la vita
avrebbe ripreso a pulsare, intensa come sangue giovane dentro le vene.
Nel magazzino
che stava dall’altra parte della strada, era il solito andirivieni di ragazze
che trasportavano ceste piene di bottiglie: si sfinivano per un tozzo di pane e
quattro soldi, curve in piedi a lavare
bottiglie anche per tredici ore al giorno. Dovevano essere una ventina, tutte
giovanissime: un sorvegliante controllava che lavorassero di lena e, se qualcuna
si fermava a tirare un po’ il fiato, erano bestemmie da far rizzare i capelli e
ceffoni che volavano. Tutte le ragazze erano bianche, aveva notato Wade, e
altrettanto il loro sorvegliante, un tipo alto, segaligno, con lunghi capelli
unti che gli spiovevano sul collo e grossi mustacchi macchiati di nicotina. Non
era diverso da quelli che per secoli avevano angariato gli schiavi nelle
piantagioni anzi, era possibilissimo che avesse fatto proprio quello, prima
della guerra: il cipiglio c’era, le bestemmie pure e perfino la lascivia con
cui, fingendo indifferenza, palpava il sedere alla più carina, una brunetta grassottella non più
alta di un metro e cinquanta.
-Una scena già
vista, in qualsiasi posto abbia messo piede. La schiavitù non finirà mai,
finché ci sarà gente che ha tutto e gente che non ha nulla. Maledetto denaro…
-Ragioni come
uno di quegli anarchici scomunicati, negro.
E O’Malley
continuò a giocherellare con la catena d’argento che portava al collo:
devotissimo e patriota, non se ne sarebbe separato per niente al mondo, dal grosso
crocifisso, dalla medaglietta della Vergine Addolorata e dall’emblema del Sinn
Fein che a quella catena erano appesi.
-Non credi che
Gesù Cristo l’avrebbe preso a calci nel culo, quell’individuo, se ne avesse
avuto l’occasione?
-Non bestemmiare,
negro.
-Ma io non sto
bestemmiando.
Un grido
stridulo e acuto richiamò la loro attenzione. Subito, Wade si precipitò di
corsa verso la ragazza che usciva urlando e piangendo dal cancello
dell’opificio, tenendosi con la mano sinistra la destra che sprizzava sangue come il getto d’una fontana.Aveva
tutti i vestiti insanguinati, la faccia rigata di lacrime rosse di sangue e
nere di fuliggine, e urlò ancora per un bel pezzo, prima di accasciarsi,
svenuta,tra le braccia di Wade. Era
minuscola, con una faccia più bianca del gesso e i capelli biondi tagliati
corti come quelli di un ragazzo.
-Sono un
medico.
Il sorvegliante
aveva borbottato qualcosa, forse l’ennesima bestemmia, ma l’aveva lasciato
fare. E Wade aveva esaminato la ferita. Buttava fuori a spruzzi sangue
arterioso, rosso come le ciliegie mature, e, nitida, precisa e pulita come
sempre lo sono i tagli prodotti dai cocci di vetro, le attraversala il palmo
della mano destra e le arrivava fino al pollice dove, profonda com’era, lasciava
intravedere il biancheggiare dell’osso.
-Vetro. E’
peggio di un coltello. Questo scempio va ricucito e alla svelta. Datemi un
fazzoletto, un legaccio, una corda, la prima cosa che trovate per fermare
l’emorragia. E qualcuno veda di farsi venire in mente un posto più pulito di
questo, quello che va fatto non è lavoro da far qui.
Il convento era
piuttosto lontano, le case d’abitazione più luride del magazzino, la ragazza
stava sempre peggio…Il bordello era a pochi passi di distanza, ma qualcuno storse
il naso. Emmeline era una bambina. Emmeline aveva un padre che…
-Rischia di
morire. E se l’unico posto pulito è quello…
-Suo padre…
-Vada a farsi
fottere, suo padre.
*
-Ciao piccola.
Ti chiami?
La ragazzina,
svaniti ormai gli effetti del cloroformio, strabuzzò gli occhi e fissò a lungo
la bella faccia nera che la sovrastava, sorridendole con gentilezza. La mano
fasciata le mandava al cervello punture acute di dolore e perché diavolo si
trovava sdraiata in quel lettone, dentro quella stanza che tanfava di chiuso,
profumo ordinario e cipria da quattro soldi?
-Io sono
Emmeline. E tu sei quello che mi ha curata, adesso ti riconosco.
-Eh, già.
Riesci a muovere le dita, Emmeline?
-Sì, ma mi fa
male.
Non doveva
avere più di tredici, quattordici anni e, se possibile, ne dimostrava anche di
meno. Era piuttosto bruttina, con quella faccia ossuta da scimmietta, quella
carnagione più bianca del latte cagliato e quelle stoppie gialle che le
spuntavano dritte sulla testa. Le dita erano gonfie e dolorati, ma riusciva a
muoverle. Menomale, segno che i tendini flessori ed estensori non erano stati
lesi. Diversamente, avrebbe rischiato di restare storpia per il resto dei suoi
giorni.
-Sono un
dottore, e posso assicurarti che va tutto bene. Se mi dici dove abiti, ti
accompagno a casa.
Emmeline si era
morsicata le labbra e lo aveva guardato con certi occhi che sembravano quelli
di una lepre di fronte al fucile spianato del cacciatore. Suo padre sicuramente
l’avrebbe caricata di busse, se si fosse presentata a casa in compagnia di un
negro, che fosse un bracciante di piantagione piuttosto che un medico yankee
giovane, bello e gentile poco importava. Non fu necessario che O’Malley
parlasse per raccontargli chi era Jackson Pusey, tanto lui aveva capito tutto.
Comunque i Pusey stavano in un tugurio che si affacciava su una stradaccia
parallela a Magazine Street: madre, figlia, patrigno e tre o quattro ragazzini
con le croste in testa e il moccio al naso. L’unica cosa nuova e pulita era la
bardatura sfoggiata con orgoglio dall’uomo quando si trattava di andare a
menare qualche negro poco rispettoso, vestaglione e cappuccio bianchi sempre
freschi di bucato e stirati a puntino. Pusey non era irlandese, a detta di
O’Malley detestava i “fottuti papisti” e Dio solo sapeva come facesse a
mantenersi e a mantenere la sua scalcagnata tribù. Forse Dio non lo sapeva,
precisò la grassa madame del casino con la sua parrucca bionda, i suoi denti
neri e i suoi ori falsi, ma gli abitanti del rione sì: moglie e figliastra si
spaccavano la schiena per portare quattro soldi a casa, e se entrambe
ostentavano teste rapate a zero come palle da biliardo, era perché quella
carogna le aveva perfino costrette a
vendere i capelli a un fabbricante di parrucche. L’ultima volta che sua moglie
era rimasta incinta, il degno soggetto l’aveva fatta abortire a forza di calci
e poco c’era mancato che l’avesse ammazzata.
-Odia i negri.
Suo padre cacciava gli schiavi fuggiaschi coi cani.
Alla fine, fu
una puttana scalcagnata della casa ad accompagnare la povera Emmeline: vedere
la sua bambina in compagnia d’un simile arnese non avrebbe fatto granché effetto, a quel Pusey. Anzi, era possibile
che a quell’ora se ne stesse sdraiato sul suo letto a smaltire le conseguenze dell’ennesima
sbornia.
-E’ un buon
tiratore?
-Pessimo.
Buono a
sapersi. Ma era meglio mettersi in
guardia.
*
Erano le otto
di sera, ed era stata una giornata faticosa.Molto lavoro tra i neri di Congo Square .E quel parto
difficile,a Magazine Street, una ragazzina nubile, al primo figlio, che era
stata mollata dal fidanzato, aveva minacciato di uccidersi quando i genitori
l’avevano buttata fuori da casa e alla quale Wade aveva promesso di assisterla,
dopo essere riuscito a sistemare i più gravi tra i suoi problemi. Se non altro,
i genitori se l’erano ripresa in casa, dove si mangia in nove si mangia anche
in dieci. Forse il seduttore sarebbe tornato sui suoi passi, l’avrebbe sposata
accomodando tutto. Wade lo conosceva, e si era ripromesso di parlargli. Era un
bravo ragazzo, ma a diciannove anni soltanto le responsabilità che gli erano piovute tra capo e collo lo avevano spaventato. Se
avesse visto il bambino, un bel maschietto di quasi quattro chili, forse…
Veder gli altri
nascere in un mondo di miseria e d’ingiustizie, vederli morire e non poterci
far niente. Essere medico significava anche quello, che gli piacesse o no. Era
stanco, e si sarebbe buttato nel letto vestito, senza neppure toccare la cena di Mexcal. Ma bussarono alla porta e, da
come bussavano, sembrava dovesse trattarsi di qualcosa di serio. Non c’è posto
per la mia stanchezza, in questa vita che ho scelto: si nasce e si muore, e io
devo esserci, anche se preferirei pensare a me, una volta ogni tanto, e vorrei potermi buttare vestito sul letto a
dormire, sperando almeno di riuscire a farmi passare il mal di testa.
-Prego?
L’uomo che lo
fissava come se avesse voluto mangiarselo
poteva avere una trentina d’anni e si portava appresso un’aria alquanto macilenta, ma sicuramente non l’aveva
cercato perché si occupasse della sua salute. Minuto, biondino, un ciuffo di
capelli dritti che gli spioveva poco sopra gli occhi spiritati. Aveva in due incisivi centrali rivestiti d’oro, come
certi zingari e l’alito gli puzzava di whisky cattivo, di birra stantia e di
cipolle fritte.
-Che hai fatto
a mia figlia, negro?
“L’ho salvata,
compare. Aveva un’arteria recisa, e sarebbe anche potuta morire dissanguata. “
-Tu hai
addormentato Emmy con quella porcheria che ti porti appresso, e poi le hai
messo addosso le tue sporche manacce…
-Le ho salvato
la vita, compare. E mi dispiace solo che non posso salvarla da te.
La mano scivolò
sull’impugnatura del coltello, ma Wade non si lasciò sorprendere: un colpo
vibrato col taglio della mano disarmò l’intruso e una ginocchiata sparata tra
le cosce lo fece crollare carponi sul piancito di legno.
-Fuori da casa
mia, Pusey.
“Sparisci,
verme, prima che ti aizzi contro il cane. Sparisci dalla mia vista, e vedi di
piantarla con la commedia del bravo padre che si preoccupa per la figlia. Senza
il mio intervento Emmeline sarebbe morta. Morta, hai capito? Ammesso che
t’importi più di lei che di quei quattro soldi che porta a casa rischiando di
storpiarsi e che tu ti bevi alla bettola. Se fossi un bravo padre non
l’affameresti, non la terrorizzeresti, non l’avresti costretta a vendersi
perfino i capelli. Un bravo padre, già…Beh, bravo o cattivo, mi sembri un po’
troppo giovane per esserlo davvero, ma non per imparare a comportarti da uomo.
Va’ a casa tua, e vedi di buttare nel fuoco la vestaglia e il cappuccio, Pusey.
Tanto io non ho paura.”
La luce incerta
del lampione a gas aveva illuminato quell’angolo di strada e la figura di Wade,
inquadrata dalla porta. Era quello che non avrebbe dovuto essere, pensava
Pusey: un maledetto nero messo lì per
far risaltare ancora di più la sua nullità. Il mondo era cambiato, e qualcuno
che stava in alto voleva che le cose andassero come stavano andando sotto i
suoi occhi chiari e spiritati. Suo padre le aveva cacciati con i cani, con i
rinsecchiti, pulciosi e feroci catahoula della sua muta, capaci d’inseguire il
selvatico, bestia o negro che fosse, da un sorgere del sole all’altro,
dall’inferno su questa terra a quello dell’aldilà. Li rispettavano tutti
quanti, allora, i Pusey, ed era prima che quel maledetto Lincoln, l’avevano
ammazzato e ben gli stava, che quella maledetta guerra perduta sovvertissero ogni logica. Ma anche il
dottore negro lo avrebbe conosciuto, il suo inferno in terra e nell’aldilà.
Molto presto.
*
Mexcal, lo
stregone, da morto non metteva più neanche tanta paura: un vecchio piccolo,
ossuto, con una barbetta da capra sul mento e occhi sporgenti da basilisco che
nessuno aveva osato chiudergli in Congo Square. Era anche possibile che
qualcuno credesse che sarebbe ritornato: la via e la morte gli ubbidivano, gli
avevano sempre ubbidito, come cuccioli docili, come scolaretti. Con la forza che appartiene ai non morti,
avrebbe sfondato il coperchio della bara, scavato la terra del cimitero con quelle sue dita che
sembravano artigli, e sarebbe tornato.
Ma chi gli
aveva piantato una pallottola proprio in mezzo agli occhi era certo che Mexcal
non sarebbe potuto ritornare per vendicarsi: l’aveva visto in faccia, quando
gli aveva strappato dalla testa il
cappuccio bianco, ma non avrebbe parlato, ammesso e non concesso che fosse
stato in grado di riconoscerlo. E gli occhi sgranati del vecchio, grandi occhi
sporgenti da basilisco, con le cornee iniettate di sangue non avrebbero
tormentato le notti di chi, per quello che aveva fatto, non avrebbe provato
rimorso. Il cane gli aveva lasciato il segno dei suoi denti sul braccio, prima
di farsi accoppare. Una brutta ferita: e se fosse stato idrofobo? Macché, se la sarebbe cavata, quella stupida
bestia aveva semplicemente cercato di
difendere i padroni, il vecchio stregone e il dottore nero, come da che il
mondo è mondo i cani han sempre fatto.
Il sangue si
mescolava ai bossoli delle pallottole, ai petali appassiti delle camelie
bianche, ai cocci dei vetri che erano caduti giù dai quadri. Adesso pendevano,
sghembi e sforacchiati, dopo che lui e Pusey si erano esercitati al tiro al
bersaglio con le loro pesanti Colt.
Prima il vecchio. Quindi il cane. Il
dottore l’aveva beccato di striscio a un braccio, prima che Pusey gli chiedesse
di lasciarlo a lui. Ma Pusey era un pessimo tiratore, e gli era rimasto un
colpo soltanto nel tamburo, dopo che aveva sprecato gli altri sui quadri e sui
vasi. Era anche ubriaco, ma andasse al diavolo. E c’era rimasto,
quell’imbecille, perché se la sua pallottola aveva fallito il bersaglio, il
coltello lanciato dal dottore gli era entrato nella pancia fino al manico.
L’avrebbero rimpianto in pochi, pace all’anima sua, men che meno la moglie e la
figlia, che trattava peggio di due negre. Comunque si era battuto da uomo e
anche chi lo aveva sempre disprezzato avrebbe accompagnato la sua bara al
cimitero fingendo di asciugarsi gli occhi.
Quando Pusey
era crollato a terra reggendosi con le
mani le budella che gli scappavano fuori dalla ferita, lui aveva scaricato il
tamburo della sua Colt contro il negro che fuggiva dalla finestra. Aveva tre
colpi a disposizione, la sua mira era buona, poteva anche essere che l’avesse
preso. O no, forse. Ci fosse stato qualcun altro dei loro…Ma avevano deciso di
fare da soli. C’erano tracce di sangue un po’ dappertutto, sangue chissà di
chi, anche in giardino, sotto la finestra. Ma il cadavere non era stato
ritrovato e il cavallo era sparito dallo stallaggio. Doveva essere riuscito a
farla franca, il maledetto.
*
I bravi uomini
del Sud avevano fatto giustizia. Mexcal, lo stregone, non camminava più sulla
terra e le mamme avrebbero dovuto inventarne un’altra, per minacciare i bambini
quando facevano i capricci. In quanto all’altro…Scomparso, letteralmente
inghiottito dalla notte. In città aveva molti amici, forse se ne stava nascosto
da qualche parte. Poteva anche essere fuggito. O giacere in fondo al fiume. Se
l’avessero preso, ammesso che fosse ancora vivo, avrebbe dovuto rispondere
dell’omicidio di un bianco e nessun tribunale avrebbe osato invocare la circostanza
della legittima difesa: anche se erano entrati, non autorizzati nella
sua casa, anche se gli avevano sparato addosso per farlo fuori, dopo che avevano
ucciso il suo cane e un povero vecchio che, aldilà delle apparenze, non aveva
mai fatto male a una mosca. Quelli che Mexcal stringeva tra le dita artritiche,
un cappuccio bianco e qualche petalo avvizzito di camelia, non erano prove
sufficienti a scagionare un uomo che la gente voleva condannato e impiccato.
Perché era nero, non perché aveva ucciso, per difendersi, un pusillanime, una
spazzatura umana che viveva alle spalle della moglie e della figlia ma era pur
sempre un bianco. Questo bastava.
Rossella
rigirava tra le dita la lettera. Poche parole, vergate con la grafia
disordinata di Rhett. Poche parole che avrebbero dovuto renderla immensamente
felice.
Sarò da te fra cinque
giorni, una settimana al massimo. Prepara i documenti, ci sposiamo.
Bastava quella promessa a cancellare l’ansia per quel che
di terribile poteva essere accaduto a Wade? Al suo amante di una volta sola, di
cui non avrebbe mai detto a Rhett? Del suo amante nero e impetuoso che le aveva
promesso il silenzio e forse non camminava più sulla terra, come il vecchio
stregone, come il grosso cane che anche
lei aveva visto lanciarsi abbaiando contro la palizzata del giardino? Tra i
neri del Vieux Carré, compresi i suoi servi, le voci si sprecavano: c’era chi
lo dava in fuga, chi morto, chi nascosto in città, chi già catturato e in
galera, a girarsi i pollici in attesa di un processo sommario e di una condanna certa: che non meritava,
glielo diceva il cuore.
“Se fosse
morto, me lo sentirei dentro” pensava la donna. Le era capitato altre volte.
Non le erano passati presentimenti di morte per la testa, anzi, si sentiva
straordinariamente tranquilla: Wade stava bene, glielo diceva il cuore. Era in
salvo, dove niente e nessuno avrebbe potuto nuocergli, Wade che come tutti gli
idealisti non aveva mai avuto paura dei
suoi sogni e aveva fede nel futuro. Anche se, in fondo alla sua strada, forse
c’era la forca ad aspettarlo.
*
-Non toccare
quella cosa, signorina Kitty! E’ del diavolo!
Prissy si era
affrettata a strappare dalle mani l’oggetto che questa aveva raccattato da
terra, giocando in giardino:un sacchetto di pelle chiuso con una lunga stringa,
che sicuramente doveva contenere qualcosa. Di che genere, Prissy preferiva non
saperlo, anche se non era difficile immaginarlo: era un gris-gris, una di
quelle terrificanti fatture del cerimoniale vudù, capaci di mandarti malattia,
sventura e morte. La faccia della donna s’era fatta grigia, i denti le
battevano per la paura.
-Si può sapere
che…
-Non lo
toccate, Miz Rossella!
Gli occhi globosi di Prissy sembrarono lì lì
per schizzare dalle orbite, quando le mani della signora strapparono quel
sacchetto dalle sue, lo aprirono e ne rovesciarono il contenuto: un ciondolo
d’argento e di turchese; una piuma di pappagallo; alcuni petali avvizziti di
camelia; e la pagina di un libro, di un libro noioso che parlava di
capitalismo, proletariato e plusvalore, con sopra impressa l’impronta di una
grande mano dalle lunghe dita.
FINE