Forevermore
- Per sempre -
La
foglia cadde. Morta.
Come altre sue
sorelle non era più riuscita a mantenere una presa salda sul
ramo che la ospitava e così era scivolata sempre
più giù, fino a toccare dolcemente la terra
umida, là dove tutto era iniziato.
Oramai
l’autunno
volgeva al termine e presto ogni cosa avrebbe fatto il suo corso.
Lì, nel bosco, gli abitanti non si erano ancora destati dal
proprio riposo e solo qualche passerotto mattiniero riempiva
l’aria di cinguettii acuti mentre i primi raggi del sole si
facevano strada timidamente tra le fronde degli alberi, creando
un’atmosfera quasi irreale. Ma, se si prestava un
po’ d’attenzione, si poteva sentire un fruscio
regolare spezzare la quiete regnante.
Fra due
cespugli di more scure fece capolino una figura eterea.
Una fanciulla,
dalla pelle nivea e i lunghi capelli ramati, camminava lentamente lungo
il sentiero di foglie, divenuto un tappeto dorato. Il corpo esile era
avvolto da uno sfarzoso vestito nero con diversi inserti di pizzo
rosso, sgualcito, e i piedi, nudi, erano feriti e incrostati di sangue
rappreso.
Sembrava
stesse vagando da molto.
Continuò
il suo cammino finché non raggiunse la sua meta. Nascosto in
quel fitto bosco stava un piccolo cimitero,
ridotto ormai ad un rudere. Dallo stato in cui versava, era evidente
che fosse abbandonato ma la giovane sembrò non curarsi
dell’apparenza e seguitò la sua avanzata, leggera
come la nebbia
che serpeggiava tra le lapidi. Poi, raggiunta una di queste in
particolare, si fermò a contemplarla a lungo. La pietra
calcarea era stata corrosa dal tempo ma il nome incisovi sopra era
ancora leggibile, resistente alle intemperie.
William.
La ragazza si
chinò leggermente in avanti e passò due dita
sull’incisione, delicatamente, come se un gesto troppo
avventato avesse potuto cancellarla per sempre.
Per
sempre...
Così
le aveva detto lui un giorno. Sarebbero stati insieme per sempre.
Ma il destino
avverso li aveva separati, tingendo i loro corpi di un cupo colore
scarlatto, cosicché lei si era trovata
d’improvviso a vagare in solitudine per la foresta della
quale sapeva tutto ma dove tutto le appariva estraneo, quasi fosse
imprigionata in un sogno incantevole e terribile allo stesso tempo.
Quel luogo, tante volte silenzioso spettatore del sentimento che legava
i due giovani e impotente testimone della tragedia che li aveva
interessati, era divenuto il loro giaciglio e lo sarebbe stato per
l’eternità.
La fanciulla
si inginocchiò di fronte alla lapide mentre brucianti
lacrime vermiglie le impiastravano il candore del viso. Uno
scricchiolio alla sua sinistra la fece voltare lentamente fino ad
incontrare un paio d’occhi dorati. Un gatto nero la
fissò qualche secondo e, forse intuendo il suo stato
d’animo, le andò incontro per strofinare il muso
contro la sua veste. Quella allora abbozzò un sorriso e
prese ad accarezzargli il manto morbido e liscio, gesto che la bestiola
apprezzò miagolando sonoramente. Poi, regalando
un’ultima carezza all’animale e rivolgendo ancora
una volta lo sguardo lì dove riposava il suo amato, la
giovane si sollevò e si incamminò nella direzione
dalla quale era giunta, quasi fluttuando, per dissolversi tra gli
alberi.
Da molto tempo
ormai quello era un rito quotidiano atto ad esorcizzare le proprie
paure, ora che pregare non sarebbe più servito a nulla. Ora
che le risate si erano spente e i rumori, così come ogni
altro suono, si erano affievoliti fino a sparire. Tutto taceva, ora.
E
la foglia cadde. Morta.
Così
sarebbe stato... per sempre.
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