Julia.
L’unica
cosa che ricordo di lei è che non si era arresa. Ricordo la
sua camminata fiera
lungo i corridoi dell’ospedale quando tornava-tornava.
Ricordo i suoi capelli biondi e opachi, lisci a ciocche
che le si disponevano attorno al viso magro.
Mi
ha sempre ricordato Cleopatra, anche questo ricordo.
Ricordo
i suoi occhi magnetici che mi fissavano le calde mattine di luglio come
le
notti gelide di dicembre. Quegli occhi color carta dei cioccolatini che
mangiavamo
di nascosto, sotto le coperte del mio letto. E ricordo anche come la
luce della
torca che usavamo per proiettare ombre sul muro le definisse gli zigomi
alti.
Di come le scurisse i solchi delle occhiaie viola.
Ricordo
di quanto quelle ombre sui muri somigliassero ai miei incubi. E non
sono certa
di quale tra i due fosse lei a costruire; se le ombre o i miei incubi.
Ero
a pezzi. Rotta. Sconnessa.
E
ricordo di come le sue dita lunghe riuscissero a rimettermi insieme, di
come le
sue carezze sapessero plasmarmi. Mi ricordo la sensazione di rinascita
che quegli
occhi magnetici, sebbene gonfi, mi portassero la sera. Una di quelle
caramelle
colorate e dure in mano che non voleva chiamassi
‘pastiglie’.
-Le
pastiglie sono per le persone malate, Monique.- diceva –E noi
non siamo malate,
Monique.- diceva –Vero, Monique? Vero?-
Vero, Monique? Vero?
Ricordo
la sua voce roca e graffiata che mi faceva fremere la punta delle dita.
Ricordo
di come poggiava la lingua sui denti mentre aspettava una risposta, ma
non mi
ricordo il mio regalo dei 18 anni. O il mio primo bacio. O la sigla
della
pubblicità dei cereali.
E
sono sicura che se qualcuno mi aprisse la testa adesso troverebbe la
fotografia
delle sue labbra graffiate e segnate dai miei denti e dalla sua paura
inesplosa. Quella delle sue gambe lunghe e storte, con le ginocchia
troppo
vicine fra loro, ma che mi piacevano ugualmente.
Ed
è questo quello che ricordo: come lei mi facesse sentire, di
come nemmeno io
avessi paura stando con lei. Le pareti che andavano a fuoco mentre lei
mi
baciava un’altra volta.
Ed
i suoi ringhi, ricordo.
Le
sue spalle curve e magre, il pigiama largo che era così
facile toglierle. E
come nemmeno in quei momenti crollava.
-Vattene,
Monique.- diceva e io non mi muovevo –Vattene!- urlava e
scattava in piedi, mi
guardava con gli occhi improvvisamente vuoti.
Lanciava
verso di me l’oggetto più vicino, faceva cadere
uno dei tavoli de
la-sala-ricreativa, urlava. E io non mi muovevo.
Ricordo
il suo smalto rosa carne che non si avvicinava per niente al colore
diafano
della sua pelle. Scrostato ai lati.
E
ricordo come lei si avvicinava pericolosamente a me brandendo un
oggetto
innocuo che nelle sue mani diventava un’arma. Ricordo come me
lo puntasse
contro.
Era
in quei momenti che mi accorgevo di essere malata. Mi accorgevo che lei
era
malata. E speravo fino in fondo che mi piantasse la penna che brandiva
nella
gola, che spegnesse per sempre la luce.
Ricordo
di come trattenevo il respiro aspettando che lo facesse, ricordo il
tremolio
incerto della sua mano e ricordo le corse degli infermieri che la
sollevavano
di peso portandola lontana da me. E lei urlava, e scalciava, e si
dibatteva
fino a quando qualcuno non arrivava con la siringa del tranquillante.
-Mi
dispiace.- sussurrava ogni volta a denti stretti guardandomi per
l’ultima volta
prima di addormentarsi ancora stretta forte dai due infermieri.
Ricordo
la sua presa forte e le sue labbra sul collo, il suo respiro che mi
faceva
scendere i brividi lungo la schiena. Ricordo il muro freddo contro cui
mi
sbatteva quando usciva dall’isolamento, i suoi baci violenti.
Ricordo
il profilo delle costole sul suo torace, ma non ricordo il giorno del
mio
compleanno. O il muso del mio gatto. O la targa della macchina di mio
padre.
L’unica
cosa che ricordo di è lei. Lei che non
si è arresa, al contrario di me.
-Ti
viene mai voglia di morire?- le chiedevo –Di lasciare tutti,
di andartene. Al
diavolo tutto.- le chiedevo –Di avere la certezza che ormai
è troppo tardi per
essere salvata, finalmente troppo tardi.-
Ed
era così che mi sentivo, ricordo anche questo. E ricordo il
suo sguardo che si
opponeva silenziosamente alle sue parole. –Non ci penso mai.
A morire,
intendo.- e che poi si accendeva quando era la verità che le
usciva dalle
labbra sottili –Dormirò, quando sarò
morta.-
Ed
entrambe sapevamo che non era una frase sua mail testo di una qualche
canzone
che aveva sentito fuori-fuori.
Lei
non si era arresa, lo ricordo e mi sento in colpa.
Guardo
il sangue uscire dai miei polsi segnati e ricordo il suo Prozac rubato
alla
farmacia, il barista del bar al quale andavamo il-giorno-della-gita che
era
innamorato di lei.
Ricordo
com’era sentirla gemere e com’era bella arrotolata
nelle lenzuola grigie del
suo letto.
Aspetto
che arrivi il buio, l’eterno buio e non ho paura di andare
all’inferno. So che
potrei aspettarla e che, presto o tardi, lei tornerebbe a stare con me.
E non
ci sarà morte che ci potrà separare, allora.
Non
ci sarà la depressione, non ci saranno i suoi attacchi
d’ira.
Il
pavimento sotto di me è freddo e ormai sento di esserlo
anche io. Respiro a
fatica e non c’è più motivo di tenere
gli occhi aperti.
L’unica
cosa che ricordo, ora mentre il mio stesso sangue mi macchia la
camicia, è che
non le ho mai detto che l’amavo.
è
la prima volta che pubblico qualcosa di originale. spero vi sia
piaciuta e che, in ogni caso, mi facciate sapere il vostro parere.
grazie
mille.
xx
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