Serjj
I
am so alone, so
cold
My
heart is to
scared to glow
I
wish the
sunrise to come
Take
my soul from
this cold
Lonely
shell, I
am free
Opeth
‒ Forest of
October
I
am the voice in
the wind and the pouring rain
I
am the voice of
your hunger and pain
I
am the voice
that always is calling you
I
am the voice, I
will remain
Wolf
Song
I
boschi del Rjazan' erano i più belli di tutta la Russia.
Tra
le paludi mefitiche che si stendevano a perdita d'occhio, fino a
trascolorare nella linea sfocata dell'orizzonte, torreggiavano selve
fitte e impenetrabili, stagliate sul manto candido della neve come
colonne di ardesia nera che sostenevano la volta biancogrigra della
cattedrale del cielo. Gli alberi erano neri, antichi quanto gli
innumerevoli inverni che avevano indurito la loro corteccia, e
protendevano i rami carichi di aghi scuri e minuscole pigne in
raggiere perfette e imponenti, spesso ammantate di brina.
Elisej
Nikolaevič Bogdanov viveva quasi al confine con la foresta, in un
piccolo podere che la sua famiglia amministrava e coltivava per conto
di un padrone lontano, che viveva quasi tutto l'anno tra Mosca e San
Pietroburgo.
Per
vivere raccoglieva la legna secca che trovava sul terreno gelato e
disseminava la foresta di trappole; appena dodicenne, era il sesto di
otto fratelli, e i proventi del podere non erano sufficienti per
sfamare a dovere la sua numerosa famiglia. Spesso suo padre aveva
parlato di cercare un nuovo posto dove stare, di rifugiarsi nella
capitale ‒ dove pareva che il lavoro abbondasse e le occasioni di
fare fortuna non finissero mai ‒ ma nessuno di loro era mai
riuscito davvero a staccarsi dalla terra selvaggia a cui i Bogdanov
erano rimasti aggrappati per generazioni. Non esisteva un passato che
non comprendesse le insidie delle paludi e la bellezza maestosa e
silente della foresta nera, non era nemmeno lontanamente concepibile
un futuro immerso nei torbidi vicoli fumiganti di una città.
A
volte, verso il finire dell'autunno, Elisej si sedeva nel terreno
già
coperto di neve e osservava il cielo. Specialmente di notte, quando
il freddo si faceva pungente e la Luna brillava di un chiarore
indicibilmente bello, come una lanterna magica che - il bambino
l'aveva sentito dire da sua nonna - richiamava dal fitto della selva
i demoni e la Baba Jaga. Ne aveva paura, ma al contempo sentiva una
sorta di attrazione insopprimibile per il buio, che lo copriva di una
coltre rassicurante appena venata d'argento; e poi, quando era
particolarmente fortunato, Elisej riusciva a sentire i lupi.
Vivevano
nelle profondità della foresta, molto più a nord
dei villaggi. Il
loro canto, però, proveniente da chissà quali
regioni remote,
squarciava il velo della notte come una nenia dalla delicatezza
ineffabile, suggestiva; era un richiamo così dolce che a
volte gli
occhi di Elisej si riempivano di lacrime, e il cuore del ragazzino
diventava un unico, pulsante nodo di struggimento.
Tutte
le mattine, quando si recava nella foresta con la sua slitta per
raccogliere legna da ardere, sentiva lo stomaco torcersi ad ogni
scricchiolio, ad ogni ombra sospetta che credeva di scorgere dietro i
profili degli alberi. Per quanto amasse ascoltarli, Elisej sapeva che
i lupi erano creature pericolose da cui guardarsi, e temeva che
l'inverno particolarmente rigido di quell'anno li avrebbe spinti fino
ai centri abitati, in cerca di cibo. Tentava di tenersi al confine
del bosco, ma quanto più tempo passava, tanto più
diventava
difficile trovare legna secca su percorsi battuti già mille
volte;
spesso era costretto ad avanzare per lunghi tratti nella boscaglia
inesplorata, e allora infilava la mano sotto il caftano e accarezzava
l'impugnatura gelida di un pugnale che suo padre gli aveva donato e
che portava sempre con sé, alla cintura, per potersi
difendere in
caso di aggressione. In realtà era ben consapevole che un
così
misero pungiglione sarebbe servito a ben poco, qualora fosse stato
preso di mira da un branco di lupi.
Era
un giorno come tanti, quello in cui incontrò per la prima
volta
Serjj.
La
neve scendeva dal cielo in fiocchi grossi e candidi, e la slitta
piena per metà scivolava sul terreno con un silenzio
irreale; Elisej
aveva deciso di spingersi più in là del solito
alla ricerca di
legna, e, in previsione di un viaggio più lungo del solito,
aveva
portato con sé una fiaschetta di kvas e una pagnotta
imbottita con
due grosse salsicce affumicate. Era stato effettivamente un gesto
poco saggio da parte sua, ma era ormai da mesi che non si sentivano
più ululati ‒ forse, aveva detto suo padre, i branchi erano
migrati da qualche altra parte.
Si
chinò a raccogliere un ramo particolarmente robusto, che
afferrò
con entrambe le mani e cercò ‒ inutilmente ‒ di sollevare;
stava
per recuperare la posizione eretta e cercare un ciocco più
piccolo,
quando un gorgoglio basso e cupo lo fece sobbalzare.
Schizzò
in piedi e sguainò il pugnale quasi per un riflesso
involontario, le
pupille che saltavano alternativamente dalla neve ai tronchi alle
ombre nere che si addensavano in alcuni punti del sottobosco. In
realtà non dovette cercare molto: ad appena un paio di
metri, dritto
davanti a lui, lo vide.
Si
era avvicinato senza fare rumore.
Era
un lupo grigio, né particolarmente grosso né
particolarmente
ferino, che lo fissava con le fauci appena spalancate e quel ringhio
cupo che vibrava nel profondo della gola.
Nel
muso allungato brillavano occhi di un'intensità
stupefacente,
obliqui e misteriosi, silenti, ma al contempo umani, quasi quella
creatura covasse nel profondo un'intelligenza e una consapevolezza
scevre dalla sua natura animale. Azzurri, o forse dello stesso blu
cupo dei lapislazzuli. Elisej deglutì, la mano che stringeva
il
pugnale scossa da tremiti, e osservò in silenzio il corpo
del lupo,
le ossa sporgenti sotto la pelliccia color acciaio, le zampe smagrite
e le orecchie tirate all'indietro, che lo privavano di tutta la sua
attitudine battagliera. Eppure, era terrificante.
La
sua sola presenza infondeva al ragazzo un'inquietudine
insopprimibile, istintiva, che non riusciva a spiegarsi semplicemente
con il fatto di trovarsi davanti ad un predatore.
C'era
qualcos'altro, qualcosa che aveva a che fare con l'inspiegabile
solitudine del lupo - non attaccavano mai se non in branco, e questo
Elisej lo sapeva per certo - o forse con l'espressione quasi triste
di quegli occhi blu.
Molto
probabilmente era stato attirato dal profumo della carne, e vista la
sua magrezza non era difficile pensare che non mangiasse da giorni.
Diviso
tra un terrore cieco che gli piegava le ginocchia e un senso quasi di
compassione, Elisej staccò l'involto di
carta con le
provviste che aveva assicurato alla cintura e tentò di
aprirlo con
una mano sola, mentre l'altra brandiva ancora la lama. Il ringhio del
lupo si fece più forte, ma l'animale non accennò
ad attaccare:
rimase perfettamente immobile, le orecchie piegate all'indietro e una
supplica muta nello sguardo glauco. Non si mosse nemmeno quando il
ragazzino riuscì ad aprire l'involto e gettarne il contenuto
sulla
neve.
Elisej
lo fissò, aspettandosi un qualche movimento brusco, ma la
tensione
che gli correva lungo la schiena in una serie di brividi freddi
finì
per sciogliersi quando si rese conto che non sarebbe stato assalito.
Forse, rifletté, tra i due il più spaventato era
quell'animale
affamato e debole che non doveva aver mai visto un umano ed era stato
separato chissà come dal suo branco. Forse l'avrebbe
lasciato andar
via senza ucciderlo.
Lentamente,
ogni nervo teso nel tentativo di non compiere gesti avventati, fece
un passo all'indietro. Quando vide che la cosa non aveva suscitato
nessuna reazione nell'animale, ne fece un altro e poi un altro
ancora, fino ad urtare il bordo della slitta con il tallone.
A
quel punto il lupo sollevò le orecchie e smise di ringhiare.
Attraverso il velo della paura, Elisej riuscì comunque a
pensare che
quel gesto sembrava quasi incuriosito, come se il
lupo si
aspettasse di venir attaccato a sua volta e non riuscisse a
comprendere del tutto i gesti dell'umano.
Era
una supposizione completamente folle.
Eppure,
quasi a dargli conferma di quanto aveva appena pensato, l'animale
fece un passo in avanti ‒ circospetto, senza staccare lo sguardo
dal suo ‒ e raggiunse la salsiccia; la afferrò tra i denti e
la
mandò giù praticamente intera, palesemente
affamato, poi fece lo
stesso con il pane. Quando sulla neve non fu rimasta che l'impronta
del cibo, sollevò la testa di scatto e mosse la coda da
destra e
sinistra in quello che, seppur fugace, assomigliava
inequivocabilmente ad un moto di allegria.
Nonostante
tutto, però, Elisej non lasciò la presa sul
pugnale.
La
neve si accumulava sulla pelliccia del lupo.
Improvvisamente,
dopo un tempo che al ragazzo parve infinito, la bestia voltò
il capo
e corse via, sparendo ad una velocità incredibile nel folto
della
foresta. Senza un rumore, così com'era arrivato, e lasciando
dietro
di sé soltanto una fila confusa di impronte.
***
Arrivò
a casa con il fiatone e il cuore in procinto di esplodere.
Gettò
la slitta semivuota in un angolo della legnaia e spalancò la
porta
di casa con una spinta frettolosa, entrò e se la richiuse
alle
spalle con più veemenza di quanto avrebbe voluto. I suoi
genitori e
i cinque fratelli più grandi erano fuori, forse a spaccar
legna o a
sorvegliare il lavoro degli altri contadini - benché povero,
Nikolaj
Bogdanov era lo starosta del podere; accanto al grande camino acceso
giocavano Nataša e Fjodor, i più piccoli della
famiglia, mentre una
vecchia vestita assai miseramente ricamava accanto ad una finestra,
il viso morbido solcato da una miriade di profondissime rughe e
incorniciato da una nuvola di soffici capelli bianchi. Deklabrina
Ljubova aveva ormai quasi sessantadue anni, ed era l'unica nonna
vivente di Elisej.
«Babuška!»
Esclamo il ragazzino, avvicinandosi quasi di corsa alla vecchia
«Babuška, è successa una cosa
terribile!»
Deklabrina
sollevò lo sguardo dal lavoro di cucito, non senza una certa
flemma,
e fissò Elisej con i suoi piccoli occhi infossati, gli
stessi occhi
grigio chiaro di tutti i Bogdanov. Poi accarezzò la testa
bionda del
nipote, la mano tremante, e lo attirò delicatamente a
sé,
abbracciandolo piano.
«Che
ti è accaduto, moj malenk'ij?»
«Nella
foresta, io...» il ragazzino rabbrividì, prima di
affondare il viso
nel grembo della nonna «... ho visto un lupo,
babuška... un lupo
grigio con gli occhi blu al margine della foresta».
La
donna tacque per un attimo, profondamente assorta, poi la sua bocca
sottile e raggrinzita si distese in un sorriso dolce e appena
ironico; gli occhi fattisi improvvisamente più sottili, come
lame di
acciaio scintillante, parlò con voce particolarmente
carezzevole.
«Devi
averlo sognato, moj malenk'ij. Forse è stato il freddo
eccessivo...
dirò a tuo padre di non mandarti più fuori quando
nevica».
«Ma-»
«Non
esistono lupi dagli occhi azzurri, Elisej. Essi sono figli della
notte e delle tenebre, per questo i loro occhi non rifletteranno mai
la purezza del cielo... avrai certamente visto un cane randagio, o
forse uno spiritello della neve ti ha giocato un brutto tiro».
Il
ragazzino sollevò gli occhi grigi e guardò la
nonna con espressione
trasognata. Uno spirito... forse che così si potesse
spiegare il
comportamento del lupo?
«Lo
pensi davvero?»
Annuì
stancamente, Deklabrina, prima di riprendere il proprio lavoro di
cucito e ricominciare pazientemente dal punto in cui si era
interrotta; le dita rugose dalla pelle sottile vagarono per un po'
sulla stoffa lisa, prima che riuscisse a trovare l'ago. A quel punto,
rispose.
«La
foresta non ci racconta tutti i suoi segreti, Elisej. Essa vive e
respira e conosce da tempo immemore, e noi non
siamo che
granelli di sabbia trasportati dalla corrente di un fiume rispetto a
lei. Quel che è certo è che un lupo con gli occhi
azzurri non
esisterà mai».
Il
ragazzino annui, poi ringraziò la nonna e si sedette in un
angolo,
pensieroso, osservando distrattamente le fiamme che guizzavano nel
caminetto.
In
quel momento germogliò in lui la segreta speranza di
rivedere il
lupo ‒ lo spirito della neve ‒ i cui occhi
così
meravigliosamente azzurri non volevano saperne di abbandonare la sua
mente.
***
Lo
incontrò una seconda volta soltanto dopo sette giorni.
Ogni
mattina aveva setacciato la foresta, battendo nuovi percorsi ed
errando senza motivo in luoghi sempre più lontani, nella
speranza di
imbattersi di nuovo nel suo lupo. Sapeva che si
trattava di un
comportamento arrischiato, che quella era pur sempre una belva
affamata e che per poco non l'aveva morso, ma un angolo recondito del
suo cuore gli sussurrava, traditore, che non c'era nulla da temere in
quella creatura ‒ che l'umanità insita nei suoi occhi
sarebbe
bastata a garantirgli la salvezza.
Vagabondò
così a lungo che ‒ quando finalmente si imbatté
nell'oggetto
della sua ricerca ‒ ne avvertì quasi la presenza fisica,
un'entità
che galleggiava a metà tra il sogno e la più
spietata concretezza e
attendeva ferma, nella neve, che il piccolo umano dall'aria spaurita
facesse la sua mossa.
Se
lo trovò alle spalle, in una piccola radura delimitata da un
ovale
di bassi cespugli spinosi.
Nessun
ringhio, stavolta, e le orecchie erano ben dritte e l'aspetto un po'
meno smunto. Elisej sapeva perché: non aveva più
raccolto i conigli
catturati dalle trappole, immaginando che il lupo ne avrebbe
approfittato per sfamarsi. Persino il pelo sembrava più
lucido,
folto e sano.
«Hai...»
si schiarì la voce, in imbarazzo davanti allo sguardo
obliquo
dell'animale «... hai mangiato i miei conigli, non
è vero?»
Per
qualche assurda ragione, poteva quasi credere di venir capito.
«Sai,
noi abbiamo dovuto farne a meno. Però noi non siamo magri e
affamati
come eri tu, perciò credo che sia giusto
così».
Aveva
portato con sé della carne affumicata tagliata a strisce
sottili ‒
anche quella, per far sì che l'animale lo localizzasse in
qualche
modo. Ne prese una fetta, ruvida e indurita dal freddo, e
allungò la
mano verso il lupo, scuotendo piano il polso. L'aveva visto fare a
molti dei suoi coetanei con i propri cani.
«Potrei
chiamarti Serjj». Sussurrò, senza staccare gli
occhi da quel muso
allungato, elegante «Tu non ce l'hai un branco, vero? Non hai
una
famiglia o un posto dove stare».
Serjj
si avvicinò con molta lentezza, un passo alla volta;
allungò il
muso verso la carne, ed Elisej poté vedere come il suo collo
fosse
grosso e forte, eppure scosso da tremiti, mentre le zanne ‒ candide
e ben più lunghe di quelle di un cane ‒ biancheggiarono per
un
attimo quando spalancò la bocca per addentare il cibo.
Il
ragazzino trasalì, ma non si scostò.
Ci
fu un momento, con i suoi occhi grigi riflessi nelle iridi blu, in
cui Elisej si sentì completamente rapito - ipnotizzato,
quasi,
caduto sul fondo della voragine silenziosa che si spalancava nelle
pupille del lupo. Era come se gli parlasse ‒ in un modo tutto suo,
certo, fatto di guaiti e brevi scatti della coda e tremori del pelo ‒
comunicandogli che, comunque il ragazzino si fosse comportato, non
gli avrebbe fatto del male. Non più.
Si
era forse conquistato la fedeltà della fiera? Un'idea lusinghiera,
quella: la prospettiva di ricevere gratitudine da parte di una
creatura tanto sfuggevole e ‒ a quanto se ne diceva ‒ maligna,
faceva sentire Elisej speciale, come se la foresta avesse scelto
proprio lui, accogliendolo amorevolmente tra le sue braccia irte di
spine e aculei di ghiaccio. Sapeva per certo che un simile onore non
era toccato a nessuno degli altri bambini che conosceva, e tantomeno
ai suoi fratelli maggiori ‒ che suo padre apprezzava tanto
perché
potevano aiutarlo con il lavoro nei campi, mentre lui era di
costituzione troppo fragile per i lavori di fatica.
Spinto
da un desiderio che non fu in grado di ‒ o non volle ‒ frenare,
il ragazzino protese con lentezza una mano e sfiorò il capo
di
Serjj, esitante. Quello ringhiò ‒ e fu un momento di terrore
assoluto, in cui il cuore di Elisej smise di battere e le sue membra
si irrigidirono di colpo ‒ ma poi sembrò calmarsi, e
sostituì a
quel verso un silenzio carico di tensione. L'umano sapeva che, se
avesse sbagliato qualcosa, molto probabilmente tutti i progressi
fatti fino a quel momento sarebbero sfumati come neve al sole; sapeva
anche che non avrebbe avuto una seconda possibilità, e che
un amico
come Serjj non si sarebbe mai più ripresentato, nella sua
vita.
Così,
preso un respiro profondo, abbassò delicatamente il palmo e
lo fece
scorrere nel pelo grigio, carezzandolo.
Fu
un sensazione incredibilmente dolce. La pelliccia era folta, serica e
calda, probabilmente la cosa più soffice che Elisej avesse
mai
toccato; poteva sentire le ossa definirsi sotto la pelle, ad un
soffio dalle sue dita, e le curve svettanti e più rigide
delle
grandi orecchie. Per tutto il tempo in cui gli accarezzò la
testa ‒
e fu molto, quel tempo, anche se nei ricordi del ragazzino si
condensò in pochi attimi di felicità pura ‒ il
lupo rimase
perfettamente immobile, lasciando che le dita dell'umano lo
toccassero come avrebbero fatto con un qualsiasi cane. Alla fine
mosse persino la coda in brevi oscillazioni nervose, da destra a
sinistra, a testimoniare che quei gesti non gli dispiacevano affatto.
Elisej
ritrasse la mano a malincuore. Serjj scodinzolò, drizzando
le
orecchie, poi scosse piano la testa e, dopo essersi guardato intorno,
enigmatico, per qualche secondo, corse via.
Scomparso,
un'altra volta.
***
«Oči
golubije, oči strastnye, oči žgučie i prekrasnye...»
Elisej
cantava, avanzando nella neve che gli arrivava fin quasi alle
ginocchia. Cantava un po' per sentirsi meno solo ‒ la foresta
appariva ancora più enorme, ammantata di quel silenzio
innaturale ‒
un po' per farsi coraggio, perché non era sicuro che, quando
suo
padre avesse scoperto quello che aveva combinato, sarebbe riuscito a
trattenersi dal prenderlo a bastonate.
Tra
le braccia stringeva un'oca sgozzata. Il sangue caldo scivolava sulla
neve in gocce dense, dall'odore fortissimo e dolciastro, e il
ragazzino si augurava che Serjj lo percepisse e arrivasse in fretta ‒
prima di qualche orso o, peggio, di un branco di suoi simili.
Aveva
rubato quell'oca a una famiglia benestante che viveva a poca distanza
da loro, ed era sicuro che l'avrebbero scoperto. Come poteva spiegare
a suo padre che non era riuscito a prendere nemmeno un coniglio, che
non poteva azzardarsi a sottrarre troppe provviste dalla cantina e
che Serjj si era fatto sempre più magro, eppure sempre
più
amichevole e inspiegabilmente bello? No, non
avrebbero mai
capito.
Come
potevano capire, quando non avevano mai compreso neppure lui, che
pure era un essere umano e condivideva il loro stesso tetto? Se
avesse raccontato qualcosa di Serjj, come minimo avrebbero
disseminato il bosco di trappole per acchiapparlo e ricavarne
pelliccia da vendere, oppure gli avrebbero dato la caccia per il puro
gusto di farlo. Il solo pensiero lo disgustava al punto da fargli
accapponare la pelle.
Poi,
il filo dei suoi pensieri fu interrotto da una radice molesta che si
frappose tra il suo piede e il terreno.
Inciampò,
imprecando ben più volgarmente di quanto non fosse concesso
ad un
ragazzino della sua età, e cadde faccia avanti nella neve.
Quando
tentò di rialzarsi si accorse con orrore che la kosovorotka,
laddove
il cappotto si era aperto nella caduta, era tutta macchiata di
sangue. Suo padre l'avrebbe ammazzato.
«Supponevo
che fossi un pazzo avventato, ma fino a questo punto... mi stupisci,
krapivnik».
Si
voltò così velocemente da scivolare nella neve
calpestata e cadere
di nuovo, stavolta seduto. Il suo primo pensiero fu che non conosceva
quella voce, e che quindi poteva escludere un contadino del villaggio
alla ricerca dell'oca scomparsa. Il secondo pensiero si dissolse come
nebbia, quando mise a fuoco esattamente chi aveva
parlato.
«Serjj?»
Sussurrò, come spiritato, inclinando la testa di lato e
spalancando
gli occhi «Allora la nonna aveva ragione... sei uno spirito
della
neve».
Davanti
a lui, accucciato sul manto bianco senza sprofondare, c'era un
ragazzo di forse sedici anni. Aveva la pelle così chiara che
nell'incavo dei gomiti, sul petto e sulle cosce si potevano scorgere
agevolmente le vene bluastre, e, nonostante fosse nudo, non sembrava
aver freddo. Nel complesso era piuttosto gracile, e il viso, sottile
e appuntito, aveva tratti molto delicati, scevri dalla pesantezza
granitica di quelli russi: gli occhi grandi, che su quel viso umano
sembravano ancora più blu, il naso dal disegno aristocratico
e le
labbra carnose, appena arrossate dall'aria fredda. Una matassa di
riccioli neri come petrolio gli ricadeva sulla fronte e sul collo, in
spirali aggrovigliate che riflettevano la luce e si coprivano di
riflessi verdastri.
Era
in assoluto la persona più bella che Elisej avesse mai
visto, e
registrò quel pensiero con una punta di imbarazzo.
«Non
sono uno spirito della neve».
«Però
sei Serjj, non è così?»
«Sono
quello che tu vuoi che io sia».
Elisej
tacque per qualche secondo, ragionando su quella frase complicata
senza, alla fine, riuscire a comprenderla. Per interrompere il
silenzio afferrò l'oca e la offrì a Serjj,
scuotendola leggermente.
Il
ragazzo-lupo increspò le labbra in un sorriso divertito,
prima di
afferrarla con un movimento fulmineo.
«Grazie.
Ma si arrabbieranno con te».
«Come
mai non sei più un lupo?» Era una domanda ingenua,
ma Elisej era un
bambino cresciuto per tutta la vita ascoltando leggende che parlavano
di creature capaci di mutare forma, di corvi parlanti e streghe che
risiedevano in case sorrette da zampe di gallina. Era più
strana
l'idea di aver fatto amicizia con lupo vero
piuttosto che
quella di aver incontrato uno spirito della foresta, anzi: il
ragazzino si sentiva elettrizzato.
«Mi
irritava il fatto di non poterti parlare. Volevo... ringraziarti».
La voce gli sfuggì in un sussurro dolcissimo, ed Elisej
distinse le
tracce di un accento diverso dal suo. Non seppe dire quale.
«Per
la carne?»
«No.
Per non essere scappato». Di fronte allo sguardo disorientato
del
ragazzino, Serjj sorrise di nuovo ‒ aveva un sorriso caldo,
trascinante, eppure quasi ferino «Di solito tutti scappano,
quando
mi vedono. E io volevo sapere se saresti scappato anche adesso,
adesso che‒»
Si
interruppe di colpo e abbassò lo sguardo. Si muoveva a
scatti, come
un animale spaventato, ed Elisej non faticò a scorgere la
mimica del
lupo nei movimenti a tratti imprevedibili del suo corpo.
«Io
non ho paura di te». Affermò, candidamente. Serjj
arrossì, ma il
ragazzino non ci fece nemmeno caso. «Non ho paura di te
perché non
hai tentato di uccidermi e perché hai mangiato dalle mie
mani... ti
sei fidato di me, no? Non temere, non racconterò a nessuno
il tuo
segreto. Possiamo essere amici?»
Serjj
sorrise, poi si alzò in piedi. Gli appoggiò una
mano sulla testa,
tra i capelli biondissimi, e la mosse piano, come saggiando la
consistenza della chioma dorata che gli scivolava tra le dita;
Elisej, che non sapeva cosa fare o dire per evitare di spezzare
l'atmosfera di quiete perfetta che si era creata tra loro, rimase
semplicemente in silenzio e socchiuse gli occhi, contemplando
minuziosamente le sensazioni che gli derivavano da quel contatto
impacciato.
«Allora
è questo,» mormorò Serjj
«è questo che si prova».
***
Un
anno dopo Elisej Nikolaevič Bogdanov scomparve e non fu mai
più
visto.
I
paesani parlarono a lungo di un demone residente nella foresta, della
Baba Jaga rapitrice di bambini. Cercarono il corpo di Elisej per
molto tempo, e alla fine trovarono una traccia; a molte miglia dal
villaggio, in una zona della foresta dove difficilmente i contadini e
gli spaccalegna si spingevano, si imbatterono in diverse impronte di
lupo.
"Sarà
stato divorato". Ipotizzò qualcuno.
"Ma
non dite sciocchezze!" Fu la replica "Questi sono soltanto
due, una madre e un cucciolo, non si avvicinerebbero mai ai
villaggi!"
E
in effetti nella neve bianchissima spiccavano due file di impronte,
che a tratti si confondevano le une nelle altre.
Grandi,
alcune, eppure poco profonde.
Piccole,
altre, e marcatamente più incerte e scavate.
_______________________
_ _ _
Immagino
vi sarete accorti che questa storia è praticamente l'idiozia
più
colossale che abbiate mai letto, e non mi opporrò se vorrete
insultarla come vi parrà e piacerà. È
molto affrettata, lo so, e
ha pure il finale aperto (argh!) ma c'è un motivo ben
preciso per
tutto ciò: questa shot dovrebbe essere uno dei tanti prequel
di una
long a cui sto lavorando da un po' di tempo, e che vede coinvolte
tutta una serie di creature del mondo sovrannaturale. Suddetta long
non è stata ancora pubblicata, quindi cuccatevi l'orrido
prequel xD
L'ho
scritta per l'Iniziativa Prompt Mania indetta da Alih sul Circolo dei
Recensori di White Pages, e ho utilizzato il prompt #20, "Lupo
Grigio". White
Pages è un nuovo sito di fanfiction senza
restrizioni a cui vi consiglio vivamente di dare un'occhiata.
Ho
usato anche il prompt #61 della Big Damn Table, "Inverno".
Sì, sono una donna banale.
L'ambientazione
russa deriva da una mia passione viscerale per Tolstoj e
Dostoevskij... era da secoli che volevo scrivere qualcosa ambientato
nella terra di quei grandi scrittori, e finalmente ci sono riuscita!
Ci
vediamo, alla prossima!
See
you soon,
Roby
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