The dust has only just begun to fall
Ancora cinque minuti, pensa John. Solo
cinque minuti, davvero, poi prenderà la Circle, o un autobus, o un taxi,
prenderà qualcosa e andrà da Harry. Accetterà un bicchiere d’acqua e farà finta
di non sapere che c’è del sonnifero sciolto dentro, ignorerà il riflesso
lattiginoso contro il vetro e il sapore amaro sulla lingua. Si metterà a letto
e non sognerà telefonate d’addio o sangue sul marciapiede. Dormirà e basta,
dormirà per ore, dormirà finché non sarà l’ora del funerale. Non piangerà.
Gli bastano cinque minuti. Si perderà
dentro Londra ancora qualche attimo, e non penserà a niente.
Forse può amare Parigi, questa notte.
Irene lo decide ora, dopo mesi, esattamente nel momento in cui spegne il
cellulare. “Suicidio di un falso genio”, diceva il cellulare. Irene sa che
Sherlock non è un falso genio quasi quanto sa che non è stato un suicidio, ma
questo non cambia il cadavere sul marciapiede, non cambia praticamente nulla.
E’ solo quello che pensa una donna che nessuno conosce, in una città che non è
la sua e che forse può amare, solo per questa notte, solo perché ha bisogno di
amare qualcosa. Ha anche bisogno di stare in mezzo alla gente. Decide che andrà
a una festa, c’è sempre una festa, da qualche parte, e lei sa sempre come
entrare. Ballerà con un paio di uomini che la ameranno per sempre. Si
circonderà di voci, e di luci, e di vita. Starà bene.
La mezzanotte rotola pesante dal Big Ben,
rintocchi che John sente addosso come sente addosso i sette messaggi e le nove
chiamate perse di Harry. Il mondo incespica nella notte, intorno a lui, e lui
incespica nel mondo. E’ qualcosa da cui non può fuggire, si dice. E’ questo che
sarà il resto della sua vita: mettere insieme i secondi finché non saranno ore,
finché non saranno anni, finché non sarà tutto finito. Non è sicuro di poterlo
fare. Non è sicuro di niente, questa notte.
Però può aggrapparsi a qualcosa. Può
aggrapparsi alle due ragazze che si baciano contro un lampione, al ciuffo verde
di quella più alta o al pizzo del vestito dell’altra, alla luce riflessa nei
suoi occhiali o al terrier al guinzaglio che annusa uno scontrino accartocciato
sul bordo del marciapiede. Può aggrapparsi agli uomini che ridono in un pub,
alle gocce di birra che rotolano lungo i boccali, ai disegni macchiati dei
sottobicchieri. Può aggrapparsi alla vita degli altri, ora che la sua non ha
più senso.
Si chiama Dominic. Non è né brutto né
bello, né stupido né intelligente, non è niente. Però è un niente che sa
ballare e che ora è andato a prenderle un drink senza fare domande, ed è quello
di cui ha bisogno.
Irene chiude gli occhi e respira le luci
e la musica e il profumo spruzzato sulle decorazioni floreali di seta. Fiori
finti che sembrano davvero fiori. Sorrisi finti che sembrano davvero sorrisi. Suicidi
finti che sembrano davvero suicidi. Si chiede se anche la sua vita sembri
davvero una vita, vista da fuori. Lei non se l’è mai immaginata come una vita.
Non di quelle vere, con un lavoro vero e una famiglia vera. La sua è più uno
spettacolo teatrale in cui l’ambientazione e i personaggi secondari cambiano a ogni
atto: in quello prima c’era Londra e c’era Sherlock Holmes; in quello di adesso
c’è Parigi e c’è un uomo né brutto né bello, né stupido né intelligente, un
uomo che non è niente ma di cui ha bisogno come ha bisogno delle luci e della
musica e del profumo spruzzato sulle decorazioni floreali di seta. Solo per
stanotte. Solo finché non starà meglio.
C’è una donna che piange, in
metropolitana. E’ seduta accanto al vetro e porta le lacrime come porterebbe
una collana o un paio di orecchini. A John piacerebbe, per un attimo, essere
così. Gli piacerebbe smettere di nascondersi dietro alla vita degli altri e
affrontare la propria, e quella di Sherlock, e come sono finite entrambe, in
modi più o meno letterali. Magari riuscirebbe a rialzarsi, se trovasse la forza
di lasciarsi cadere. Per ora rimane appeso a fili invisibili, cose minuscole,
lacrime che non sono le sue, e nel frattempo le fermate corrono oltre il vetro
e può andare così lontano in questo mondo così grande che forse non c’è davvero
bisogno di fermarsi a pensare, non questa notte, non domani, mai, mai, mai.
Poi la donna prende la sua borsa e tutta
la sua dignità, il suo contegno da regina decaduta di un popolo in schiavitù,
prende tutto quello che ha e tutto quello che è ed esce dalle porte scorrevoli.
Per un attimo, solo un istante, è un niente, ma John è solo, lui e tutto quello
che non riesce ad affrontare, lui e tutta la vita che dovrà vivere d’ora in
avanti, le luci del supermercato e le serate davanti alla tv, le mattinate in
ambulatorio e i pomeriggi dalla terapista, lui e il fatto che Sherlock è morto
e che non tornerà indietro, non può tornare indietro, è morto e il suo corpo
marcirà sotto una lapide mentre il suo cervello, il suo cervello che è la cosa
più bella che John abbia mai conosciuto, il suo cervello lo mangeranno i vermi,
pezzo dopo pezzo, e di lui non rimarrà che una traccia sbiadita, graffi sui
mobili e impronte sulle poltrone e capelli nella doccia, tutte quelle cose che
fanno male e ti impediscono di dimenticare una persona anche quando
dimenticarla è tutto ciò che puoi fare per salvarti.
Respira. Respira, si dice. Lo ripete un
paio di volte, piegato su se stesso, accartocciato in uno scarabocchio.
Respira. Va tutto bene. Respira e basta. Va tutto bene.
-Va tutto bene?-
John si volta e non importa se è soltanto
un gruppo di ubriachi, quello che importa è che ci sia qualcuno. Quello che
importa è che un uomo abbia un occhio nero e gli ricordi di quando il suo
migliore amico del liceo gli ha dato un pugno per una ragazza, quello che
importa è che ci sia questo mondo vecchissimo, dentro di lui, in cui può ancora
essere al sicuro.
-Certo. Tutto bene.-
Piano piano, mordendo forte l’aria,
riprende a respirare.
Irene apre il rubinetto e lascia che il
rumore dell’acqua copra la musica e le voci. Ha più o meno cinque minuti prima
che Dominic inizi a chiedersi cosa stia facendo, dieci prima che la venga a
cercare. E’ così prevedibile che può leggerlo con quel tipo di superiorità con
cui si leggono le riviste dal parrucchiere.
Nel frattempo l’acqua scorre, e Irene si appoggia
al bordo del lavandino. Ha resistito fino alle due, ha sorriso e ballato e
bevuto champagne, un paio di uomini si sono innamorati di lei, è stata brava.
Però non può andare avanti tutta la notte, se non butta tutto fuori, tutto
insieme, tutto ora, adesso, preferibilmente entro dieci minuti, se possibile
anche cinque. E’ come una sbronza premeditata, è scientifico. Respira un paio
di volte, poi l’aria le si spezza in gola, le si spezza tutto, si spezza contro
il rumore dell’acqua e inizia a piangere, a singhiozzare davanti allo specchio
mentre l’ombretto le rotola sulle guance in arabeschi colorati.
Dovrà rifarsi il trucco, pensa. Questo le
toglierà del tempo.
Ci mette nove minuti a calmarsi, conta
ogni secondo sull’orologio, le lacrime che si trasformano in singhiozzi che si
trasformano in respiri profondi, finché non va quasi tutto bene. Un quasi un
po’ grande, ma è abbastanza perché trovi la forza di rimettere insieme i pezzi
di se stessa e di lavarsi la faccia, prendere la trousse e passare di nuovo
ombretto, fondotinta e rossetto. Quella che vede nello specchio è di nuovo se
stessa. L’acqua ha lavato via le lacrime e nascosto il suo dolore là dove
nessuno potrà mai trovarlo. Può farcela.
-Madamoiselle, si sente bene?-
Irene chiude la trousse e apre la porta,
e fa meno fatica a sorridere, ora, anche se è Dominic, anche se è un uomo
noioso che si tormenta i polsini della camicia, anche se non è Sherlock perché
Sherlock non ci sarà mai più.
-Naturalmente. Andiamo. Ho voglia di
ballare.-
John ordina un caffè. E’ uno di quei bar
aperti ventiquattr'ore su ventiquattro, quelli in cui il caffè può permettersi
di fare schifo. Fa schifo, infatti, ma John ha bisogno di caffeina perché sta
iniziando a cedere e se cedesse arriverebbero gli incubi e tutto quello che sta
cercando di tenere fuori da quasi una notte intera.
La verità è che sta solo guadagnando
tempo, sempre meno, sempre non abbastanza. Tra poco i lampioni si spegneranno e
non potrà più fingere che non sia il giorno del funerale o che Harry non lo stia
aspettando alzata. Dovrà rientrare nella propria vita e tenerla addosso anche
se farà male. Farà male, lo sa. Fa male anche adesso. Potrebbe non smettere mai
di far male, a dirla tutta, ma è qualcosa da cui non può tirarsi indietro.
Vorranno che dica qualcosa al funerale,
pensa. Riesce a vederlo, il se stesso che sarà tra qualche ora, in piedi
davanti alla fossa che si mangerà la bara e la porterà dove nessuno potrà più
vederla, dove Sherlock potrà marcire lontano da sguardi indiscreti. C’è
qualcosa di elegante, in tutto questo, e anche un po’ malato. Questo però non
lo dirà. Quello che dirà è che Sherlock era un uomo incredibile, lo era
davvero, e non ci può essere nulla di finto in ciò che ha conosciuto. Non gli
crederanno, ma non importa. Lascerà che tutti vadano via e si siederà sulla
lapide. Aspetterà. E’ tutto così reale, nella sua mente, che è quasi come se
fosse già successo, e per un attimo, mentre beve qualcosa che pretende di
essere caffè e la cameriera mormora una canzone che esiste soltanto dentro le
cuffie del suo i-pod, per un attimo pensa che forse ce la può fare. Il
funerale, la sua vita. La sua vita senza Sherlock. Sherlock.
Il sole sorge, e gli brucia negli occhi.
Ce la può fare.
Le feste hanno questo di brutto, che
finiscono. Sono bolle di sapone sospese a qualche metro dalla realtà, ma prima
o poi scoppiano, e la realtà è sempre lì sotto che ti aspetta. E’ come il
coccodrillo di quel cartone animato, quello con la sveglia nella pancia, non
importa quanto lontano navighi il pirata con una mano sola, quando starà per
cadere in mare sentirà sempre il ticchettio che si avvicina.
Irene pensa a tutto questo e intanto non
pensa a niente. Si è stancata di Dominic più di un’ora fa, ma ora che è sola
sta iniziando a stancarsi anche di se stessa. Forse non c’è una via d’uscita.
Non è abituata, a non avere una via d’uscita.
Chiude gli occhi nel vento e nella notte
che è quasi giorno, e pensa che in fondo non è davvero come se avesse perso
qualcosa, prima sapeva che da qualche parte nel mondo c’era anche lui, ora no.
L’universo è ancora lo stesso, lei è ancora la stessa, più o meno, quasi, ci
può provare. Non lascerà che questo la distrugga. Nulla è mai riuscito a distruggerla.
Si sente un po’ più forte, mentre aspetta un taxi dritta ed elegante nel sole
che sorge e nei filamenti stracciati di luce che la festa si è lasciata alle
spalle. Si sente un po’ più forte, e bella, e per un istante questo basta.
Aspetta che l’istante finisca. Non succede.
Angolino
Tecnicamente
il mio beta mi avrebbe anche fatto un disegno, per questa storia, ma non so
come mettere le immagini quindi sappiate solo che è bello. E che lui è un beta
meraviglioso e lo ringrazio tanto.
Per
il resto niente, questa cosa ce l’ho in testa da mesi, avrebbe potuto venire
meglio, avrebbe potuto venire peggio – spero -, non so. Il titolo è preso da Hide and Seek e
i personaggi non mi appartengono – so che non lo sapevate, lo so. E basta, ho creditato il
creditabile, posso tornare nel mio anfratto buio <3