Note: Erano tipo secoli
che volevo scrivere questa storia. Ruby/Archie è
decisamente la mia coppia preferita dopo Belle/Rumpelstiltskin
(ovviamente, no? Qui soffriamo tutti la Rumbelle) e sono veramente
demoralizzata all'idea che posso scordarmi di vederla realizzarsi
veramente nella seconda stagione. Siamo sinceri, gente: non
succederà, me ne devo fare una ragione.
Ho deciso di
utilizzare i nomi originali per un solo motivo: Jiminy
Cricket fa più figo di Grillo Parlante
– che Collodi mi perdoni. C'è solo un punto in cui
ho scelto di usare la traduzione italiana, ma solo perché
non mi piaceva il modo in cui i nomi inglesi suonavano nel discorso in
italiano. Non sarà coerente, ma l'altro modo mi faceva
schifo.
E no, non potevo
non infilare un pizzico di tragica Rumbelle. Proprio no.
*
A
SakiJune, con la speranza di convertirla definitivamente a questa
splendida ship.
Ho letto una favola
mai scritta
Il nostro
lieto fine è sempre un poco più vicino
Era
una giornata meravigliosa.
Il sole si
specchiava nelle acque cristalline del lago in mille piccoli puntini di
luce, mentre una brezza leggera soffiava dalle verdi montagne del nord
portando con sé il confortante aroma della primavera ormai
alle porte. Davvero il tempo non avrebbe potuto essere più
mite e clemente. Non pioveva dacché Snow e il suo intrepido
Charming avevano sconfitto per sempre la terribile Regina e nuovi
orizzonti felici si erano aperti negli animi degli abitanti del regno
delle fiabe.
Nonostante il clima
temperato, tuttavia, Red Riding Hood soffriva l'arrivo della stagione
calda e resisteva stoica all'istinto di strapparsi di dosso la pesante
stoffa della mantellina che era costretta a indossare. Si era diretta
verso le ampie stanze dai ricchi balconi che si affacciavano sul lago
alla ricerca di un posto più fresco, strattonando stizzita i
laccetti del fastidioso cappuccio. E il piccolo Pinocchio, con quel
buffo berretto calato sui riccioli, aveva iniziato a trotterellarle
dietro non appena i suoi occhietti furbi si erano posati sulla giovane.
Al castello di Snow
e Charming non c'erano altri bambini con i quali avrebbe potuto
intrattenersi – non ancora, perlomeno – ma
Pinocchio aveva trovato nel carattere spensierato e giovanile di Red un
valida compagna di giochi.
«Quella
marionetta ti adora per forza di cose!» la scherniva spesso
nonna Lucas. «Sei peggio di una bambina».
Red rispondeva
sempre con una pernacchia e partiva all'arrembaggio insieme al
ragazzino, stuzzicando la sua fervida immaginazione con storie sempre
nuove e prendendo parte a tutte le sue avventure infantili. Si
divertiva di cuore, e Pinocchio era davvero un bambino adorabile, ma si
ritrovava spesso a fantasticare fra sé su quanto sarebbe
stato bello poter vivere reali avventure, lontano
dal castello e dal controllo quasi despotico di nonna Lucas. Nutriva
per lei un affetto davvero profondo ed era tristemente a conoscenza dei
rischi che avrebbe corso nel vagabondare da sola per le terre
sconosciute del regno, ma c'era qualcosa in lei che continuava a
reclamare tutta quell'indipendenza che fin da bambina le era stata
negata.
Voleva viaggiare,
voleva esplorare mondi nuovi, voleva essere libera.
«Red?»
la richiamò la voce argentina di Pinocchio, seduto a gambe
incrociate sul balcone e con le piccole manine strette attorno a due
carte da gioco. «Tocca a te».
«Già»
rispose lei con un largo sorriso. Poi arricciò il naso in
una buffa espressione concentrata che strappò al bambino una
piccola risatina. «Vediamo un po'... dove sarà il
Troll?».
Pescò
una delle carte ed emise un verso scoraggiato.
«Quella
che ho scelto io, naturalmente...» borbottò
sconsolata, scuotendo appena il capo.
Pinocchio rise
ancora, afferrò lestamente l'altra carta di Red e
saltò in piedi con un grido trionfante, mostrando entusiasta
la carta con il principe.
«Ho
vinto! Ho vinto!» strillò euforico. «Ho
vinto io, Red!».
«Io dico
che hai barato e hai detto una bugia» gli puntò
l'indice lei, sogghignando divertita. «E adesso me la
paghi».
Prima che Pinocchio
potesse cercare di fuggire, Red gli era già balzata alle
spalle, serrandolo in una stretta bonaria e scompigliandogli i capelli.
«No,
no!» rise lui. «Lasciami andare! Io non dico le
bugie!».
«Ah, ma
davvero? Dovrai provarmelo, giovanotto: devi superare... la prova del
solletico!».
«No, non
il solletico!».
«Eh-ehm».
Red si
bloccò di colpo e sollevò il viso verso la grossa
porta di quercia del salone. Pure Pinocchio rimase con il visino
arrossato immobile, ma il suo sorriso si allargò in fretta
nel riconoscere il microscopico profilo di Jiminy Cricket a pochi
centimetri dal lampadario di cristallo.
«Jiminy!»
strillò eccitato, liberandosi dalla stretta di Red e
fiondandosi a recuperare il berretto abbandonato sul pavimento.
L'insetto si
sfilò l'elegante cappello nero e si chinò in un
lieve inchino aggraziato.
«Buongiorno,
Red Riding Hood» la salutò educato.
«Pinocchio, tuo padre ti sta cercando in ogni angolo del
castello ormai da ore. Quando ti sposti, dovresti avvisarlo per
evitargli inutili preoccupazioni».
Il bambino
abbassò mortificato il capo e si mordicchiò il
labbro inferiore.
«Scusa...».
«Va' da
lui in fretta, forza».
Pinocchio
iniziò a correre verso la porta, ma Jiminy lo
fermò con un fischio acuto e gli indicò Red con
un cenno eloquente.
«Oh!»
esclamò il bambino. «Grazie, Red. Mi sono
divertito molto. Spero di non averti disturbato»
recitò compito.
«Non
preoccuparti, anch'io mi sono divertita molto» rispose lei,
strizzandogli un occhiolino che fu presto ricambiato.
«È colpa mia, Jiminy» aggiunse non
appena Pinocchio se ne fu andato, lisciandosi le pieghe del vestito.
«Sono stata io a proporgli di giocare a carte».
Jiminy
svolazzò fino alla balaustra di marmo e ridacchiò
piano.
«Non devi
scusarti. Pinocchio parla di te con tono raggiante».
«È
un bambino molto buono».
«E vorrei
ben vedere».
Red rivolse al
piccolo animaletto un sorriso comprensivo e appoggiò i
gomiti accanto lui. Il suo sguardo iniziò a vagare oltre le
distese dei boschi che si perdevano fino ai piedi delle montagne. Un
fresco alito di vento le sferzò appena il viso e i suoi
capelli scuri librarono per qualche istante. La giovane chiuse gli
occhi. L'espressione del suo volto si era fatta tutto d'un tratto grave
e niente di tanto ovvio sarebbe mai potuto sfuggire alle antenne di
Jiminy.
«Cosa ti
turba?».
«Come?».
Jiminy
inclinò appena la testa.
«C'è
qualcosa che ti turba» ripeté pacato. «E
forse sbaglio, ma ho come l'impressione che qualunque cosa sia faccia
parte di questo castello».
Red emise un vago
sospiro rassegnato. Jiminy aveva ragione. Qualunque sorta di
maledizione la stesse tenendo prigioniera aveva trovato il suo massimo
aguzzino fra quelle mura di pietra, beffardamente celato dietro la
maschera del lieto fine che tanto avevano agognato. Quel luogo di gioia
e vittoria, quel nuovo mondo in cui la crudeltà della Regina
si era ormai dissolta, non era diventato nient'altro che una nuova
gabbia. Non aveva idea se il suo lieto fine avesse potuto nascondersi
da quale parte là fuori, ma di certo non lo avrebbe trovato
lì dentro.
«Hai mai
avuto la sensazione di non essere del tutto libero? Di non vivere la
vita che avresti desiderato vivere... di perdere un pezzo del mondo
mentre il tempo trascorre e tu resti immobile ad aspettare, aspettare,
aspettare... e magari non sai nemmeno cosa, ma tu
aspetti lo stesso».
«Oh,
sì...» rispose Jiminy dopo qualche istante di
pesante silenzio. C'era una nota stranamente triste nella sua voce
pacata. «Per tanti anni».
«Sogni
mai di non essere un grillo?».
«No,
questo non l'ho mai fatto, né credo che lo farò
un giorno. Ad essere sinceri, la mia vera vita è iniziata
quando ho abbandonato la mia forma umana e certo non me ne pento:
è così che ho potuto trovare la mia vera
natura».
Le scure
sopracciglia di Red erano aggrottate. La giovane si abbassò
e avvicinò il viso al piccolo insetto con aria inquisitoria.
«Tu sei
stato umano?».
«Certo
che sì» esclamò stupito lui, facendo un
saltello indietro e incrociando le braccia. «Non ne eri al
corrente?».
Lei scosse il capo
con le labbra dischiuse e d'un tratto le antenne di Jiminy si piegarono
tristemente verso il basso come due verdi girasoli al tramonto del sole.
«In un
tempo assai lontano e di cui tuttora serbo vergogna»
raccontò in un pigolio la creatura, sfregando nervoso le
zampette anteriori, «non ero un brav'uomo. Ero arrendevole,
bugiardo e disonesto».
«Tu?».
«Io»
annuì flebile Jiminy. «Ho commesso molti errori e
fatto cose sbagliate di cui non cesserò mai di pentirmi,
così... ho deciso di cambiare, in ogni possibile sfumatura
del termine».
Red storse la bocca
in una smorfia indagatrice.
«E non ti
sei mai pentito di questo?» chiese, colpendogli appena la
punta del cappello e facendolo barcollare un poco. «Sei
così piccolo, adesso. Non hai paura che qualcuno ti
schiacci?».
«Tutt'al
più rischio di finire dentro un orologio a cucù
di tanto in tanto».
Lei
scoppiò in un'allegra risatina e Jiminy alzò la
testa orgoglioso. Avvertiva una grande soddisfazione nel sentir ridere
la gente, nel vedere i loro visi aprirsi a nuove luci piene di speranza
e aspettativa. Si sentiva utile, in qualche modo – un po'
meno colpevole giorno dopo giorno. E la risata di Red aveva il sapore
della giovinezza che non aveva mai vissuto realmente, dell'allegria,
dell'imprudenza e di prati e boschi perduti all'orizzonte. Rideva come
ridevano i cardellini, sfrontati e liberi fra i rami delle grandi
querce e le sue gote si tingevano di un buffo rossore.
Era una bella
ragazza, Red, con le mani sporche di sangue e gli occhi ansiosi di
conoscere il mondo. Jiminy avrebbe tanto voluto poterle augurare un
futuro ricco di serene giornate, ma per lei, con quell'ombra maledetta
a seguito, non c'era lieto fine.
Non avrebbe mai
potuto essere davvero libera.
*
Per
quanto la gente tendesse a trattarla come una sprovveduta, Ruby era
perfettamente in grado di gestire le situazioni fastidiose. Lavorava da
Granny's praticamente da sempre e di certo non si
sarebbe fatta scoraggiare da un idiota che aveva esagerato con i drink.
Con il dottor Whale, tuttavia, era diverso. C'era qualcosa di davvero
maligno nel modo in cui la fissava e qualunque cosa fosse andava ben
oltre l'occhiata d'apprezzamento che era solita sentirsi rivolgere.
Sembrava volesse divorarla.
«Non
capisco perché volevi andare a Boston» riprese a
parlare il medico, con la voce un po' impastata e gli occhietti
arrossati. «Che pensavi mai di trovarci?».
"Hai mai
avuto la sensazione di non essere del tutto libero?".
«Non sono
affari che la riguardino, dottore» lo liquidò con
secca rapidità Ruby, scostando un ciuffo di capelli con un
soffio stizzito e avviandosi a grandi passi verso l'entrata del locale.
Posò una mano sulla maniglia e spalancò la porta
con aria decisa. «E ora, fuori.
È già mezzanotte, Granny's è
ufficialmente chiuso».
Le labbra del
dottor Whale si storsero in un sorriso beffardo. Ruotò
sull'alto sgabello davanti al bancone e appoggiò il capo al
palmo della mano, scrutandola divertito.
«Andiamo,
Ruby, non fare la bambina» la schernì bonario. Poi
sollevò il bicchiere e ne vuotò il contenuto in
un paio di lunghe sorsate. «Tu non hai il
coprifuoco».
«Le ho
dato fin troppo da bere, per stasera» lo rimbrottò
acida, incrociando le braccia al petto. «Fossi in lei, andrei
a letto. Non vorrei che domani mattina cavasse un occhio a qualcuno
brandendo lo stetoscopio in preda ai postumi».
Fu piuttosto
soddisfatta nel vederlo alzarsi in piedi e afferrare la propria giacca.
Avanzò barcollando verso di lei, con il naso in alto e
un'espressione sfrontata negli occhi. Ruby si umettò le
labbra e fece un lungo sospiro, pregando fra sé che se ne
stesse realmente andando. Oh, Granny's a volte era
un posto così snervante!
Il dottor Whale si
fermò davanti a lei e lasciò scivolare la mano
sinistra contro lo stipite fin quando non fu alla stessa altezza del
volto innervosito di Ruby. Lei arricciò le sopracciglia
sottili e dilatò le narici con furia crescente.
«Fuori».
«È
solo mezzanotte, Ruby, noi--».
«È
già mezzanotte».
«Non sei
Cenerentola».
Lei emise un
versetto sarcastico.
«È
proprio per questo che non mi preoccuperei di prenderla a calci. Non ho
scarpette di cristallo da rovinare, io».
Il lampo perverso
che attraversò gli occhi del medico la fece tremare. Era
già pronta a colpirlo, a fargli male, a fare qualunque
diavolo di cosa le fosse venuta in mente, fosse anche lanciargli
addosso i sandwich avanzati. Poi dalla strada risuonò una
voce allarmata.
«Dottor
Whale!».
L'uomo
sollevò la faccia e socchiuse le palpebre per scrutare verso
le luci dei lampioni; Ruby sfruttò l'occasione per scivolare
al di sotto del suo braccio teso e mollargli una poderosa spinta alla
spalle che lo fece caracollare sul marciapiede. Alzò il viso
a sua volta e regalò un sorriso grato al dottor Hopper.
Parve non accorgersene, tuttavia, poiché alla vista di Ruby
Pongo aveva iniziato a saltellare estasiato, strattonando il guinzaglio
del padrone.
«Ruby,
potresti...?» le domandò con eloquenza, indicando
con un cenno del capo il cane.
La giovane
scoppiò in una leggera risata e si inginocchiò
davanti al frenetico dalmata.
«Hai
fame, non è vero, cucciolone?» disse, mentre
iniziava a grattargli divertita la zona dietro le orecchie.
«Ma dico, il tuo padrone non ti dà da
mangiare?».
«Dev'essere
il mio giorno f-fortunato» esordì spossato Hopper,
afferrando il dottor Whale per il braccio destro e aiutandolo a
raddrizzarsi. «È da stamane che la cerco. Temo di
doverle chiedere un paio di ore del suo tempo, dottore, circa un
paziente che sto cercando di aiutare. Mi chiedevo--».
«Un
paio... d'ore?» sbottò
incredulo il dottor Whale, passandosi una mano fra i capelli e fissando
con un che di nauseato l'alto profilo di Hopper. «Ore?».
«Oh,
sì, si tratta di una questione assai lunga e riservata.
Dunque, dal momento che ho avuto la fortuna di incontrarla, cosa ne
dice se--».
«Adesso?».
Hopper si
sistemò gli occhiali sul naso e fissò stupito
l'altro uomo.
«Beh,
sì. Pare che lei non sia rintracciabile che di notte,
d'altronde».
«No»
sentenziò secco, mostrando l'indice. «No, adesso
no. Sono... stanco. Perciò, se vuole
scusarmi, le consiglio di continuare il suo giretto. Può
chiamare l'ospedale domattina e chiedere un appuntamento. Sono sicuro
che--» si interruppe di colpo e abbassò gli occhi
verso la gamba destra. Ruby non riuscì a trattenersi oltre r
scoppiò a ridere: incurante del prezzo del completo del
dottore, Pongo sembrava aver scelto l'albero sul cui liberare la
propria vescica. «Ma che--!?» esclamò
indignato. «Dannato animale!».
«Santo
cielo, sono costernato!» si scusò rapidamente
Hopper, celando a stento un sorriso decisamente inopportuno.
«Pongo! Cosa ti è saltato in testa? Mi dispiace,
dottor Whale, non aveva mai fatto niente del genere, non--».
«Oh, ma
vada al diavolo!» sbottò, scrutando nauseato la
chiazza scura che si era allargata sopra l'orlo inferiore dei proprio
pantaloni. «Lei e il suo cane, andatevene al
diavolo!».
Girò sui
tacchi e si incamminò lungo la strada con passo stizzito.
Ruby e Hopper lo sentirono imprecare malignamente sui cani e gli
analisti fin quando non ebbe girato l'angolo. Rimasero in silenzio per
qualche istante, poi scoppiarono entrambi in una fragorosa risata.
«Bravo,
Pongo!» disse Ruby, carezzando con vigore la testa del cane.
«Un colpo da veri intenditori!».
«Oh, su
questo puoi esserne certa. È un gran intenditore di alberi e
stoccafissi».
Ruby rise ancora di
più nel sentirlo usare una parola come "stoccafisso". Archie
aveva un'aura da antico gentiluomo tutta sua: alto, dritto come un fuso
e con quei ridicoli occhialini, sputava sempre fuori i termini
più passati. Lei avrebbe apostrofato il dottor Whale con
qualcosa di più simile a "coglione".
«Stai
bene?» s'informò subito dopo con genuina
preoccupazione.
«Ci sono
abituata, ma sono contenta che tu sia arrivato. Pongo è
stato molto diplomatico, io stavo per prenderlo a calci. Posso offrirti
qualcosa da bere?».
«No,
Ruby, ti ringrazio. È molto tardi e tu sarai
stanca».
«Nemmeno
un po'» lo corresse con un sorriso. «Avanti,
Archie, lasciati ringraziare senza fare storie... perlomeno, lasciami
ringraziare Pongo: si è meritato un bel pezzo di
bacon».
*
«Jiminy,
ho caldo...» sbuffò tediata Red, sprofondando il
capo fra le mani. «Caldo, caldo, caldo».
Il piccolo insetto
interruppe i suoi tentativi di smuovere l'alfiere e sollevò
la testa verso di lei. Se avesse potuto ancora vantare le sue fattezze
umane, sarebbe stato probabilmente madido di sudore.
«La
stagione fredda giungerà presto, non temere»
tentò di confortarla. «Possiamo interrompere la
nostra partita, se preferisci».
«No, ti
prego, terminiamola» lo pregò sinceramente.
«Non che manchi ancora tanto, mi batti tutte le volte. Questo
gioco è troppo difficile per me».
Jiminy
ridacchiò appena.
«Non lo
è. Sei un ragazza intelligente» disse, riprendendo
a spingere l'alfiere bianco con evidente fatica.
La giovane
sollevò al suo posto il pezzo di legno e se lo
rigirò fra le mani.
«Dove lo
sposto?».
«Ti
ringrazio. Potresti gentilmente appoggiarlo in E8?».
«Perché
in E8?».
«Perché
in questo modo sarai costretta a sacrificare uno dei tuoi pezzi
più importanti» spiegò paziente Jiminy,
iniziando a zampettare alacremente sulla scacchiera bianca e nera.
«Vedi? Da qui, il mio alfiere tiene sotto scacco il tuo re e
ogni casella libera nella quale potresti spostarlo è
controllata dai miei pezzi. Puoi solo scegliere chi frapporre fra lui e
la mia regina: il tuo ultimo alfiere o il tuo ultimo cavallo».
Red
arricciò pensierosa il naso.
«Giusto
per sapere... hai già vinto, vero?».
Jiminy si
grattò la sommità del capo e intrecciò
fra loro le antenne.
«Può
darsi...» sibilò divertito.
«Oh,
accidenti a te» sbuffò la giovane, lasciandosi
scivolare contro il tronco dell'albero che si ergeva imperioso al
centro dei giardini del castello di Snowhite. «Me la fai
sempre».
«La vita
non è altro che una lunga serie di esperienze»
ribatté Jiminy, librandosi in volo e appollaiandosi sul suo
ginocchio sinistro. «Da quando ti ho insegnato a giocare a
scacchi, hai fatto notevoli miglioramenti».
«Come
no» si prese in giro lei. «Ho smesso di confondere
la torre con l'alfiere».
Calò il
pesante cappuccio rosso dal capo. I raggi del sole che si insinuavano
attraverso le foglie dell'albero brillavano fra i suoi capelli scuri.
Jiminy la vide socchiudere pacatamente le palpebre e appoggiare il capo
al tronco rugoso. Rimasero immobili per diversi secondi, poi l'insetto
sfilò dal capo il cappellino e iniziò a
rigirarselo nervosamente fra le mani.
«Mi
dispiace, Red».
La giovane sorrise
senza aprire gli occhi.
«Lo
so» sospirò affranta. «A te dispiace
sempre per un sacco di cose».
«Sono
convinto che un giorno avrai la libertà che
meriti» riprese con più impeto lui. «Sei
una persona onesta e dal cuore nobile che ha avuto la sventura di
essere tormentata da una maledizione terribile, ma esiste sempre una
soluzione, anche se talvolta non ci è chiara. Devi avere
fiducia nel futuro, Red: presto la troverai».
Ma lei scosse la
testa con estrema rassegnazione.
«Non
c'è nessuno in grado di rompere la mia maledizione. E anche
se fosse... non potrei mai cavarmela da sola».
Jiminy si concesse
diversi istanti di riflessione. Quando parlò, la sua vocina
acuta parve tentennare dall'imbarazzo.
«Sei una
ragazza dotata di rare virtù, Red. Soltanto uno stolto
rimarrebbe cieco davanti a quanto di meraviglioso puoi offrire. Non
dovresti sottovalutarti».
La giovane lo
guardò piena di affettuosa gratitudine, ma l'ombra sul suo
viso lasciava bene a intendere che non avesse creduto alle parole del
grillo. Tuttavia sorrise apertamente, stuzzicandolo appena con la punta
dell'indice e ridacchiando con aria innocente.
«Sei
davvero un gentiluomo, Jiminy».
*
Pongo
sembrava apprezzare la fetta di bacon che Ruby aveva appoggiato su un
cartoccio unticcio di carta fra le sue zampe. La stava mordicchiando
avidamente, leccandosi felice il muso, e Archie e la giovane si erano
fermati a osservarlo.
«Non
sarebbe bello» disse Ruby con voce distante, «se
bastasse un pezzo di bacon per renderci felici?».
Archie la
fissò a lungo e fece un vago sorriso.
«Il mondo
sarebbe un posto pieno di gente grassa e felice».
Lei strinse per un
attimo le labbra per poi scoppiare in una frizzante e leggera risatina.
Archie rise con lei, scuotendo scioccamente il capo.
«Forse
non sarebbe poi così bello... dovrei cambiare tutti i miei
jeans».
«E io
sarei disoccupato».
Red rise
più apertamente. Archie era un soggetto piuttosto atipico
all'interno del piccolo e monotono universo di Storybrooke. Era un uomo
sostanzialmente tranquillo che misurava con solerzia ed educazione ogni
parola, scrupoloso nelle proprie scelte e con la particolare
abilità di far parlare la gente. Era un ottimo ascoltatore
– lo era dacché tutti avevano memoria –
e forse il motivo del buon rapporto che correva fra lui e Ruby era da
ricercarsi proprio lì: lei era una gran chiacchierona,
dopotutto. A Ruby non era mai dispiaciuto scambiare qualche frase con
lui da Granny's. Archie sembrava sempre disporre
delle cose giuste da dire e del tempo per dirle, al contrario di lei,
eppure talvolta sembrava il più bisognoso di attenzioni. Non
si poteva dire fosse dotato di particolare avvenenza, con quei capelli
rossi e quell'aria da primo della classe, ma c'era qualcosa di
rassicurante nel modo calmo con cui gesticolava. Anche quando non
diceva nulla di importante, la sua voce pacata era calamitante.
«C'è
una cosa che vorrei chiederti, Ruby» disse, abbassando il
capo e sistemando nervoso gli occhiali, «ma non vorrei
suonare inappropriatamente ficcanaso».
Confusa, Ruby si
accomodò meglio sulla poltroncina davanti al tavolo che
stavano occupando e inclinò la testa.
«Cosa?».
Lui le rivolse
un'occhiata eloquente.
«Sei
ancora intenzionata ad andare a Boston?».
«La nonna
ha bisogno di me» rispose con franchezza. «Sono
stata egoista a pensare di andarmene per così tanto tempo...
non è vero?».
Archie si
rigirò fra le mani il bicchiere di soda.
«Cercavi
solo il tuo spazio nel mondo. È quello che facciamo
tutti».
«No, non
era quello che cercavo. Io volevo...»
s'interruppe con uno sbuffo e mosse a mezz'aria la mano. «Non
lo so, Archie. Forse volevo scappare e basta. Storybrooke è
così noiosa, a volte...».
Lui
inarcò dubbioso un sopracciglio.
«D'accordo,
lo era prima dell'arrivo di Emma» si
corresse Ruby, facendo le spallucce. «Ma hai capito quello
che volevo dire, no? Era tutto uguale, non c'era mai niente di nuovo...
e stare rinchiusa qui dentro tutto il giorno era così
frustrante! Andrei a farmi un giro da qualche parte, se solo Ashley non
mi avesse distrutto la macchina. Beh, qualcuno direbbe che perlomeno
non ci ha partorito dentro. Non che sia arrabbiata con lei,
naturalmente... che razza di persona potrebbe mai arrabbiarsi per una
cosa del genere? Qualcuno come Gold, magari, lui sì... mi
sono venuti i brividi quando ho saputo cos'ha fatto al povero Maurice.
Ma lui è stronzo, dai, lo sappiamo tutti. Sapevi che voleva
portarsi via la bambina? Ma dico, si può essere
più stronzi?» si
bloccò improvvisamente, accorgendosi solo in quell'istante
di aver parlato a raffica. «Oh. Scusa, Archie... a volte la
lingua mi parte da sola».
Lui era rimasto ad
ascoltarla con un sorriso gentile dipinto sulle labbra e il viso
appoggiato al palmo della mano.
«Sei in
gran forma» le disse con affetto.
«Come?».
«Qualunque
cosa tu abbia vissuto con Emma ti ha cambiato molto. È
incredibile vedere la velocità con la quale sembri essere
cresciuta».
Ruby si
umettò imbarazzata le labbra. Avvertiva un fastidioso
rossore sulle gote.
«Oh...
grazie».
«Non ti
avevo mai sentito parlare così tanto degli altri. Hai sempre
parlato molto di te».
Lei distolse lo
sguardo e si attorcigliò una ciocca di capelli attorno
all'indice.
«È
solo... mi ha fatto capire molte cose di me che non credevo... di
possedere, ecco. Vedo le cose da un'altra prospettiva,
adesso».
«Quale
prospettiva?».
«Non devo
sottovalutarmi» sorrise grintosa. «Posso offrire
davvero molto... e soltanto uno scemo non se ne
accorgerebbe».
*
Non
aveva la più pallida idea di dove avesse trovato il coraggio
di scendere nei sotterranei nel castello a quell'ora della notte.
Insinuarsi fra le gambe delle guardie reali e scivolare
nell'oscurità della prigione trascinandosi appresso quella
tazzina era stato piuttosto difficile, tuttavia era la voce petulante
nella sua testa il peggiore nemico: lo costringeva a fermarsi in
continuazione, a domandarsi ancora e ancora cosa stesse facendo. Cosa
gli era saltato in testa? Era impazzito, senz'ombra di dubbio, e aveva
perso la capacità di frenarsi dinanzi a sciocchezze
imprudenti come quella. E lo stava facendo solo per lei, per quel
sorriso innocente e per i suoi occhi tristi, così giovane,
brillante, incastrata in una situazione fin troppo più
grossa di lei.
All'inizio aveva
creduto che il proprio animo altruista si sentisse in dovere di starle
accanto, di porgerle parole di conforto ad ogni luna piena; poi aveva
capito di nutrire un affetto sincero per Red e la loro amicizia era
diventata di giorno in giorno più intima e confidenziale; le
aveva insegnato a giocare a scacchi – e alla fine, lei era
riuscita a metterlo in scacco matto. Quando lei aveva distrutto
l'ultimo ostacolo che ancora divideva la loro amicizia da qualunque
altra cosa era già troppo tardi.
"Se tu non fossi un
grillo, probabilmente mi sarei già innamorata di te."
Lui non aveva
saputo come replicare. Per la prima volta dopo decenni, Jiminy Cricket
era rimasto a corto di parole giuste. E ora era del tutto uscito di
senno, perché solo un pazzo si sarebbe arrischiato a fare
ciò che stava facendo lui. Cosa sarebbe accaduto se Snow lo
avesse scoperto? Come avrebbe potuto scusare la sua scelleratezza
– proprio lui, che aveva fatto della coscienza un'arte.
Le luci delle torce
ballavano sulle umide pareti di pietra e la sua ombra svolazzante che
traballava a causa del peso della tazzina era piuttosto inquietante.
Non si udiva altro rumore che il frenetico ronzio delle ali di Jiminy.
«Ce
l'hai, grillo?» si levò ansiosa la voce minacciosa
di Rumpelstiltskin.
«S-sì...»
gracchiò a fatica, aggrappandosi con difficoltà
alle sbarre della prigione del demone.
Fu questione di un
lampo: prima ancora che potesse rendersene conto, gli artigli di
Rumpelstiltskin si erano serrati attorno al piccolo manico di
porcellana. Jiminy venne sbalzato via dall'urto e capitolò
sul freddo e sporco pavimento della cella. Nell'oscurità di
un angolo, Rumpelstiltskin si rigirava fra le mani la tazzina come se
ne dipendesse la sua intera esistenza. Il piccolo grillo rimase a
fissarlo per quale minuto, cercando di capire per quale assurdo motivo
il più potente demone del reame avesse nutrito
così ferocemente il desiderio di un oggetto talmente comune.
Era forse una tazza maledetta? Rumpelstiltskin gli aveva giurato il
contrario, ma quanto poteva fidarsi di lui? Già una volta
aveva dato ascolto alle sue menzogne, e forse quella volta avrebbe
dovuto essergli sufficiente. O forse no.
«Avevamo
un patto...» gli ricordò debolmente.
«Sì,
i patti erano questi, non è vero?»
sibilò mellifluo Rumpelstiltskin. I suoi occhiacci gialli
scrutavano furtivi Jiminy. «Ed io che credevo ti fossi
abituato a vivere fra i tuoi simili».
«Sii un
uomo d'onore» lo redarguì severamente, librandosi
fino all'altezza del suo volto grottesco. «Rispetta il nostro
patto».
«Io onoro
sempre i miei patti!» esclamò stizzito.
«Dunque, ecco cosa ti dirò: mangia un petalo delle
rose».
«Rose?
Quali rose?».
«Le mie
rose, razza di sciocco insetto. Le rose dei miei giardini. Un
petalo, non di più e non di meno, e avrai un'ora di tempo da
poter trascorrere con i pantaloni. E bada di non rovinarle o ti
schiaccerò sotto la suola dei miei stivali come un... beh, come
un grillo».
Jiminy
cercò il suo sguardo un'ultima volta, ma Rumpelstiltskin era
già svanito nel buio.
«Quella
tazza è un ricordo, vero?» domandò nel
vuoto.
La sola risposta
che ottenne fu l'eco di un singhiozzo soffocato dalla polvere.
*
«Ruby,
santo cielo!» urlò a gran voce, sperando di farsi
udire al di sopra del frastuono della forte pioggia. «Che ci
fai fuori con questo tempo da lupi?».
La giovane
sollevò la borsa con cui stava cercando di coprirsi la testa
e si fiondò sotto l'ombrello di Archie. La giacca rossa era
fradicia e il mascara le era colato attorno agli occhi.
«Potrei
chiederti la stessa cosa».
«Io ho
appena accompagnato Henry a casa» spiegò
frettolosamente Archie, stringendola al fianco per evitare che si
bagnasse ulteriormente. «Perché non hai aspettato
da Granny's che questo acquazzone
terminasse?».
«Non
pioveva quando sono uscita!» si lamentò lei.
«Non sono mica scema. Porca miseria, erano anni che
non vedevo tutta quest'acqua!».
Cercarono rifugio
sotto la tettoia della farmacia, ma sembrava davvero di essere nel bel
mezzo di un diluvio. I tombini rigettavano l'acqua e le grondaie sopra
le loro teste cigolavano minacciose. Erano gli unici due idioti a non
essere al riparo in casa.
«Dannazione»
brontolò Ruby. «Dovrò correre come una
scheggia per arrivare a casa».
«Non dire
sciocchezze» ribatté deciso Archie, infilando una
mano nella tasca del cappotto ed estraendo un modesto mazzo di chiavi.
«Nel migliore dei casi ti beccheresti una
polmonite».
«E nel
peggiore?».
«Verresti
rapita dagli alieni» scherzò, mentre apriva il
catenaccio della porta accanto al negozio e la faceva entrare per
prima.
«Sarebbe
divertente. Credi che abbiano un phon?».
«Non
saprei, ma spero ti accontenterai del mio».
Ruby non aveva mai
visitato l'appartamento di Archie, e non fu affatto stupita di
ritrovarsi circondata da una singolare distesa di vecchi mobili.
L'arredamento era disposto in modo pratico ed efficiente, ma ogni
cassettiera e credenza possedeva qualcosa di particolare. Intarsi
strani, decorazioni floreali, buffi intagli di legno... c'era qualcosa
di fiabesco perfino nel piccolo divano verde. Poi c'erano pile di libri
ovunque, e quella forse era l'unica nota disordinata della casa. Grossi
tomi dalle copertine rigide sporgevano da ogni parte, riempivano le
mensole e ce ne erano perfino accatastati dietro alla porta.
Pongo sonnecchiava
beato sul tappeto davanti al piccolo televisore – un'evidente
patina di polvere ne ricopriva lo schermo nero. Sollevò il
muso verso di loro e scattò sulle zampe come una molla in
direzione di Ruby.
«Oh,
cielo, Pongo!» cercò di fermarlo Archie,
trattenendolo per il collare. «Stai calmo».
Ruby si era
già chinata per coccolare il grosso dalmata.
«Niente
bacon, questa volta. Mi dispiace».
Nel frattempo,
Archie si era sfilato il cappotto e lo aveva appeso all'attaccapanni
accanto all'ingresso.
«Il bagno
è da quella parte, Ruby. Seconda porta a destra»
le disse con un sorriso. «Gradisci una tazza di
tè? Caffè?».
«Cioccolata?».
Lui
sembrò trattenere una risatina.
«Cioccolata».
Il resto della casa
di Archie era esattamente come il salotto: pratica e ordinata, ma con
pile di libri in ogni posto. L'unica stanza dove sembrava non ce ne
fossero era il piccolo bagno dalla mattonelle blu. Aveva un aspetto
davvero molto lindo.
Ruby accese la luce
della specchiera e trattenne a stento un'imprecazione scurrile. Da
quanto tempo aveva il mascara sparso su tutta la faccia? Aveva i
capelli fradici appiccicati alla fronte e un aspetto pietoso.
Aprì il rubinetto e si sciacquò con decisione il
viso, cercando di levare ogni residuo di trucco. Si stava giusto
guardando intorno alla ricerca di un asciugamano, quando la voce di
Archie arrivò dall'altra parte della porta.
«Ti ho
appoggiato un asciugamano pulito sul treppiedi qui fuori»
disse. «E... ecco, nel caso volessi toglierti quei vestiti
fradici, c'è anche una tuta da ginnastica. Puoi appendere i
tuoi nella doccia, per il momento».
«Non
voglio disturbare troppo, Archie».
«E io non
voglio che tua nonna mi tiri le orecchie per averti lasciata morire
congelata».
Ruby rise. Si
levò la maglietta e i jeans e represse un brivido; quando
infilò la gamba destra all'interno dei pantaloni grigi della
tuta, fece un sospiro di meraviglia. Sfregare la pelle infreddolita
contro il tessuto caldo e felpato generava una sensazione splendida. Si
guardò un'ultima volta allo specchio prima di uscire e fece
un'espressione dubbiosa: la tuta era gigantesca e le calzava come una
tenda bagnata, i capelli erano scompigliati e il viso era privo di
colore.
Quanto fu tornata
nel salotto, Pongo si era nuovamente appisolato sul tappeto e Archie
aveva appena appoggiato due tazze fumanti sul piccolo tavolino accanto
al divano. Sollevò gli occhi su di lei e non fu in grado di
trattenere il proprio divertimento.
«Sembri
molto a tuo agio nella mia tuta».
«Oh, va'
al diavolo» gli disse con un sorriso altrettanto allegro.
«Ma grazie lo stesso».
«È
un piacere. Coraggio, siediti».
Ruby si
accomodò accanto a lui. Se inizialmente il divano le era
sembrato piccolo, in quel momento fu costretta a ricredersi. Era
piccolo, sì, ma i cuscini erano morbidi e lo schienale molto
comodo. Si appollaiò sul bracciolo e prese la tazza di
cioccolata che Archie le stava offrendo.
«Grazie».
«Stai
attenta: è bollente».
Lei
soffiò con attenzione prima di posare con cautela le labbra
sul bordo di porcellana.
«Come sta
Henry?» si informò dopo qualche secondo.
«È da un po' che non lo vedo».
Archie emise un
triste mugugno.
«È
confuso... quale ragazzino di dieci anni non lo sarebbe? Soffre ogni
giorno le cause dei diverbi fra Emma e Regina ed è
così...» fece un lungo sospiro, «...frustrante
non essere in grado di aiutarlo».
«E con le
fiabe? Ci crede ancora?».
L'espressione di
Archie era oltremodo sbigottita.
«Come sai
che...?».
«Mary
Margaret».
«Ah,
giusto...» annuì appena. «Il libro
apparteneva a lei».
«Io chi
sono?» s'informo curiosa Ruby, inclinando il capo.
«Come?».
«Nella
fiaba. So che ha dato ad ognuno di noi un personaggio. Mary Margaret
dovrebbe essere Biancaneve. Piuttosto azzeccata, non trovi?».
L'uomo si
lasciò trasportare da una tiepida risata.
«Sì,
lo è».
«Allora?
Chi sono io? Una principessa?».
«Decisamente
no» rispose divertito Archie. «Crede che tu sia
Cappuccetto Rosso».
Ruby rimase in
silenzio per qualche secondo, poi le sue labbra si strinsero fra loro e
dopo poco fu travolta da un'irrefrenabile risata. Rise al punto tale da
essere costretta ad appoggiare la tazza sul tavolino per timore di
rovesciarsi addosso la cioccolata calda. Archie la osservò
con un sorriso spensierato e per un attimo fugace si ritrovò
a pensare a quanto suonasse familiare la sua risata argentina.
«Cappuccetto
Rosso...» ripeté con le lacrime agli occhi.
«Oh, cielo... questa è la cosa più
buffa che abbia mai sentito. E chi sarebbe il mio lupo
cattivo?».
«Non ne
ho idea. Henry non mi ha rivelato tutte le nostre... identità
segrete».
«Scommetto
che è Gold» propose con decisione lei.
«È lui, il bastardo di Storybrooke. E tu, invece?
Tu chi dovresti essere?».
Archie si
raddrizzò gli occhiali e le rivolse uno sguardo imbarazzato.
«Beh,
ecco... io sarei il Grillo Parlante».
Se la prima risata
di Ruby era stata un'esplosione di giubilo, la seconda parve rasentare
la follia. Archie continuò a guardarla ridere senza sosta,
acciambellata all'altro capo del divano come un gatto. La sua presenza
lo rendeva nervoso. C'era qualcosa di strano nel saperla
così vicina, con indosso la sua tuta da ginnastica e con il
viso limpido e pulito. Non ricordava di averla mai vista
così naturale e genuina, eppure c'era qualcosa in quel
salotto... o forse era qualcosa nella sua risata? L'aveva
già sentita, l'aveva già vissuta, ma non
ricordava dove.
«Archie?».
«Sì?».
«Tutto
bene?».
«Sì,
sì... certo. Era solo un déjà
vu».
«Sai,
credo che tu saresti un perfetto Grillo Parlante» gli
confidò con espressione birbante. «Dico sul serio.
Fa ridere un sacco immaginarti con le antennine e l'ombrellino, ma
sotto sotto mi sembra calzante. Beh, di sicuro più di me nei
panni di Cappuccetto Rosso».
«Perché
ti suona così strano?».
Ruby
sbatté un paio di volte le palpebre con aria stordita, come
se stentasse a capire il senso della sua domanda.
«Ma dai,
Archie! Cappuccetto Rosso? L'adorabile bambina che andava per i prati a
raccogliere i fiorellini per la nonna?».
«Hai
dimenticato il cestino».
«Il
cestino!» esclamò melodrammatica, portando una
mano alla fronte. «Come ho potuto dimenticare il
cestino?».
Fu il turno di
Archie di ridere.
«Cappuccetto
Rosso è un personaggio molto ambiguo» le disse
poco dopo. «Qualcuno sostiene che rappresenti la perdita
dell'innocenza».
Ruby
aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito e
scosse la testa.
«Okay,
magari vista così ha la sua logica».
«No, non
ne ha» la corresse franco lui. «Dove mai avresti
perduto la tua innocenza?».
La giovane si
umettò le labbra e rivolse all'uomo un'occhiata
incredibilmente eloquente. Non appena Archie ne ebbe inteso la ragione,
arrossì di colpo.
«Non
intendevo in quel senso!».
«E quanti
altri sensi ci sono?».
«Beh,
innanzitutto...» iniziò con decisione lui, ma si
interruppe di colpo e rimase a fissarla con la bocca aperta, incapace
di trovare le parole. «Innanzitutto, non ne ho
idea».
Lei
ridacchiò nel palmo di una mano.
«Ma non
penso che tu possa rappresentare un personaggio privo di innocenza. Non
in senso cattivo» spiegò con voce bassa,
continuando a tormentarsi gli occhiali. «Voglio dire... guardati.
Io non... non ti avevo mai visto... così».
Ruby era confusa.
«Così...
come?».
«Con una
tuta sformata che non ti rende onore e i capelli scarmigliati.
E...» gesticolò incerto con la mano alla ricerca
delle parole adatte, «...i tuoi occhi sono sempre stati
verdi?».
Lei
aggrottò le sopracciglia.
«Certo».
Archie scosse la
testa con un tenero sorriso.
«È
impossibile notarli sotto tutto quel mascara».
«Non
è mascara» lo corresse cordialmente Ruby,
mordicchiandosi l'interno della guancia. «È eyeliner».
Aveva parlato con
la lentezza misurata con la quale si sarebbe rivolta a un bambino, ma
la verità era che non riusciva a distogliere lo sguardo
dagli occhi azzurri di Archie. Era solo un
déjà vu. Eppure Ruby aveva
l'impressione che fosse qualcosa di più profondo e reale;
era la sensazione che ci fosse qualcosa di tremendamente giusto in quel
momento, qualcosa di già scritto, di già deciso,
di incontestabile. La sua mano destra si sollevò per
sfilargli gli occhiali dal naso – e non si accorse nemmeno di
avere un'unghia smaltata di rosso scheggiata. Per un secondo di cui non
riuscì a conservare alcun ricordo rivisse l'impressione di
essere già stata su quel divano, con il sapore della
cioccolata sulla lingua e gli occhiali di Archie fra le dita. Era tutto
assurdo, tutto confuso, eppure non riuscì a impedirsi di
appoggiare le proprie labbra su quelle dell'uomo.
"Se tu non
fossi un grillo, probabilmente mi sarei già innamorata di
te".
*
Red
correva a perdifiato lungo gli sfarzosi corridoi del castello, con il
sordo rumore delle suole degli stivaletti che rimbombava fra le pareti.
Il cappuccio rosso le era scivolato dal capo e i lunghi capelli mori
ondeggiavano alle sua spalle come la criniera di un leone. Sembrava
terrorizzata.
«Jiminy!»
strillava con quanta voce aveva in gola. «Jiminy!».
«Red!»
si levò un grido acuto. «Da questa
parte!».
La ragazza si
voltò di colpo e imboccò un altro corridoio alla
propria destra. Jiminy svolazzava in modo convulso accanto a Geppetto,
stravolto e con le guance rugose umide di lacrime asciugate in fretta.
«Regina
è--».
«Nel
castello, sì!» esclamò concitato
Jiminy. «Vogliamo fuggire attraversando le cucine!».
«Non
servirà a nulla» mormorò roco Geppetto,
scuotendo tristemente il capo. «La maledizione ci
colpirà comunque».
«Lo
farà di certo, se non cerchiamo di fuggire» lo
redarguì serio il grillo. «Geppetto, ti prego: non
puoi arrenderti ora».
Ma negli occhi
dell'uomo si leggeva tutta un'altra verità e per Ruby fu
facile capire quello che stava passando per la sua testa.
«Dov'è
Pinocchio?» s'informo d'un tratto, accorgendosi solo in
quell'istante della mancanza del bambino.
Geppetto
abbassò il capo e serrò gli occhi con aria
addolorata, ma le piccole zampette anteriori di Jiminy si erano
già strette attorno all'orlo del mantello di Red e avevano
iniziato a strattonarla.
«Al
sicuro» la liquidò in fretta. «Dobbiamo
andarcene in fretta. Adesso!».
La sua voce era
forzata, distante, ma la ragazza non ebbe il tempo di porre altre
domande. Ripresero a fuggire attraverso il salone delle armature,
sobbalzando ogni qual volta udivano un nuovo boato risuonare in qualche
ala del castello. Il pavimento tremava sotto i loro piedi, e Red aveva
afferrato con forza la mano di Geppetto e continuava a correre dietro
la scia di Jiminy, con le piccole ali che sbattevano all'impazzata.
Mantenere l'equilibrio sembrava impossibile e Geppetto sembrava
svuotato di qualunque forza. Erano appena arrivati alle scale che
conducevano alle cucine, quando l'uomo si fermò. Red
pensò che non avrebbe mai dimenticato la solenne tristezza
che aleggiava nei suoi occhi.
«Geppetto,
no...» lo pregò Jiminy.
«Portala
lontano da qui».
«Geppetto...».
«Ho
già fatto quello che era giusto fare!»
esclamò. «Ma non ho più la forza di
seguirvi... Jiminy, scappa».
Red lo scosse con
forza per le spalle.
«Geppetto,
non--».
«Andate!».
Jiminy era rimasto
immobile e fissava il vecchio amico con le antenne chine verso il
pavimento. Red lo guardò, intuendo in un lampo quello che
aveva intenzione di fare.
«No!»
strillò. «Jiminy, non--».
«Ci
rivedremo» la ignorò lui, senza distogliere lo
sguardo da Geppetto. «Te lo giuro, amico mio. Troveremo il
modo di rivederci. Succeda ciò che deve succedere, io
farò del mio meglio per rimanere al tuo fianco».
Le labbra del
vecchio si piegarono nel primo vero sorriso.
«Lo
so» sussurrò appena, appoggiando la schiena alla
parete e socchiudendo gli occhi con improvvisa serenità.
«Ci sei sempre stato».
Un nuova esplosione
risuonò nel corridoio, e Red fu costretta a sorreggersi ad
una grossa armatura per non scivolare a terra. Sollevò gli
occhi spalancati su Jiminy, muovendo appena la testa a destra e a
sinistra. Il piccolo grillo le fluttuò temerario accanto e
si sistemò il cappello sulla testolina.
«Coraggio,
Red».
Si catapultarono
lungo le scale che conducevano alle cucine. Le stanze erano deserte, ma
la porta che si affacciava sull'ampio cortile era spalancata. La
attraversarono in fretta, mentre il vasellame e i piatti crollavano
dagli scaffali di legno e si infrangevano in terra. Fuori non c'era
anima viva, né lungo il sentiero che conduceva alle stalle
né sotto il largo porticato che correva attorno al perimetro
del castello.
«Bontà
del cielo...» mormorò spaurita Red, stringendosi
nel cappuccio e alzando gli occhi verso l'agghiacciante nuvola scura
che stava iniziando ad avvolgere le torri più alte.
«Jiminy, cosa sta succedendo!?».
Il grillo le
svolazzò davanti e si appoggiò sul suo polso, con
lo sguardo puntato nella stessa direzione. Red notò solo in
quel momento lo strano tessuto rosso che Jiminy si era legato alla
vita. Lo sfiorò appena con un dito.
«Un
petalo?» mormorò.
Jiminy
sobbalzò.
«Non ha
importanza» le rispose tristemente. «Non ha
più importanza...».
Alla giovane
sfuggì un singhiozzo. Jiminy aprì la bocca per
dire qualcosa, ma poi tutto parve scoppiare. Il terribile boato fece
cadere Red, che crollò sulle ginocchia al centro del
cortile. Il cappuccio le scivolò davanti al viso,
oscurandole la vista per qualche istante. Quando fu in grado di
scoprirsi, i suoi occhi erano rigati di lacrime. Jiminy si
appollaiò fra le sue mani abbandonate sul grembo e fece un
respiro sconfitto.
«Mi
dispiace, Red...» mormorò laconico.
«Jiminy...».
«Non
posso proteggerti. Non da questo» continuò,
levandosi il cappello e abbassando le antenne. «Io sono solo
un grillo».
Il vento ululava
distruttivo, spaccava le finestre e faceva crollare le tegole dei
tetti. Il pianto di Red aumentava, ma il suo viso manteneva
un'espressione di fiero contegno. Jiminy la vide arrangiare un sorriso
fiducioso con estremo sforzo.
«Resta
con me. Qualunque cosa succeda, devi promettermi che resterai con me.
Non lasciarmi sola...» lo implorò in un sussurro.
«Non lasciarmi sola, Jiminy».
Jiminy le
posò una zampetta sull'indice e annuì con tiepida
speranza.
«Sono
qui».
*
Era stata questione
di un lampo, niente di più e niente di meno. Un attimo prima
camminava accanto alla nonna, con le mani strette attorno allo scialle
rosso e un attimo dopo tutto il mondo le era crollato addosso. Fu come
riemergere da profondissime acque e prendere finalmente fiato
– come se si fosse svegliata da un sonno durato secoli.
Lei e sua nonna rimasero inebetite per qualche secondo, mentre si
guardavano intorno con aria disorientata.
«Red...»
mormorò debolmente la vedova Lucas.
Red la
fissò con la bocca spalancata. Era tutto così
confuso. La maledizione, Granny's, il suo
cappuccio, la sua macchina rossa, la fuga disperata dal castello
attraverso le cucine, la sua avventura fra i lemuri, Emma, il vento che
frantumava i vetri, il cuore nel portagioie, Jiminy stretto fra le sue
mani...
«Jiminy!».
La nonna non ebbe
il tempo di fermarla. Red lasciò cadere la borsetta e prese
a correre con tutte le proprie energie verso la piazza di Storybrooke,
senza alcuna logica e senza alcuna meta, con il sangue pompato a mille
nelle vene e un'unica frase a rimbombarle nelle orecchie.
"Non
lasciarmi sola."
Gli abitanti di
Storybrooke parevano condividere la stessa confusione disorientante
della giovane e qualcuno di loro la vide sfrecciare fra le macchine in
sosta e gridò:
«Red! Red
Riding Hood!».
Lei non li
udì nemmeno e continuò a correre sempre
più velocemente, sempre più spaventata e la voce
di Jiminy sembrava trascinarla ad ogni balzo.
"Sono qui."
«Jiminy!»
urlò disperata per la strada, volgendo con frenesia lo
sguardo da sinistra a destra e con le mani affondate nella chioma
scura. «Jiminy! Jiminy!».
«Red?».
Si girò
di colpo e non pensò a nulla per diversi istanti. Il cuore
le batteva impaziente nel petto, aveva il fiato corto per la corsa
sfrenata e per tutta quella follia che agitava la sua testa. E poi lo
vide, immobile davanti alla porta dello studio con la sua stessa
espressione sconcertata e persa – Archibald Hopper, psichiatra
– e le parve di non poter più respirare.
Archie, il castello che crollava, i suoi ridicoli occhiali, un grillo
stretto fra le mani, il tremendo desiderio che potesse essere un uomo,
solo per una volta, solo per un istante... corse verso di lui senza
nemmeno accorgersene.
Lo
contemplò con la mente vuota, scuotendo incredula il capo.
Lui respirava appena e sembrava incapace di comprendere appieno cosa
fosse accaduto. Red sollevò l'indice e gli sfiorò
delicatamente la mandibola, mentre un timido sorriso iniziava ad
affacciarsi sul suo viso.
«Sei...
tu sei...» balbettò incoerente, scuotendo febbrile
la testa.
Jiminy le prese il
volto fra le mani e si lasciò andare ad una risatina carica
di nervosa felicità.
«Io sono
qui».
*
Ci tengo a ringraziare
con tutto il cuore Rowena e Lely1441 per l'incredibile lavoro svolto
per questo apocalittico contest.
Grazie.
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