H.O.C.H.
Capitolo
pilota
Correva e il
fiato gelava lungo la trachea.
Correva e i
polmoni si riempivano e svuotavano rapidamente dell’aria
invernale.
Correva e sentiva
il cuore scoppiare.
Correva e le vene
spingevano le tempie.
Correva e il
sangue caldo penetrava nella carne.
Tossì
irrigidendosi.
Erano minuti che
inseguiva tra rami morti ed erba nera un uomo.
Puntò
la pistola verso le gambe del suo obbiettivo, la distanza non era
eccessiva. Tirò il cane della pistola e l’indice
forzò il grilletto. Il proiettile di metallo
colpì invisibile una gamba dell’uomo che cadde a
terra, come se il suo scheletro fosse evaporato.
Fasci di luce si
muovevano saltellando tra i rami di quel bosco, che si avvicinarono
all’uomo steso a terra.
“Bel
lavoro amico”. Un ragazzo gli toccò la spalla
destra e corse armato verso l’uomo colpito.
Arrancava
l’aria fredda a fatica. Si sedette a terra in cerca di
sollievo, ma quel manto nero era gelido ed umido.
Non era ancora il
momento d’interrogare la propria coscienza o di pregare per
la propria anima.
Si
alzò stringendosi con la mano l’addome sentendo
con le dita gelide la camicia che copriva il giubbetto antiproiettile e
s’avvicinò all’uomo a cui aveva sparato.
Afferrò
una trasmittente e comunicò che il target era a terra.
Puntò
nuovamente l’arma violenta contro l’uomo, non
notando che altre tre mani erano intente nella stessa cosa.
“Cos’è
‘H.O.C.H.’?”.
L’uomo
a terra scoppiò in una malsana risata che li fece
sussultare. “Fanculo!”. Quella provocazione smosse
l’animo dei presenti che tremavano dalla rabbia.
“Te lo
ripeto: cos’è
‘H.O.C.H.’?”. Non si spazientì
e riformulò la domanda.
“Anch’io
te lo ripeto: FANC...!”. Un violento pugno gli
girò la testa facendogli sfuggire del sangue dalle gengive.
“Non
sei nella posizione adatta, rispondimi o questa volta ti sparo alla
testa…”. Era sempre stato una persona impulsiva e
dalla scarsa pazienza.
“N-non
lo so”.
“Dimmelo!”.
Non suonava più come una richiesta, ma come un ordine.
“Non lo
so!”. Un altro pugno strappò l’insolenza
dal volto di quell’uomo, che a terra gemette.
“Cos’è
‘H.O.C.H.’?”.
“E’
il codice Asklepius” Questo lo sapeva bene.
“Per
cosa?”.
“Minacci,
ma non agisci!”. Odiava sentirsi dire parole che tagliavano
il suo orgoglio. Sapeva che non doveva esagerare, doveva frenare il suo
istinto, così, clemente, gli scagliò
l’ennesimo pugno al volto sfigurato dalla sofferenza.
“Perché
non parli?”.
“E’
un codice per-”. La voce si spezzò come cristallo
azzurro in un soffio di vento nero. Un proiettile perforò
l’occhio sinistro dell’uomo uccidendolo sul colpo.
Il sangue scaldato dalla paura e dall’impeto della fuga
bagnava il volto dell’uomo prosciugando la sua anima della
linfa vitale.
Nessuno dei
presenti aveva sparato, il colpo proveniva dagli alberi della foresta.
“Merda!”.
Tutti si voltarono nel senso opposto puntando la pistola e scrutando
tra le tenebre nere chi potesse aver sparato. Cercavano un assassino
dall’occhio felino.
“Il
target è deceduto, inoltre siamo sotto tiro”.
Versò parole nella trasmittente.
“Ci
pensiamo noi. Allontanatevi immediatamente”. Una risposta
giunse metallica.
Nessuno vide
qualcosa e lentamente, avanzando in stato d’allerta, puntando
le pistole nel vuoto tetro, si avvicinarono al SUV nero con cui tutti
tranne lui s’erano mossi.
Uno di loro
aprì tutti gli sportelli ed entrò per
controllare, mentre gli altri scrutavano l’esterno.
“Nulla
fuori posto!”. Parole maledette dallo stesso alito di morte
che poco prima li aveva sfiorati. Un proiettile silenzioso
perforò la camicia e il giubbetto, progettato per salvare la
vita umana da un’arma da fuoco, allo sventurato che
dimostrò di conoscere bene la canna di una pistola. I
presenti si voltarono verso il compagno ferito, che
s’accasciò a terra mantenendo l’arma
rigida verso il vuoto nero. Sentiva la disperata volontà di
mantenersi cosciente e la forza per non abbandonarsi alla sofferenza
del metallo che gli aveva frantumato l’ultima costola destra.
Un ragazzo lo
sollevò tirandolo per il braccio sinistro e lo fece salire
al sicuro sul SUV.
“Abbiamo
un ferito, mi dirigo all‘ospedale”.
L’uomo che aveva ispezionato l’auto
comunicò l’accaduto in modo meccanico.
Una volta a bordo
del mezzo, si diressero rapidi verso la città che viveva
sotto la luce artificiale dei grattacieli di cristallo.
“Sei
conciato male…”. Un ragazzo dai capelli corvini
leggermente mossi e dallo spirito di fiamma commentava la ferita del
compagno.
“...potrebbe
venirti una setticemia e potresti addirittura morire”.
Commentò questa volta un uomo con i capelli ricci e castani,
seduto sul secondo sedile anteriore.
“La
vuoi smettere? Vuoi che crepi, eh?”. Le parole erano sputante
nel sangue.
“Ahaha!
Io si!”. Il ragazzo dai capelli corvini rise divertito dal
suo macabro sarcasmo.
“Se
morissi, da chi scroccheresti i soldi per la birra?”. Cercava
parole per distrarsi dal dolore.
“Dal
mio amicone, non è così bel biondino?”.
Il giovane dai capelli mossi si rivolse al conducente.
“Anche
no”. Rispose il guidatore. ”…che
dirà tua moglie?”. Chiese al ferito che prima di
rispondere sospirò.
“S’arrabbierà,
questa camicia me l’ha regalata lei…”.
Disse mentre le mani premevano sulla ferita e il sangue macchiava i
sedili.
Gli amici che
tentavano di distrarlo e d’incoraggiarlo per non fargli
chiudere gli occhi e la sua sofferenza: la scena gli ricordava il film
‘Reservoir dogs’ del suo amato regista Quentin
Tarantino, di lui conosceva ogni minuzioso particolare.
L’auto
nera sfrecciava lungo le ampie strade della città,
abbandonando le sfavillanti luci degli uffici del centro e delle
antichità romane.
Giunsero in pochi
minuti al pronto soccorso, dove il conducente si fermò per
fare scendere il prima possibile il ferito.
“Io
resto qui ragazzi, non potrei mai abbandonare a questo gelo la mia
‘Bambolina’”. Avvisò il
guidatore accarezzando l‘auto nera, mentre gli altri
correvano portando il compagno ferito all’interno del Pronto
Soccorso.
La carne bruciava
e il sangue correva ancora, tanto da assaporarlo sulla lingua. Ormai la
sensazione e l’odore di quel rosso scarlatto lo nauseavano.
Sentiva sulla
camicia anche l’odore di morte che ormai lo accompagnava e
gli donava il pericolo da sei anni.
Nausea, come la
prima volta che sparò ad un uomo.
Nausea, come la
prima volta che vide morire un compagno.
Nausea, per
essere carne e carnefice.
Le luci
artificiali facevano risplendere il pavimento in marmo latteo che
lentamente si macchiava di minuscole gocce di sangue.
Una barella gli
corse incontro spinta da alcuni infermieri dai camici immacolati. La
mente lo stava abbandonando al sangue. Cadde a terra a causa di una
vampata di dolore, non riuscendo più a sostenersi sulle
spalle dei compagni. Le voci soffuse gridavano qualcosa per lui
incomprensibile. Chiuse gli occhi per vedere tenebre azzurre.
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Achamo
& il suo inutile monologo…
”Questo
è il capitolo pilota, molto ridotto, di una storia che sto
scrivendo da tempo e che difficilmente pubblicherò su EFP a
causa della sua lunghezza, ma che (mi auguro) vorrei pubblicare appena
terminata. Perciò, fatemi sapere cose ne pensate =) Vi
incuriosisce? Vi fa tremare e stare in ansia per il protagonista? Come
vi sembra la grammatica e il lessico? Siate sinceri e fatemi sapere. Vi
ringrazio in anticipo!".
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