I'm somewhere else

di Kyaelys
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"Sei strana."

 
"Si, lo so. Lo sono per scelta, per vocazione. Lo sono perché sopravvivo altrove, respiro caos e me ne compiaccio. Vivo in un limbo di scelte eterne."

 
"Non prenderla male. Era un complimento."

 
"Lo era? Non mi piacciono le persone, io non piaccio a loro. Non esistono veri individui, questo è il problema; tutti altro non sono che sovrapposizioni di maschere. Bè, certo, la maschera è la persona. Ma non sai mai chi hai di fronte."

 
"Io sono come sono. Non indosso maschere."

 
"Le maschere di cui parlo non vanno indossate, anzi plasmano le persone, ci si fondono. La maschera è ciò che ti identifica. Il problema e quando inizi a sovrapporne troppe, e dimentichi persino tu chi sei, chi eri in origine. Li si trova il caos. Che poi è la nostra materia prima."

 
"Non capisco. Sei strana."

 
"Me l'hai già detto."

 
"Parli mai con qualcuno di questi tuoi pensieri?"

 
"Ne parlo con me stessa."

 
"E non vorresti qualcuno con cui confrontarti?"
 

"Lo vorrei. Ma non si trovano così facilmente spiriti affini, in grado di comprenderti. Non sono in molti a respirare caos. La vita, frenetica, ci tiene sempre troppo ancorati a terra. Tutti a correre in cerchio per cose materiali, tutti ad affannarsi, inconsapevoli che non serve a niente."

 
"Puoi parlarne con me."
 

"Non capiresti."

 
"Dimostralo."
 

"Una volta conoscevo un ragazzo, il poeta, lo chiamavo. Lui respirava caos e poesia. Una combinazione affascinante e letale. Ci eravamo incontrati per caso alla fermata del treno e subito ci eravamo riconosciuti. Abbiamo iniziato a parlare, senza presentazioni. Perché sai, quando riconosci qualcuno, cose terrene e materiali come il nome, o l'età, o la città d'apparteneza, sono superflue."

 
"Eravate amanti?"
 

"Oh, no! Credo che il legame in questo caso fosse più metafisico. Per un anno ci incontravamo tutti i giorni, alla stessa ora. Sceglievamo un posto, a caso, che poteva essere un parco, un bosco, un fiume, una spiaggia, e passavamo ore nel più totale silenzio. Uno di fianco all'altro, consapevoli che la comunicazione reale è qualcosa di ben più profondo delle parole. Pensieri, parole scritte, disegni astratti. Questi, per noi, eran gli istanti perfetti. Poi trascorrevamo le ore sucessive respirando discorsi sconclusionati, frasi apparentemente senza senso; la gente ci indicava, ricordo, distogliendo lo sguardo, borbottava tra se e se ch' eravamo due pazzi. E noi, sorridendoci, continuavamo con i nostri discorsi, consci che noi, e noi soltanto, avremmo potuto comprenderli."

 
"E lui, ora, dov'è finito?"
 

"Si trasferii l'anno successivo all'estero, non ricordo dove."

 
"Capisco. Siete rimasti in contatto? Al giorno d'oggi è semplice. Cellulari, social networks...puoi raggiungere chiunque."
 

"Oh, no! Non ne abbiamo bisogno."

 
"Quindi per qualche strana forma d'orgoglio avete preferito interrompere così la vostra amicizia?"
 

"Non eravamo amici, non l'ho mai detto. E poi sai, a noi non servivano comunicazioni reali. Ci sentiamo ancora ogni tanto, quando scende la sera, nell' oscurità del nostro dedalo di pensieri."

 
"Non capisco."
 

"Non serve."

 
"Sei strana."
 

"L'hai già detto."

 
"Bè...ok. Ora devo andare."
 

"Te l'avevo detto, che non avresti capito."
 




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